martedì 22 agosto 2017

NOTE SUI SIGNIFICATI DI “LIBERTÀ” nei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel*- Vladimiro Giacché**

*Da:  Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, 1990, n. 2.   **Economista italiano, laureato in filosofia 
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/totalitarismo-triste-storia-di-un-non.html 

1. Premesse generali

Negli ultimi anni, dopo decenni di preminente attenzione alle implicazioni della filosofia hegeliana del diritto sul terreno delle dottrine politiche e delle teorie della società, il panorama delle interpretazioni è venuto gradatamente mutando. Volendo dare conto delle principali novità interpretative, se ne possono indicare in particolare due: da un lato l’accresciuto interesse per il rapporto tra i Lineamenti di filosofia del diritto e la Scienza della logica e nei confronti di quelle che potremmo definire come le “costanti logiche” che operano all’interno della filosofia hegeliana del diritto i; dall’altro, il tentativo di leggere i Lineamenti hegeliani sul metro di una filosofia dell’azione, cercando non di rado di porre il pensiero di Hegel a confronto con i più recenti indirizzi teorici, manifestatisi soprattutto in ambito anglo-americanoii. Per motivi in parte differenti, entrambe queste nuove e feconde direzioni di lettura hanno portato con sé la necessità di fare i conti, più seriamente che in passato, con i paragrafi introduttivi dei Lineamenti (§§ 1-32), nei quali Hegel ci offre, come recita l’indice dell’opera, il “concetto della filosofia del diritto, del volere, della libertà e del diritto”. Per chi voglia, più in particolare, trattare la concezione hegeliana della libertà del volere, l’esigenza di affrontare direttamente i nodi teorici e le distinzioni di significato proposte nei primi paragrafi dei Lineamenti è sicuramente ineludibile. Nelle prossime pagine, dopo aver dedicato qualche breve considerazione ad alcuni princìpi e postulati generali di particolare rilievo per la trattazione hegeliana di questo tradizionale tema metafisico, tenterò appunto di mostrare come l’introduzione ai Lineamenti definisca la cornice teorica all’interno della quale si situano le                                                                                                          riflessioni dedicate al problema della libertà nel corso dell’opera.

Per un primo avvicinamento alla trattazione hegeliana della libertà appare utile rifarsi innanzitutto ad alcuni generali presupposti metodici ed ontologici che caratterizzano la posizione del filosofo tedesco:

1.1. Il rifiuto del metodo definitorio: significato ed applicazioni di un concetto non possono dedursi semplicemente da alcune definizioni iniziali; per quanto riguarda il tema della “libertà”, questo rifiuto si traduce nell’affermazione secondo la quale “che la volontà è libera e che cosa è volontà e libertà - la deduzione di ciò può trovar luogo... unicamente nella connessione dell’intero” (Lineamenti § 4 A; cf. § 2, A).

1.2. A quel primo presupposto metodico ne va aggiunto uno di carattere ontologico, consistente nel concepire il reale come ordinato secondo una scala ascendente di livelli di perfezione (Hegel parla a questo proposito di “adeguatezza tra concetto e realtà”, e di “verità”); tale assunto si traduce, sul piano del metodo, in una sorta di

1.3. principio di retrospettività, per il quale l’ultimo significato di un termine nell’ordine dell’esposizione è primo per importanza, e ad esso vanno commisurati i precedenti.

I tre punti ora richiamati convergono nel conferire ai testi hegeliani una delle loro caratteristiche più appariscenti: il mutamento di significato delle nozioni decisive (facendo riferimento anche al frequente utilizzo hegeliano di termini come soggettività, libertà, infinità, verità, autofinalità in qualità di sinonimi si potrebbe esprimere in forma paradossale questo aspetto dicendo che in Hegel molti termini-chiave posseggono un solo significato, ed ognuno ne ha molti).

1.4. Un ultimo presupposto da menzionare è infine il monismo, come esigenza di un legame interno nello sviluppo delle determinazioni: per esso è necessario che ogni determinazione fondamentale mantenga un nucleo di significato comune a tutte le sue accezioni (l’espressione più importante di questa esigenza consiste, come è noto, nel tentativo di mostrare il “concetto” della Scienza della logica come sviluppo-arricchimento dell’“es­sere”).

Per quanto riguarda il concetto di “libertà”, due problemi balzano immediatamente agli occhi in relazione ai presupposti sopra menzionati: 

a) se termine di paragone della “libertà” è il suo compimento, il suo “concetto sviluppato”, qual è però questo realmente? La libertà quale si realizza all’interno dell’eticità (la libertà dello “spirito oggettivo”) o la libertà consistente nella contemplazione filosofica (ossia la libertà dello “spirito assoluto”)? E ancora: è possibile gettare un ponte tra questi due significati, evitando al contempo di identificare “Weltgeist” e “spirito assoluto”? Il tentativo di dare una risposta a questi interrogativi - altrimenti formulabili nel problema della priorità tra “Wissen” e “Wollen” - domina larghissima parte della letteratura critica e non potrà essere oggetto del presente lavoro.

b) Un secondo problema riguarda il solo terreno dello “spirito oggettivo”, ed è la domanda a cui queste pagine tentano di dare una risposta: è possibile accertare, all’interno della Filosofia del diritto, la presenza di un nucleo unitario di significato della nozione di “libertà”, oppure tale termine è sottoposto a tensioni irresolubili nel mutarsi delle sue accezioni? 

lunedì 21 agosto 2017

11 tesi sul Venezuela e una conclusione maturata*- Juan Carlos Monedero**

*Da:   https://www.carmillaonline.com   Link originale http://www.alainet.org/es/articulo/187390 – Traduzione dell’articolo in italiano: Fabrizio Lorusso –
**Juan Carlos Monedero è saggista, dottore in Scienze politiche e sociologia alla Università Complutense di Madrid, Spagna, e tra i fondatori del partito Podemos.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/08/venezuela-la-causa-oscura.html
Leggi anche:  http://www.marx21.it/index.php/internazionale/america-latina-e-caraibi/28278-chavismo-o-golpe-i-dubbi-morali-dellintellighenzia-occidentale


“E seguitava a ripetere la stessa cosa: “Questo non è come in una guerra… In una battaglia hai il nemico davanti… Qui il pericolo non ha volto né orario”. Si rifiutava di prendere sonniferi o calmanti: “Non voglio che mi acchiappino addormentato o assopito. Se vengono a prendermi, mi difenderò, griderò, getterò i mobili dalla finestra… Scatenerò uno scandalo…”.
Alejo Carpentier, La consacrazione della primavera


1. E’ indubbio che Nicolás Maduro non è Allende. E nemmeno è Chávez. Ma quelli che hanno fatto il golpe contro Allende e contro Chávez sono, e anche questo è indubbio, gli stessi che ora stanno cercando di attuare un golpe contro il Venezuela.

2. I nemici dei tuoi nemici non sono tuoi amici. Può non piacerti Maduro senza che ciò implichi dimenticare che nessun democratico può mettersi dalla parte dei golpisti che hanno inventato gli squadroni della more, i voli della morte, il paramilitarismo, l’assassinio della cultura, l’operazione Cóndor, i massacri di contadini e indigeni, il saccheggio delle risorse pubbliche. E’ comprensibile che ci sia gente che non voglia schierarsi con Maduro, ma conviene pensare che dal lato di chi sostiene i golpisti ci sono, in Europa, i politici corrotti, i giornalisti mercenari, i nostalgici del franchismo, gli imprenditori senza scrupoli, i venditori di armi, quelli che difendono l’austerity e che celebrano il neoliberalismo. Non tutti quelli che criticano Maduro difendono queste posizioni politiche.Conosco gente onesta che non sopporta ciò che sta succedendo proprio adesso in Venezuela. Ma è evidente che dal lato di chi sta cercando un golpe militare in quel paese ci sono quelli che sempre hanno sostenuto i colpi di stato militari in America Latina o che mettono i loro affari prima della democrazia. I mezzi di comunicazione che stanno preparando la guerra civile in Venezuela sono le stesse corporazioni mediatiche che ci hanno venduto le armi di distruzione di massa in Iraq, il riscatto delle banche con soldi pubblici o il fatto che l’orgia di milionari e corrotti vada pagata da noi tutti con tagli e privatizzazioni. Sapere che si condivide la trincea con gente simile dovrebbe imporre una riflessione. La violenza deve essere sempre la linea rossa da non oltrepassare. Non ha senso che l’odio verso Maduro collochi qualcuno decente a fianco dei nemici del popolo.

domenica 20 agosto 2017

Perchè un dottorando italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?*- Declan Walsh**

*articolo tratto da The New York Times Magazine, 15 agosto 2017, traduzione per http://www.senzasoste.it di Nello Gradirà
**Declan Walsh è il capo corrispondente dal Cairo per The Times.
Leggi anche:  http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2017-08-16/soliti-sospetti-stampa-e-mondo-vinti-221658.shtml


Con l’articolo del New York Times, uscito in sincronia col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, lo straziante caso di Giulio Regeni assume, a maggior ragione, i pieni contorni di un delitto politico. Certo, chi conosce davvero nel dettaglio indagini, le prove, la lingua, il contesto è in grado di capire se si tratta di un delitto immediatamente politico, con dei mandanti consapevoli fin dall’inizio, oppure se questo “status” di politicità è stato acquisito nel tempo. Un delitto politico, nei rapporti tra Stati, serve a ristabilire dei rapporti di forza, esterni e soprattutto in quella zona di confine, meno visibile, che sta tra governance, servizi segreti, appalti, finanza. Invece di fare i detective da tastiera, anche se animati magari da buone intenzioni, proviamo quindi a capire la conformazione di un pò di fili che compongono la matassa dell’assassinio politico di Giulio Regeni.  Si parla di un delitto che, per chi abbia messo un minimo le mani sulle questioni legate alla lettura del significato  della tortura, assume caratteri chiari: le molte modalità di uccisione simbolica di Regeni, ognuna per ogni diverso tipo di mutilazione fino al collasso definitivo del suo corpo, si sono saldate con i molti significati politici assunti dalla sua uccisione reale. E’ il fatto, forse, meno compreso al livello di opinione pubblica dell’articolo sul New York Times. L’uccisione di Regeni non è stato solo un avvertimento, chiaro e terribile, ai ricercatori, ai militanti dal basso, agli attivisti che si sono mobilitati,  nelle tante forme della solidarietà internazionalista, subito dopo la primavera araba. E neanche solo, e già questo interessa il livello diplomatico, un segnale, del genere “state sul vostro”, a quel mondo che si muove tra ricerca e lavoro di intelligenze tra università americana del Cairo e università inglesi di cui Regeni, suo malgrado, rappresentava comunque il contesto. E’ lo stesso New York Times che dà una lettura politica, nell’articolo, del delitto Regeni: le autorità egiziane hanno fatto capire di voler uccidere chiunque, anche bianchi ben visibili sui media, quando i loro affari interni lo richiedano. E questo per gli americani non è accettabile, non a caso il NYT, nello stesso articolo, rivela la furibonda sceneggiata del segretario di stato Usa, Kerry, contro le autorità egiziane sul caso Regeni. Questo perché gli americani valutano che quando un paese, ampiamente finanziato e supportato dagli Usa nei decenni come l’Egitto, si prende di queste licenze vuol dire che cerca troppa autonomia.

Le molte uccisioni di Regeni, operate simbolicamente tramite le mutilazioni del suo corpo prima di ucciderlo, portano quindi con sè una molteplicità di avvertimenti: agli attivisti, per i quali il messaggio è molto sinistro, al mondo della ricerca, agli Usa, alla stessa Gran Bretagna, supporter storici dell’Egitto. Ma, si sa, tutto nell’area è in movimento. E l’Italia? Il fatto che il cadavere di Regeni sia stato fatto trovare durante la visita della ministro Guidi al Cairo, unisce coincidenza temporale a messaggio politico. Già, ma quale messaggio politico? Tra i tanti ne spiccano due: un avvertimento al mondo degli affari italiano, l’Eni e la ministro Guidi stavano lavorando ad appalti considerevoli, e a quello politico che ha un nome preciso: Libia. Entrambi parlano di un contenimento, o una rimodulazione, delle ambizioni italiane nell’area sia in campo economico che politico. Certo, ogni settore ha le proprie esigenze. Curiosamente quelle dell’Eni coincidono con le disgrazie politiche della ministro Guidi. Infatti non solo l’ex ministro si è trovata nello sgradevole ruolo della persona incaricata di ritirare il “messaggio” Regeni in Egitto. Ma è anche rimasta impigliata nello scandalo, che gli è costato il posto di ministro, dell’inquinamento del centro Eni di Cova di Viggiano. E chi copre oggi, per l’ENI, la perdita di produzione del centro Eni di Viggiano? Ma ovvio: l’importazione di gas dal giacimento di gas di Zohr in Egitto. Siamo parlando di un giacimento scoperto dall’ENI nel 2015 con un potenziale di risorse fino a  850 miliardi di metri cubi di  gas e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mar Mediterraneo.

sabato 19 agosto 2017

Better Fewer, But Better*- Vladimir Lenin (1923)

*Da:  https://www.marxists.org  - L'articolo Meglio meno, ma meglio e l'altro articolo Come riorganizzare l'Ispezione operaia e contadina, furono scritti da Lenin per il XII congresso del partito.
Il XII congresso del PCR(b), che si tenne dal 17 al 25 aprile 1923, tenne conto nelle sue decisioni delle indicazioni date da Lenin negli ultimi articoli e lettere. Il congresso approvò una speciale risoluzione "Sui compiti dell'Ispezione operaia e contadina e della commissione centrale di controllo", nonché la decisione di unificare il lavoro degli organi della commissione centrale di controllo e del commissariato del popolo per l'Ispezione operaia e contadina (vedi Il PCR(b) nelle risoluzioni e decisioni dei congressi, delle conferenze e dei plenum del CC, parte I, 1940, pp. 498-501-502).
Pubblicato nella Prava, n. 49, 4 marzo 1923.
Trascritto dall'Organizzazione Comunista Internazionalista (Che fare) e da Pagine rosse, Gennaio 2003



Per poter migliorare il nostro apparato statale, l'Ispezione operaia e contadina, a parer mio, non deve correr dietro alla quantità e non deve aver fretta. Finora abbiamo avuto così poco tempo per riflettere sulla qualità del nostro apparato statale e preoccuparcene, che sarebbe giusto dedicarsi con particolare attenzione e serietà alla sua organizzazione e concentrare nell'Ispezione operaia e contadina materiale umano di qualità realmente moderna, cioè non inferiore ai migliori modelli dell'Europa occidentale. Certo, per una repubblica socialista questa condizione è troppo modesta, ma il primo lustro ci ha resi piuttosto diffidenti e scettici. E involontariamente siamo propensi a esserlo verso colore che troppo, e troppo alla leggera, blaterano, per esempio, sulla "cultura proletaria": per incominciare ci accontenteremmo della vera cultura borghese, ci basterebbe sbarazzarci dei tipi di cultura preborghese particolarmente odiosi, cioè della cultura burocratica, feudale, ecc. Nei problemi della cultura è soprattutto dannoso aver fretta e voler fare le cose in grande. Molti nostri giovani letterati e comunisti se lo dovrebbero ficcare bene in testa.

Così, riguardo all'apparato statale dobbiamo trarre dall'esperienza precedente la conclusione che sarebbe meglio andare più adagio.

Nell'apparato statale la situazione è a tal punto deplorevole, per non dire vergognosa, che dobbiamo innanzi tutto pensare seriamente al modo di combatterne i difetti, ricordando che questi difetti hanno le loro radici nel passato, che, sebbene abbattuto, non è stato superato, non è ancora una fase della cultura appartenente a un passato ormai remoto. Pongo qui il problema della cultura, proprio perché in questi problemi bisogna considerare come acquisito soltanto ciò che è entrato a far parte della cultura, della vita, ciò che è diventato un abito. E da noi si può dire che quanto di buono esiste nell'organizzazione sociale non è oggetto di profonda riflessione, non è compreso, sentito; è stato afferrato in fretta, non è stato messo alla prova e confermato dalla esperienza, non è stato consolidato, ecc. E non poteva certo essere altrimenti nel periodo della rivoluzione, e con un ritmo di sviluppo cosi vertiginoso che ci ha condotti in cinque anni dallo zarismo al regime sovietico.

venerdì 18 agosto 2017

Polanyi, Hayek e le aporie del reddito di cittadinanza*- Riccardo Evangelista**

** Dottore di ricerca in Sviluppo Economico: analisi, politiche e teorie presso l’Università di Macerata

Nowadays, basic income is acclaimed as the main example of a progressive idea of society, free from poverty and exploitation. However, as emerges provocatively by Polanyi and Hayek’s analysis, basic income could easily become an economic policy alternative to full employment. But when unemployment is accepted as a natural order in a situation of unsatisfied basic needs, we are facing a regressive vision of economic system. 
      
     1. Introduzione 
Mentre in Italia la discussione è ancora in divenire, dal gennaio 2017 la Finlandia ha iniziato la sperimentazione del reddito di cittadinanza, fissato per l’occasione a 560 euro mensili. Da un primo sguardo emergono modalità di attuazione piuttosto singolari, se non stravaganti: sono stati infatti sorteggiati 2000 cittadini tra i 25 e i 63 anni, che riceveranno l’assegno indipendentemente dal salario ma in alternativa al sussidio di disoccupazione. Lo scopo, a detta del governo presieduto dal centrista Juha Sipilä, è di valutare le conseguenze dell’erogazione monetaria, percepita dai riceventi come sicura, sulla propensione ad accettare un lavoro. I risultati saranno resi noti solo nel 2019, momento in cui verrà deciso se continuare, modificare o interrompere l’esperimento. 

Nel frattempo che il caso finlandese dispieghi i suoi effetti, emerge l’opportunità di alcune considerazioni il più possibile generali, troppo spesso trascurate in favore di analisi empiriche talvolta col fiato corto. Nonostante le modalità specifiche di attuazione siano ovviamente rilevanti per un giudizio non parziale, così come le questioni finanziarie sulla sostenibilità delle erogazioni, lo scopo del presente contributo è diverso: verrà proposta una breve riflessione teorica che provi ad indagare i presupposti fondamentali del reddito di cittadinanza nell’ambito delle scelte complessive di politica economica. Per farlo si proverà a interrogare due autori che la questione del reddito di cittadinanza se la sono già posta, arrivando a giudizi molto diversi ma comunque estremamente interessanti. 

mercoledì 16 agosto 2017

L'inchiesta operaia*- K. Marx (1880)


                       - Lettera di Marx a Sorge
                       - Considerazioni preliminari e Programma minimo del Partito operaio francese 



Premessa - di Gianfranco Pala 

Nel presentare le 100 domande del "questionario" - meglio conosciuto poi come inchiesta operaia - scritte di proprio pugno dal vecchio Marx, due anni e nove mesi prima di morire, per conto dei compagni del partito operaio francese, e pubblicate sulla Revue socialiste di Benoît Malon [nel n.4 del 20 aprile 1880], ci è sembrato, più che opportuno, indispensabile farle precedere da quelle pagine marxiane che, già anni prima, le avevano delineate e preparate, e da quelle altre considerazioni collaterali che ne accompagnavano il contesto politico culturale. [Il solo testo dell'inchiesta fu già pubblicato in italiano dai Quaderni rossi nel 1963, ma appunto al di fuori di quel contesto che ne può spiegare meglio genesi storica e significato politico. I materiali di accompagnamento dell'inchiesta furono pure pubblicati in un volumetto - Karl Marx, Documenti, De Adam, Parma 1969 - rimasto fuori del mercato e quindi praticamente sconosciu­to ai più. Recentemente la presente riproposizione di una compiuta esegesi moderna dell'inchiesta operaia è stata pubblicata dalla rivista Invarianti, n.25, settembre 1994]. 

Il primo testo di riferimento è quello relativo alle Istruzioni per i delegati del consiglio centrale provvisorio dell'associazione internazionale dei lavoratori [il consiglio si riunì a Ginevra nel settembre 1866, due anni dopo la fondazione dell'associazione; gli atti furono pubblicati in The international courier, organo dell'Ail, Londra 20 febbraio 1867]. La proposta originaria di una "inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici" si trova lì formulata per la prima volta da Marx stesso, e articolata in uno schema generale di 11 punti. Abbiamo ritenuto importante pubblicare - unitamente a quella proposta che si trova in un paragrafo iniziale sul "coordinamento internazionale" - anche i successivi paragrafi delle medesime "istruzioni", in quanto riguardanti temi centrali della condizione operaia e delle rivendicazioni minime dei lavoratori della I internazionale. Non è senza significato che codesti temi - strettamente connessi e contestuali alla proposta dell'inchiesta - siano quelli della riduzione del tempo di lavoro, della regolamentazione del lavoro minorile, dell'istruzione di massa, del lavoro cooperativo, del processo di emancipazione dei sindacati, della questione dell'imposizione diretta progressiva, e della non professionalità degli eserciti

Prima di giungere all'anno della pubblicazione dell'inchiesta, cioè il 1880, è bene notare come le tematiche dell'inchiesta siano presenti e sviluppate da Marx nella sua critica dell'economia politica, culminata nella pubblicazione del Capitale nello stesso 1867. Per gli altri materiali di riferimento - rammentando che tutti i successivi congressi dell'Internazionale, fino al 1871, rinnovarono senza grande fortuna l'indicazione di promuovere l'inchiesta statistica - passiamo dunque direttamente a quell'anno 1880. Stralci di una lettera di Marx a Friedrich Adolph Sorge, scritta da Londra il 5 novembre 1880, spiegano autenticamente le ragioni dell'inchiesta in quella particolare fase di lotta politica in Francia, in cui l'esigenza di un rafforzamento dell'internazionalismo si collocava in un momento di ricerca di alleanze interne in vista della ravvicinata scadenza elettorale. È in quel contesto, come si legge nella medesima lettera, che Marx scrisse le considerazioni preliminari del programma del partito operaio francese [pubblicato originariamente in L'égalité, organo collettivista rivoluzionario, Parigi, 30 giugno 1880]. Al proposito così si espresse Engels: “di questo programma Marx, in presenza mia e di Lafargue, nella mia stanza, ha dettato a Guesde, che scriveva, le considerazioni preliminari, un capolavoro di ragionamento, convincente come non ne ho quasi mai sentiti, da esporre alle mas­se in poche parole chiare, e che ha stupito anche me per la sua concisione”. 

Il documento politico del Pof rientrava in quell'ottica di programma minimo che già Marx, in passato fin da quando stava ancora in Germania, riteneva come criterio d'azione rivoluzionaria in fasi e circostanze non rivoluzionarie (e le elezioni politiche generali erano appunto una di quelle circostanze). Abbiamo ritenuto significativo, come mera documentazione storica, pubblicare anche il testo (non di Marx) di quel programma minimo del Pof, apprezzato da Marx proprio per essere costituito da "rivendicazioni nate realmente in modo spontaneo dallo stesso movimento dei lavorator", contro tutti gli impostori, i settarî e i borghesi radicali che, imponendosi come capi, ingannavano i lavoratori stessi. Dalla lettera a Sorge - di più di un secolo fa! - si noti, come curiosità a futura memoria, quale fosse la sola critica di Marx al programma: egli rigettava, già allora e non senza derisione e insofferenza, la richiesta intellettualistica (approvata su proposta di Jules Guesde, solo da poco passato al marxismo) di salario minimo garantito, che definiva "lusinga infantile" al punto da vanificare qualsiasi programma!

Si ringraziano i compagni de La Contraddizione 


INCHIESTA OPERAIA - di K. Marx

lunedì 14 agosto 2017

La colono-evangelizzazione dell’America Latina e i suoi risultati*- Alessandra Ciattini**

*Da:  https://www.lacittafutura.it   **Insegna Antropologia culturale alla Sapienza.


Un olocausto quasi mai menzionato come tale.


Per dar conto della seconda lezione del corso da me tenuto per l’Unigramsci (Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe) mi sembra calzante questo termine. Riprendo questa espressione dal teologo della liberazione latinoamericano Enrique Dussel, il quale – correttamente dal mio punto di vista – ha sempre sostenuto che non è possibile distinguere tra processo coloniale ed evangelizzazione, in quanto si tratta di due aspetti simultanei che si sviluppano di pari passo e si sostengono a vicenda. Del resto, gli stessi elogiatori dell’opera dei missionari, vedono in questi ultimi i veri apportatori della civiltà cristiana al Nuovo Mondo, con i suoi addentellati politici, sociali e culturali.

Sottolineato questo primo punto, che successivamente illustreremo più nel dettaglio, passiamo ad interrogarci sull’origine dell’espressione America Latina, perché ovviamente non si tratta di un’espressione neutra, ma nata all’interno di una determinata prospettiva politica e culturale. In particolare, fu il viaggiatore e intellettuale francese, Michel Chevalier che utilizzò nel 1836 l’espressione “latino-americanismo” per distinguere tra l’America anglosassone e protestante dall’America cattolica e latina (geograficamente il Messico appartiene al Nord America). In tali parole era condensata la volontà di espansione francese in quel subcontinente, giacché a quell’epoca era la Francia l’unica potenza internazionale e latina in grado di competere sia con l’espansionismo britannico che statunitense (dottrina Monroe 1824). Infatti, approfittando della guerra di secessione statunitense, Napoleone III aveva inviato in Messico il suo esercito, dove con un plebiscito era stato abbattuto il presidente Benito Juárez e proclamato l’impero. La corona del Messico venne offerta a Massimiliano di Asburgo nel 1864, il quale regnò per pochi anni incontrando l’opposizione dei liberali messicani capeggiati da Juárez e sostenuti dagli Stati Uniti. Inoltre, alla fine della guerra di secessione, fu abbandonato anche da Napoleone III, che ritirò l’esercito, e finì fucilato nel 1867 a Queretaro.

L’espressione “America Latina” era usata anche da alcuni intellettuali del subcontinente, ma allo scopo di sottolineare la specificità della regione e di respingere ogni forma di ingerenza esterna di fatto già operante. Infatti, l’America Latina si era resa indipendente dalla Spagna grazie all’aiuto della Inghilterra, assai interessata alle sue risorse materiali e al commercio con i nuovi paesi indipendenti E si stava già profilando l’ombra oscura dell’imperialismo statunitense, sotto forma di panamericanismo (America unita sotto l’egida degli Stati Uniti), prefigurato da José Martí e ribadito da vari documenti, tra cui menziono il corollario Roosvelt del 1904.

domenica 13 agosto 2017

Tragedia come Paideia*- Eva Cantarella**

*Da:  Teatro Franco Parenti 
** Eva_Cantarella ha insegnato Diritto romano e Diritto greco all’Università di Milano ed è global visiting professor alla New York University Law School.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/medea-migrante-eva-cantarella_15.html


La paideia era la formazione dell’ uomo greco cittadino, intesa come socializzazione a un insieme di valori e di precetti la cui trasmissione di generazione in generazione era considerata compito del cittadino. Il teatro era una delle istituzioni, se non la più importante tra le istituzioni, alle quali era affidata questa funzione.
Alcuni esempi tratti dall’analisi del Prometeo incatenato, dell’Antigone, dell’ Edipo re e dell’ Edipo a Colono. 

mercoledì 9 agosto 2017

Siamo davvero in troppi?*- Manali Chakrabarti

*Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com  Link all’articolo originale in inglese Aspects of India’s Economy



La sovrappopolazione è la più grave crisi del pianeta?


Le molteplici pressioni derivanti da una crescita senza vincoli della popolazione impongono al mondo naturale pretese che possono sopraffare ogni sforzo per giungere ad un futuro sostenibile. Se vogliamo fermare la distruzione del nostro ambiente, dobbiamo accettare dei limiti a tale crescita.

World Scientists’ Warning to Humanity, firmato da 1.600 scienziati di 70 paesi, inclusi 102 Premi Nobel, 1992 [1]


Introduzione

Il mondo che ci circonda sembra in procinto di attraversare una crisi senza precedenti – apparente scarsità di tutte le risorse essenziali, incluse acqua, terra e cibo, crescente disoccupazione e surriscaldamento globale. Il futuro del pianeta, probabilmente, non è mai sembrato più nero. E a detta di un ampio numero di influenti personalità – scienziati, accademici, politici, miliardari, esperti appartenenti ad istituzioni internazionali – uno dei motivi principali, quando non addirittura il motivo principale, di questo vero e proprio disastro risiede nel continuo incremento della popolazione.

La popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi e continua a crescere. Istituzioni governative e non in tutto il mondo stanno spendendo miliardi di dollari al fine di affrontare questa sempre più vasta “crisi”. La popolazione del subcontinente indiano (India 1,23 miliardi, Bangladesh intorno ai 161 milioni e Pakistan 199 milioni) è di circa 1,6 miliardi di abitanti; ovvero una persona ogni cinque risiede in quest’area. Dunque, gran parte degli sforzi globali si concentra sui poveri del subcontinente. L’India viene ripetutamente comparata alla Cina, la quale, contrariamente alla prima, sembrerebbe aver avuto successo nel prevenire le proprie masse da una procreazione incontrollata.

Alcuni cercano di ammorbidire la loro posizione ricorrendo a termini eufemistici nel definire i propri obiettivi – come assicurare la “salute riproduttiva” o elaborare “strategie di sviluppo e della popolazione” [2]. Alcuni altri sono assai più bruschi. L’eminente economista Jeffrey Sachs afferma: “il raggiungimento dei 7 miliardi di abitanti è motivo di profonda preoccupazione a livello globale… In breve, come possiamo godere di uno ‘sviluppo sostenibile’ su di un pianeta così affollato?… La riduzione dei tassi di fertilità andrebbe incoraggiata anche nei paesi più poveri” [3]. Il noto editorialista Tom Friedman sostiene semplicemente che “la Terra è SATURA” [4]. Comunque si esprimano, il messaggio suona forte e chiaro: dobbiamo prevenire i poveri da una riproduzione senza limiti che minaccia il futuro della specie ed il pianeta nel suo complesso.

Considerato che così tanti tra i “migliori e più brillanti” ritengono essere la sovrappopolazione alla base i tutti i mali del pianeta, è opportuno esaminare a fondo la questione.

Come ha avuto inizio tutto?

martedì 8 agosto 2017

VENEZUELA, LA CAUSA OSCURA...*

*Da:  ItaliaCubaNazionale


domenica 6 agosto 2017

Primo maggio*- Gianfranco Pala

*Da:  http://www.webalice.it/gianfrancopala40/   http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm 
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 

... però a quelli in malafede, sempre a caccia delle streghe, dico: no! non è una cosa seria! non mettetemi alle strette, o, con quanto fiato ho in gola, vi urlerò: non c’è paura! ma che politica, che cultura, sono solo canzonette!...”. Allorché il giovane Edoardo Bennato irrideva così al potere, nella sua celebrazione di Peter Pan, forse non pensava di finire anche lui sul palco del “concertone” sindacale del primo maggio, dove la tragica ricorrenza di una giornata di dura lotta sindacale è finita – una seconda, una terza, un’ennesima volta – nella farsa delle “canzonette”: ma che politica, che cultura!

E pensare che il 1° maggio – al pari dell’8 marzo – è nata come giornata di lotta, in ricorrenza di una tragedia proletaria. Ma si sa: il tempo sana le ferite (della borghesia!).

Otto ore: di lavoro, di svago, di riposo – questo fu lo slogan lanciato dai lavoratori australiani nel 1855, e fatto proprio dalla I internazionale (Ail) come “limite legale della giornata lavorativa” nel 1866 a Ginevra. Già il primo maggio dell’anno successivo, a Chicago, allora principale città industriale degli Usa, vi fu una manifestazione di massa. Senonché, nel 1877, ancora a Chicago, la locale confindustria organizzò un comitato cittadino di “giustizieri” per la “lotta armata contro le organizzazioni operaie”, dopo aver compilato “liste nere” degli scioperanti, i primi a dover essere almeno licenziati se non addirittura soppressi. Parallelamente invalse il principio padronale che vietava l’appartenenza dei lavoratori a qualsiasi sindacato operaio. Ciononostante le organizzazioni sindacali sor­gevano spontaneamente e crescevano. La stampa già scriveva che ciò rappresentava “da parte del comunismo, una minaccia per tutta la società americana”, spingendo il potere a regolare definitivamente i conti con quei “nemici”.

sabato 5 agosto 2017

Le ipocrisie dell’ideologia liberale e il cosiddetto odio di classe*- Gianni Fresu**

 *Da:  http://www.giannifresu.it    http://www.marx21.it    **Università di Urbino. Universidade Federal de Uberlandia (MG/Brasil). 
Nel parlamento brasiliano (ma la stessa discussione si sta insinuando anche in Europa) è stata presentata in questi giorni una proposta di legge finalizzata a punire penalmente l’apologia di comunismo, con la seguente argomentazione: “il comunismo avrebbe fatto un centinaio di milioni di morti”. Tralasciamo le considerazioni sulla natura grossolana di questa operazione, perché i simboli che si vorrebbero proibire (la falce e martello e i richiami alla tradizione teorica del socialismo) rappresentano un panorama incredibilmente variegato, non riducibile a una unica esperienza, all’interno del quale si situa con tutte le sue articolazioni la storia della lotta per l’emancipazione del mondo del lavoro. Nelle argomentazioni utilizzate si dice, “è necessario impedire l’istigazione all’odio e alla guerra di classe!” Farebbe sorridere, se non fosse tragica, un’affermazione simile, perché l’odio di classe è non solo istigato sul piano teorico ma concretamente praticato nelle nostre società occidentali, dall’alto verso il basso però. Come definire diversamente almeno quattro decenni di assedio ai diritti sociali e a quelli del mondo del lavoro tesi a favorire l’accumulazione dei capitali e la speculazione finanziaria? Come chiamare il vertiginoso aumento negli ultimi quaranta anni della forbice tra chi ha tanto (sempre sfacciatamente di più e in forme indecorosamente concentrate) e chi non ha nulla? Come classificare la sistematica spoliazione delle ricchezze dei cosiddetti Paesi “sottosviluppati” da parte di quelli ricchi, cui si aggiunge la beffa della limitazione della libera circolazione dei loro cittadini? Noi abbiamo avuto per secoli (e conserviamo ancora) il diritto di invaderli, sfruttarli e rapinarli, però non ai poveri del Sud del mondo non è concesso spostarsi dal deserto che abbiamo creato intorno a loro. Cosa sarebbe tutto questo se non odio e guerra di classe?
Si parla spesso in termini puramente retorici di libertà fondamentali, ma la prima di queste consiste nel diritto a non morire di fame, ignoranza e per assenza di cure sanitarie, dunque, se guardiamo alla realtà con una prospettiva meno edulcorata, possiamo tranquillamente affermare che queste sono negate alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Oramai è diventato un luogo comune citare la discutibile contabilità dei lutti fatta (all’ingrosso) nel famigerato “Libro nero del comunismo”, nel quale vengono compresi anche i morti per guerre e carestie in gran parte dei casi indotte dall’esterno. Sarebbe ora, credo, di scrivere pure un “Libro nero del liberalismo”, Domenico Losurdo ha fatto nei decenni questo lavoro attraverso una puntuale critica storica e filosofica,  manca  però un banale libro in cifre, di semplice ragioneria politica del capitalismo. Se, infatti, usassimo gli stessi parametri adottati da Stéphane Courtois &Co., quante centinaia di milioni di morti dovremmo imputare all’espansione mondiale delle nostre relazioni sociali borghesi? Proviamo solo a pensare: le conseguenze storiche dell’accumulazione originale del capitale sulle sterminate masse rurali cacciate dalle campagne trasfromate in moltitudini mendicanti nelle grandi periferie urbane; lo sterminio dei popoli nativi nel Nord e Sud America, Asia e Oceania; i morti dovuti alla miseria e allo sfruttamento coloniale occidentale in Africa, schiavismo compreso; le infinite guerre imperialiste condotte negli ultimi due secoli in ogni angolo del pianeta per rapinare le risorse dei “popoli incivili”. Un’ecatombe, ben occultata nei libri o nelle trattazioni divulgative sulla storia dell’umanità. Anche questo conferma un punto già colto da Marx e Engels nella metà dell’800: è proprio nel terreno delle ideologie il vero successo della società borghese, così l’aver trasformato il mondo in un grande cimitero è presentato come affermazione dei principi di libertà e civiltà sulla barbarie. Il paradosso storico è che, pur essendo maestri di ideologia, i grandi e piccoli teorici del liberalismo fanno della critica alle ideologie la propria battaglia più caratterizzante. La conferma della loro capacità egemonica è che la maggioranza delle persone, dotata anche di una buona cultura, ci crede e la riproduce più o meno consapevolmente.
“Nell’economia politica la cosiddetta accumulazione originaria del capitale svolge la stessa funzione del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite dirigente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano gli sciagurati oziosi che  sperperavano tutto il proprio e anche di più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare[1]
[1] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Editori riuniti, Roma, 1997, pag. 777.

venerdì 4 agosto 2017

Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*- David Harvey**

*Da:  http://www.controlacrisi.org - Introduzione al Manifesto del Partito Comunista, Pluto Press, 2008. Di David Harvey consigliamo caldamente l'ultimo libro L'enigma del capitale edito in Italia da Feltrinelli.
**David_Harvey è un geografo, sociologo e politologo britannico.


Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?

Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”. Ci troviamo certamente, come nel 2008, nel mezzo di uno di quelle periodiche crisi commerciali “che sottopongono a processo”, come nota ilManifesto, “ogni volta più minacciosamente l’esistenza dell’intera società borghese”. E le rivolte del cibo scoppiano dappertutto, in particolare in molte nazioni povere, con l’innalzamento incontrollato dei prezzi del cibo. Dunque le condizioni sembrano propizie per una rivalutazione della pertinenza del Manifesto. E’ interessante come una sua modesta proposta di riforma – la centralizzazione del credito nelle mani dello stato – sembra essere sulla buona strada per la sua realizzazione, grazie alle azioni collettive della Riserva Federale statunitense (FED), della Banca Centrale Europea (BCE), e delle banche centrali delle altre principali potenze capitaliste, nel salvataggio del sistema finanziario mondiale (i britannici finirono col nazionalizzare la loro principale banca in difficoltà, la Northern Rock). Dunque perché non impegnare altre proposte ugualmente modeste ma del tutto ragionevoli – come l’educazione gratuita (e di qualità) per tutti i bambini nelle scuole pubbliche, la parità di diritti e doveri per tutti i lavori, e una pesante e progressiva o graduata imposta sul reddito per sbarazzarci delle spaventose diseguaglianze sociali ed economiche che oggi ci circondano? E forse, se seguissimo la proposta di frenare l’eredità della ricchezza personale, allora potremmo prestare molta più attenzione all’eredità collettiva che trasmettiamo ai nostri figli in un’esistenza e un ambiente di lavoro decente così come una natura che mantenga sia la sua fecondità sia il suo fascino.

giovedì 3 agosto 2017

Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei**

*Da:  M Epici   **Professore Associato di Storia del Pensiero Economico presso la Scuola di Economia, Management e Statistica dell'Università di Bologna.
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/08/lo-sme-augusto-graziani-9111994.html



mercoledì 2 agosto 2017

Perché studiare il latino e il greco?*- Antonio Gramsci

*[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55] - Da:  http://appelloalpopolo.it/    https://www.sinistrainrete.info


Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.

Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.

Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.

Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.

Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.

Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

martedì 1 agosto 2017

Noi tutti, comunisti compresi, ci siamo abituati a vivere nel capitalismo... - Aristide Bellacicco*-(1/08/2012)-

*(Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni")
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/12/contributo-una-discussione-aristide.html

Insomma, è vero o no che il capitale non riesce più a valorizzarsi attraverso la vendita delle merci? E che questo è il primum movens della crisi che colpisce la maggioranza di noi tutti? E' vero o no, in altri termini, che la cosiddetta "crisi finanziaria" è in realtà l'effetto di una crisi di sovrapproduzione? Sì, è vero: e non tanto e non solo perchè "ce lo insegna Marx" ma perchè chiunque si sottoponga allo sforzo di un minimo approfondimento della letteratura economica internazionale (un fiume di parole) può constatare che tale consapevolezza giace nell'inconscio del capitale allo stesso modo di un ricordo o di una scena primaria vittima della rimozione nell'inconscio freudiano.

Dunque, il capitale "sa" - ma nella maniera vile e ipocrita che gli è solita - che l'economia da esso generata poggia sulla sabbia. Spesso, nei periodi di crisi, tale consapevolezza è affiorata: la soluzione roosveltiana del '29 e il pensiero economico di Keynes ne costituiscono, credo, due delle maggiori testimonianze nel ventesimo secolo.Ma il capitale è il capitale: non ci si può aspettare che si superi o si neghi da sè, così come non si può chiedere a un nevrotico di prendere coscienza, senza, appunto, l'intervento di un altra "coscienza", dei problemi che lo affliggono.Allora viene la tentazione di prendere per buona la seguente domanda: chi è, o chi può essere, "l'analista" del capitale? Chi può "aiutarlo"?Ma è una domanda sbagliata e, dunque, non prevede risposte. Tutti coloro, PD in testa, che hanno votato le norme sulla stabilizzazione del bilancio pubblico (orribilmente denominate fiscal compact) sono caduti, consapevolmente o meno, in una sorta di trappola logica o psicologica. Qualsiasi tentativo, infatti, di ripristinare condizioni favorevoli alla ripresa della vendita di merci non farebbe altro che riprodurre, nel caso improbabile di un esito positivo, lo stesso meccansimo che genera le crisi.

So perfettamente che si tratta di un'analisi estremamente semplificata e addirittura rozza: ma non più rozza e superficiale della maniera in cui il capitale pensa se stesso - ammesso che lo faccia. Non si può aiutare il capitalismo: l'unica via è abbatterlo. E' il compito principale che il genere umano si trova davanti. Ma è qui e ora, in modo determinato, che questo problema si pone, non in astratto o in generale. E' "questo" capitalismo che deve essere abbattuto; siamo nel punto più basso di uno dei cicli periodici di cui parlava Trockij, e la determinatezza della situazione storica richiede risposte altrettanto determinate. La classe operaia (Italia, Spagna, Grecia) è in condizioni di estrema difficoltà: quando scende in campo, come nel caso dell'Illva è solo per difendersi, per salvare posti di lavoro e salari.E anche le forme più di "sinistra" del sindacalismo italiano (FIOM) giocano partite in difesa.Sul fronte dell' intellighenzia ufficiale c'è il più assoluto silenzio o il puro e semplice servaggio ideologico.E'come in uno di quei sogni dove ti sembra di non poterti muovere benchè il mostro sia lì a due passi e stia per sbranarti: ma tu sei fermo e provi solo angoscia.

Se le persone - tutte - non impareranno nulla da questa crisi - e tutto ciò che c'è da imparare è che il capitalismo deve essere rovesciato - allora sarà il capitale a prevalere: e la sua vittoria di Pirro trascinerà tutti con sé nella sconfitta, le cui dimensioni sono difficilmente immaginabili.E' necessario che i comunisti abbandonino slogan e parole d'ordine che oscillano fra la nostalgia e il velleitarismo e che si dedichino seriamente allo studio e al'analisi del reale. I comunisti non possono fare tutto da soli, è evidente: ma appare sempre più chiaro che l'assenza di un Partito Comunista degno di questo nome è, insieme, una delle cause e uno degli effetti della situazione che si sta attraversando.Mai come oggi il socialismo è all'ordine del giorno come unica soluzione razionale e ragionevole: mai come oggi sembra lontano il momento di una ripresa di un pensiero critico che sappia farsi largo fra le masse.

E una delle ragioni di ciò, a mio avviso sta in questo:noi tutti, comunisti compresi, ci siamo abituati a vivere nel capitalismo e per tanti anni la deriva riformistica del PCI - pur riconoscendo l'importanza di quell'esperienza - ha contribuito a questo processo. Bisogna uscire dal sogno e dall'incubo. E' vero che le teorie da sole non cambiano magicamente la storia, ma è altrettanto vero che le teorie fanno parte integrante della storia. La ricostituzione di un'avanguardia politica e culturale è il primo dei nostri compiti: la frase di Marx che dice "le società si pongono solo i problemi che hanno la capacità di risolvere" non è una profezia ma un'indicazione di lavoro.