Da: https://www.ilfattoquotidiano.it - Donatella Di Cesare è una filosofa e editorialista italiana professore ordinario di filosofia teoretica alla Università "La Sapienza" di Roma.
Si dimentica spesso che la parola propaganda non vuol dire solo diffondere, ma anche consolidare, fissare. Tutto deve essere ricondotto a schieramenti e fronti, ridotto a principi e dogmi. Guai a farsi domande, esibire incertezze! Perché la propaganda perlustra, seleziona e discrimina. Tanto più se, come durante questa nuova guerra mondiale del XXI secolo, è intenzionalmente militarista.
Non è un caso che ogni discorso debba iniziare – pena l’espulsione perpetua dallo spazio pubblico – con l’autodafé ormai celebre: “c’è un aggressore e un aggredito”. Questo è il fatto oggettivo, il “ragionamento basico”, che deve essere riconosciuto coram populo. L’autodafé, meglio se pronunciato con tono contrito, è il certificato temporaneo di anti-putinismo, il lasciapassare per potersi esprimere nel mondo della libertà di parola. Questo salvacondotto, tuttavia, dura poco e basta anche solo un “perché” o un “come mai” per finire di nuovo proscritti o diventare bersaglio in vario modo del furore bellicista.
Il deteriorarsi del dibattito pubblico nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di “grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella sfera pubblica. La bolla di internet non ne è il motivo, ma contribuisce all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni.
La guerra – si sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia, questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla. La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha deciso di dirottare il corso storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto, provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie, la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte, perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B. Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non potranno fare a meno di essere con quest’ultimo.
In questa nuova concezione della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero! Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede. La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo, scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a importunare.
In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare. Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione. Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione, però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio, interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi – che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla trappola.
Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi, ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi sono i valori democratici occidentali.
Noi complessisti cerchiamo di farcene carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate.
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