martedì 16 aprile 2013

Lezioni di politica economica - Federico Caffè

Leggi anche:   http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Caff%C3%A8    
                           http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/   
Vedi anche.   http://www.radioradicale.it/scheda/339901 


Significato della politica economica: sui rapporti con le altre discipline economiche e sociali.

   1.  Alcune distinzioni correnti tra economia e politica economica.

La definizione di una disciplina, anche se risponde ad esigenze didattiche, non può fornire che un’indicazione approssimativa e sommaria del significato della  disciplina stessa. Una comprensione più completa può ottenersi soltanto attraverso lo studio delle sue varie parti.

Con questa riserva le definizione più semplice del significato della politica economica consiste nel chiarire anzitutto che essa è parte della scienza economica intesa in senso lato; nel precisare poi che si tratta di quella parte che utilizza le conoscenze dell’analisi teorica come guida dell’azione pratica.

Ogni scienza ha come problemi ultimi quelli di comprendere e spiegare determinati fenomeni e di far uso della conoscenza come guida dell’azione. La politica economica, per effetto di un processo di specializzazione e di convenienza didattica, si occupa appunto di quella parte dell’indagine economica che assolve in modo più ravvicinato e diretto il secondo dei suoi compiti essenziali, quello cioè di essere di guida per l’azione. […]

Questi chiari rilievi consentono di avanzare due considerazioni. In primo luogo, sarebbe estremamente pedante pretendere che, negli insegnamenti economici che precedono quello specifico della politica economica, l’esposizione si mantenga rigorosamente “sul terreno proprio dei teoremi”, senza occuparsi in forma più o meno estesa anche  di problemi di politica economica. In secondo luogo, il fatto stesso che ciò di frequente si verifichi non fa che confermare l’assoluta correttezza dell’impostazione metodologica, dovuta anch’essa a un importante economista italiano, secondo la quale economia generale, economia finanziaria, politica economica non sono che “stadi successivi nel passaggio da una maggiore a una minore astrazione di un inscindibile sistema teorico.”(Del Vecchio, 1957, p. 131).

2.      La politica economica nella concezione di Jan Tinbergen.

La sostanziale unità dell’indagine economica non esime, come è ovvio, dal ricercare i caratteri differenziali tra le varie branche che rientrano nell’indagine stessa. Un’elegante presentazione dei rapporti tra analisi e politica economica è quella dovuta a Jan Tinbergen, economista olandese che, nei tempi più recenti, ha contribuito in modo notevole all’elaborazione sistematica della politica economica.

Occorre preliminarmente ricordare che gli sviluppi dello studio sia dell’intero sistema economico, sia di singoli mercati hanno portato a fornirne una rappresentazione schematica mediante modelli  costituiti da equazioni matematiche che esprimono le connessioni esistenti tra le grandezze economiche del sistema o della parte di esse considerata.

L’impiego di schemi semplificati, tendenti a ridurre la complessa realtà a “fatti stilizzati”, non costituisce un fatto nuovo nell’indagine dei fenomeni economici. […]

Ne risulta quindi, secondo le parole di Tinbergen  (1969, p. 19), che il processo logico per la ricerca della migliore politica economica, cioè per la determinazione delle misure in cui dati mezzi debbano essere impiegati per raggiungere dati fini, rappresenta, in certo senso, il processo logico inverso di quello cui è abituato l’economista. Il compito dell’analisi economica consiste nel considerare i “dati” (compresi in essi gli strumenti della politica economica) come noti e i fenomeni e le variabili economiche (compresi gli obiettivi della politica economica)  come incognite. Nella politica economica, si considerano gli obiettivi come noti e gli strumenti come incognite, o quanto meno come parzialmente incognite.

3.      I rapporti con le altre discipline

Sono stati indicati sinora i rapporti molto stretti esistenti tra le varie branche della scienza economica.  È anche necessario tener presente, tuttavia, che lo studio dei fenomeni economici si avvale estesamente dell’ausilio delle matematiche e delle statistiche, nonché dell’apporto  di altre discipline quali la storia generale ed economica, la sociologia, il diritto.

Più che sottolineare in termini generici l’utilità odierna delle ricerche “interdisciplinari”, piò essere utile richiamare l’attenzione sulle considerazioni che seguono, dovute allo studioso svedese Gunnar  Myrdal , che ha dato contributi eminenti sia all’economia sia alla sociologia.

... Le scienze sociali stanno ora penetrando ogni angolo della società e ogni fase della vita umana. Vanno gradualmente infrangendosi i tabù e la loro distruzione, nell’intento di razionalizzare il senso comune, è divenuta una dei maggiori obiettivi della scienza sociale occidentale. Ci rendiamo conto che tutti i problemi umani sono complessi; essi non possono essere incasellati nei comparti delle discipline accademiche tradizionali, in modo da essere considerati come problemi economici, psicologici, sociali o politici. A volte, per fini didattici o per maggiore efficacia della ricerca mediante la specializzazione, le antiche discipline sono state mantenute ad anche divise in sottodiscipline; tuttavia non viene da noi attribuito a queste divisioni il medesimo significato che avevano nel passato. Oggi, ad esempio, nessuno avanzerebbe conclusioni circa la realtà sociale unicamente in base a concetti economici, per quanto ciò fosse fatto frequentemente due generazioni fa. Per evitare impostazioni superficiali e unilaterali, le discipline sociali specializzate cooperano nella ricerca. In aggiunta, una particolare disciplina, la sociologia, pone l’accento sull’insieme delle relazioni sociali e si occupa in modo speciale di quei campi della realtà sociale, che sono analizzati in modo meno approfondito delle altre discipline. (Myrdal, 1968, vol. 1 p. 5).

4.      La funzione dei “giudizi di valore”

Si deve allo stesso Myrdal un contributo molto importante al chiarimento della posizione che le “premesse o giudizi di valore” (vale a dire le preferenze politiche e gli ideali etici) hanno nelle scienze economiche, o sociali in genere.

Il dibattito sull’obiettività della scienza (che implicherebbe la sua “neutralità” nei confronti dei diversi ideali politici e morali), ovvero sull’inevitabilità che essa rifletta anche la “visione del mondo” dello studioso (e quindi preferenze di carattere necessariamente soggettivo) è antico quanto lo sforzo umano rivolto all’ampliamento delle conoscenze. Myrdal ha contribuito a tale dibattito, assumendo una posizione decisamente critica nei confronti della  tradizionale e diffusa concezione secondo la quale la scienza potrebbe considerarsi tale solo in quanto “immune da giudizi di valore”.

Come egli scrive, “………Il credere nell’esistenza di un corpus di conoscenze scientifiche acquisite  indipendentemente da ogni giudizio di valore  è, come ora io ritengo, ingenuo empirismo (…)” In qualsiasi lavoro scientifico “ si devono porre delle domande per ottenere risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse nelle cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni. (Myrdal, 1953, Prefazione, p. VII).[1]

In altri termini, gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli. È quello appunto che suggerisce Myrdal, allorchè afferma il suo convincimento “nella necessità di lavorare sempre, dal principio alla fine, con esplicite premesse di valore”; avvertendo inoltre che esse debbono essere “ importanti e significative per la società in cui viviamo”. (ibid. , p. VIII).[2]  […]

5.      I criteri ispiratori della trattazione

Per rimanere aderenti a questa impostazione,  ci è d’obbligo avvertire il lettore che la trattazione che seguirà è influenzata dalla premessa ideale del prevalere inevitabile delle idee, alla lunga, sugli interessi costituiti.   […]

Il metodo seguito nella trattazione è poi quello di tendere alla ricostruzione storica degli sviluppi sia del pensiero teorico, sia dell’azione dei poteri pubblici nella vita economica, nell’intento di porre in rilievo la maniera in cui i vari problemi si sono venuti ponendo nel corso del tempo.

Questa concezione che tende a considerare “il presente come storia”- per utilizzare il significativo titolo di un volume di Sweezy (1970) – non consente di evitare un tema oggi largamente dibattuto e che riguarda l’affermata “crisi” della scienza economica.

6.      Un’interpretazione dell’affermata “crisi” della scienza economica

[…] Nel tentativo di contribuirvi in qualche modo, si può prendere avvio da uno dei “lamenti” che ha avuto maggiore risonanza: quello elevato da Joan Robinson con il suo articolo “la seconda crisi della scienza economica”(1972). Già questo riferimento a una duplice crisi induce ad andare oltre l’argomentazione di mera scontatezza psicologica cui allude Hahn. La prima crisi coincise, cronologicamente, con il periodo della grande depressione degli anni trenta; la seconda è, ovviamente, quella che stiamo sperimentando. Elemento comune alle due crisi è l’evidente incapacità del pensiero economico di fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni sottoposti al suo esame e di proporre soluzioni adeguate ai più assillanti problemi del momento. Con riferimento alla prima crisi, la Robinson sintetizza lucidamente i punti di vista dell’”opinione  ortodossa” alla quale si contrappose polemicamente l’insorgenza Keynesiana. […]

Ciò che interessa sottolineare è che c’era, all’epoca della grande crisi, un pensiero economico egemone, che risultava tale indipendentemente dalla distinzione interna tra concezione marshalliana e concezione warlas-paretiana (vedi p. 21). Rispetto a questo pensiero egemone (che      – si ripete – comprende, ai fini che interessano, sia la scuola di Cambridge sia quella di Losanna) , vi erano le correnti eterodosse, ereticali (incluse quelle marxiste, o quelle istituzionaliste, seguite in particolare negli stati uniti). Esse, tuttavia, erano considerate talmente poco meritevoli di considerazione, da parte del pensiero “egemone”, che destò scandalo quel certo recupero che Keynes cercò di fare di alcune intuizioni degli eretici dell’economia (Keynes, 1936, cap.23; trad. it. 1947, pp. 297 sgg.).  […]

Vi è un’impostazione che, senza negare l’opera di creazione e di incremento della scienza, considera che essa debba sostanzialmente svolgersi nell’ambito di una concezione privilegiata nella quale sono contenute le premesse di ogni ulteriore svolgimento. Vi è un’impostazione che non si limita ad attribuire carattere privilegiato a una determinata concezione, ma ritiene indispensabile un’azione “guastatrice” che demolisca, una volta per tutte, orientamenti (come quello detto marginalistico) che pur hanno costituito parte del cammino della scienza economica. Vi è, infine, una concezione che considera la scienza economica come “un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico”(Del Vecchio, 1961).  […]

Vi è poi un aspetto della affermata “crisi” della scienza economica che investe direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorati di recente orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante (Rosa e Aftalion, 1979). Atteggiamenti del genere sono talvolta indice di una specie di arrogante isolazionismo intellettuale, che sembra inconsapevole del carattere del tutto acquisito di temi metodologici (come quello della “neutralità” della scienza e della funzione dei giudizi di valore) che sono stati già da tempo chiariti e che vengono riproposti come nuovi.  Altre volte (come nel caso di f. Hayek e di M. Friedman, le figure più rappresentative del neo-liberismo economico), si sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto sociale, senza tener conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il tempo, dei “fallimenti del mercato”: aspetti che trovano una larga esemplificazione nel capitolo terzo di questo volume.

Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore. Sul piano storico, l’intervento pubblico nell’economia, è tutt’altro che esente da inconvenienti ed errori.

---------------------------------- 

[1] Può consultarsi anche Myrdal (1975).

[2] Chi sia interessato a un più approfondito esame di questi aspetti potrà consultare i seguenti scritti: Zeuthen (1961), in particolare cap. 1; J. A. Schumpeter, Scienza e ideologia, trad. it. in Caffè (1971a)pp.243sgg.


giovedì 11 aprile 2013

Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa. - Stefano Garroni -




Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa.

Così scrive Adam Smith, nel 1776: “Il prodotto del lavoro costituisce la naturale retribuzione o salario del lavoratore. In questa situazione originaria delle cose, che precede l’appropriazione della terra come anche l’accumulazione di capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Non vi sono ancora proprietari terrieri, né imprenditori (Beschäftiger), con i quali egli debba ripartire (il prodotto del lavoro). Se questa condizione fosse continuata, il salario del lavoratore sarebbe aumentato con la maggiorazione delle sue forze di lavoro, scaturite dalla divisione del lavoro. Tutte le cose sarebbero state sempre più convenienti (wohlfeiler), perché avrebbero richiesto meno lavoro per la loro produzione.”[1]

Per chiarire meglio, proseguiamo la lettura: “le cose sarebbero state prodotte da una minore quantità di lavoro e le merci, poiché prodotte da una analoga quantità di lavoro, sarebbero state scambiate l’’una con l’altra… Ma questa condizione originaria, in cui il lavoratore godeva dell’intero prodotto del suo lavoro, non poteva durare quando vi fu la prima appropriazione della terra e accumulazione di capitale” (40s).[2]

Dunque, esiste una condizione “originaria”, in cui la proprietà privata non si coniuga con lavoro salariato, perché le due figure –di proprietario privato e di lavoratore- vengono a coincidere[3] Ma a questa fase ne succede un’altra, in cui alcuni hanno la proprietà privata delle condizioni di lavoro, ed altri, invece, debbono –in cambio di un salario- ‘affittare’ la propria capacità lavorativa. E’ interessante che, giusta la raffigurazione smithiana, la prima fase della storia economica condurrebbe, se potesse svilupparsi, ad un progressivo miglioramento del tenore di vita, legato ad un progressivo abbassamento del costo delle merci.

Ma da questa fase l’umanità esce fondamentalmente per un motivo, di cui Smith non offre spiegazione, vale a dire, a causa dell’appropriazione privata delle condizioni economico-industriali (lo stock, come lo chiama Adam Smith) ed economico-agricole (con la conseguente formazione della classe dei proprietari fondiari).[4]

Come abbiamo già letto in Smith, da questo mutamento del quadro economico-sociale, deriva la formazione della figura del lavoratore salariato, a proposito del quale lo stesso Smith dichiara: “un uomo deve sempre vivere del suo lavoro ed il suo salario deve almeno esser tale da consentirgli di mantenersi; ma per lo più deve essere un poco più alto, sennò il lavoratore non avrebbe la possibilità di formarsi una famiglia, in modo che il suo genere possa esistere oltre una generazione.”[5]

Come si vede, per formulare  la tesi, secondo cui –all’interno dei rapporti sociali capitalistici di produzione- il salario del lavoratore tende a ridursi al minimo vitale, dunque, tende ad identificarsi con quanto consente al lavoratore di mantenersi come fonte di capacità lavorativa e come produttore di nuovi, futuri lavoratori, per formulare questa tesi Marx doveva semplicemente leggere i grandi economisti dell’epoca per trovarla già formulata apertis verbis – torna a manifestarsi in questo modo quello, che Marx indicava con cinismo degli economisti. Per quanto possa apparir bizzarro, l’accusa di cinismo, che Marx formula, è uno dei segni del suo rapporto con la letteratura economica ed, in questo senso, con la realtà dell’orizzonte economico capitalistico.

sabato 30 marzo 2013

Quando si paga il debito sovrano? - Giorgio Gattei -

Ma perchè è così precipitata la questione del rimborso del debito sovrano? Perchè si sono definitivamente rovesciati i rapporti di forza tra le classi sociali. Quella "guerra di classe" (si abbia il coraggio di chiamarla così) che il movimento operaio italiano aveva ufficialmente aperto con l'"autunno caldo" del 1969 è arrivata al suo termine: sgominati e dispersi quei soggetti sociali che l'avevano promossa, non occorrono più quelle armi materiali (sappiamo tutti ben quali...) che lo Stato "dei padroni" ha dovuto mettere in campo per resistere e vincere lo scontro e per le quali aveva sostenuto così tante spese. Adesso può farsi restituire quanto aveva anticipato, perchè pagare il debito è, nella teoria economica, il gesto conclusivo di una guerra. Finché c'è il conflitto lo Stato non può che indebitarsi per sostenerne il costo, ma quando sopraggiunge la pace spetta a tutti i cittadini, vincitori e vinti, saldare quell'impegno verso i suoi creditori che lo Stato ha contratto in nome loro. Ma seguiamo meglio in dettaglio lo svolgimento della teoria economica della "guerra".                                                                                              http://www.sinistrainrete.info/analisi-di-classe/2677-giorgio-gattei-quando-si-paga-il-debito-sovrano.html

domenica 24 marzo 2013

Fatica sprecata. Produttività e salari in Europa. - Maurizio Donato -


"[...] prescindendo da un giudizio sulla possibilità e sulla desiderabilità di un ulteriore aumento della produttività, è possibile sostenere che:

1. La produttività del lavoro, e dunque il livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive, è storicamente alta, anzi altissima, in occidente e dunque nei paesi europei capitalisticamente sviluppati;

2.. La circostanza per cui in un determinato periodo la produttività sia cresciuta in un gruppo di paesi più che in un altro può dipendere dagli investimenti in innovazioni tecnologiche, da scelte (o non scelte) politiche e strategiche, dalla dimensione media o dalla specializzazione settoriale delle imprese che operano in un determinato paese;

3... Che una maggiore produttività si traduca in più alti salari è una evidenza che non esiste a livello empirico, mentre tipicamente accade il contrario: un maggiore valore aggiunto prodotto per lavoratore occupato, anche a voler prescindere dei suoi “sbocchi”, in particolare nelle fasi in cui la domanda internazionale è debole, corrisponde da molti anni a questa parte a una minore e più precaria occupazione che a sua volta si traduce in una maggiore competizione sul mercato del lavoro che indebolisce la lotta per aumenti salariali.

4. La crisi non colpisce tutte le classi sociali allo stesso modo: la quota di salari diminuisce e quella destinata ai profitti cresce"

Leggi tutto: http://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/2656-maurizio-donato-fatica-sprecata-produttivita-e-salari-in-europa.html.

mercoledì 20 marzo 2013

Il tema hegeliano del "riconoscimento". - Stefano Garroni -


Hegel è tutto fuorché un intellettualista: senza la creazione mediante l’azione negatrice non c’è contemplazione del dato. La sua antropologia è fondamentalmente differente dall’antropologia greca, per la quale l’uomo dapprima sa e si riconosce, quindi, agisce.” (Alexandr Kojève).

Negli anni Venti del nostro secolo, il neopositivista Moritz Schlick sottolineava come conoscere (erkennen) sia propriamente un ri-conoscere (wieder-erkennen).

Com’è noto, questo tema del conoscere come riconoscere già lo abbiamo incontrato in Hegel; dunque, può destare qualche meraviglia ritrovarlo in un ambiente (quello neo-positivista), che di solito considera Hegel il campione del pensiero speculativo e metafisico, contro cui si indirizza l’analisi linguistica, proposta, a partire dal Wienerkreis (Circolo di Vienna, 1929), quale strumento terapeutico contro gli abusi linguistici[1] e di pensiero.

La stessa puntualizzazione, che chiarisce come per Hegel non si tratti esattamente di erkennen/wiedererkennen (riconoscere), ma sì di erkennen /anerkennen (riconoscere, ma nel senso di legittimare), non ci toglie dall’imbarazzo, dato che M. Schlick usa wiedererkennen, intendendo dire che <conoscere X>  equivale a ritrovare in X la possibilità di ricondurlo a una certa forma o regola, nella quale la ragione ritrova o riconosce se stessa; dunque, per Schlick, affermare che la ragione conoscendo, riconosce X, significa dire che la ragione legittima X, testimonia della sua razionalità, lo accetta nel dominio del razionale. A questo punto wiedererkennen vale esattamente anerkennen.

Da quanto detto, si possono ricavare due conseguenze:

(i) comune a due grandi momenti del razionalismo moderno (pensiero di Hegel e Wienerkreis[2]) è la concezione del conoscere (che ha nella scienza la sua espressione più compiuta[3]) come riconoscere/legittimare;

(ii) ciò posto, possiamo esaminare il tema nel solo Hegel, pur avendo lo scopo di mettere in evidenza come conoscere/riconoscere implichi certe condizioni, che valgono probabilmente per qualunque razionalismo moderno.

domenica 17 marzo 2013

IL PROFETA DELLA CRISI. TRIBUTO A HYMAN MINSKY - intervento di Riccardo Bellofiore - 5 dicembre 2011

http://www.fondazionezaninoni.org/pdf/quaderno19.pdf


Vorrei cercare di dare una lettura minskiana della crisi. Mi vorrei interrogare su quale capitalismo è andato in crisi, su quale crisi globale, ed europea, abbiamo vissuto e stiamo vivendo. Minsky a volte raccontava la storia, che noi conosciamo bene, del comico – lui l’avrebbe chiamato “banana” – che fa finta di aver perso le chiavi e le cerca sotto un lampione. Arriva un poliziotto e gli chiede cosa stia cercando. Lui risponde che cerca le sue chiavi, e al poliziotto che a questo punto gli domanda dove le ha perse, replica: “le ho perse laggiù”. “Ma come mai allora le cerchi qui?”. “Le cerco qui perché qui è illuminato”. Minsky polemizzava con le teorie che analizzano il capitalismo, e dunque le sue crisi, dimenticando la sua natura monetaria. In realtà, se vogliamo sapere qual'era il lampione sotto il quale cercava Minsky, lui su questo è molto trasparente. Cito da un commento che fece a un convegno, dove disse: “Un altro grande filosofo americano, Vincent Lombardi, che come già George Allen era un allenatore di football americano di successo,una volta disse che vincere non è qualcosa, vincere è l’unica cosa. Vorrei parafrasare questo vecchio saggio e proporre l’affermazione radicale che per un’analisi delle economie capitalistiche la moneta non è qualcosa, è l’unica cosa”.Credo che nella teoria economica sono abbastanza pochi quelli che avrebbero aderito a questa impostazione. I più significativi sono Schumpeter, Keynes e Marx. Nel mio caso, ho due lampioni. Credo che per analizzare il capitalismo che è andato in crisi dobbiamo analizzare da un lato il lavoro e dall’altro la dinamica della moneta e della finanza.

giovedì 31 gennaio 2013

CENNI STORICI DEL MOVIMENTO COMUNISTA - Stefano Garroni -



1/5
Un’ osservazione da cui vale la pena di partire è questa: recentemente uno storico inglese marxista (Hobsbawm), ha pubblicato un libro dal titolo “IL SECOLO BREVE”. Il secolo breve sarebbe quello arco di tempo che va dalla prima guerra mondiale e quindi dalla rivoluzione d’ottobre arriva fino alla dissoluzione del campo socialista. Perché secolo breve? Perché, secondo Hobsbawm è un secolo che è durato meno di quanto il termine dica, e che è caratterizzato da una fondamentale ambiguità. Se per un verso è stato vissuto, inteso, interpretato dai contemporanei come il momento del grande scontro e contrasto tra i due sistemi sociali contrapposti (quello capitalistico e quello socialistico), nella realtà invece il periodo indicato è stato caratterizzato da una grande gigantesca opera di modernizzazione e industrializzazione a livello mondiale condotta in tempi rapidissimi, certamente all’interno di regimi sociali diversi, da una parte regimi capitalistici e dall’altra i regimi nati dalla rivoluzione d’ottobre, i quali ultimi però non avevano le caratteristiche fondamentali di regimi socialisti. Erano piuttosto regimi non capitalistici basati sulla proprietà statale degli strumenti di produzione e sulla direzione politica fortemente centralizzata e burocratizzata, che tendevano a ottenere appunto una rapida modernizzazione e industrializzazione dei loro paesi rispettivi. Internazionalmente questo contrasto è stato inteso (ecco il problema di fondo), come il grande contrasto tra i due regimi capitalistico e socialistico che si confrontavano a livello internazionale. In realtà si trattava di una rappresentazione propriamente ideologica, autorizzata certo dai regimi dei paesi dell’est europeo poniamo, dalla rivoluzione d’ottobre, ma che non teneva conto di una realtà fondamentale e cioè che l’ipotesi di fondo su cui la rivoluzione d’ottobre era iniziata (ovvero che fosse possibile operare la rottura dell’anello più debole della catena imperialistica, ma che questo avrebbe comportato un’ulteriore rottura in anelli forti, in particolare la Germania, della catena imperialistica), questa ipotesi fondamentale in realtà non si realizzò e, per dirla seccamente, invece della rivoluzione proletaria in Germania come è noto, vinsero i nazisti. Già per Lenin era chiarissimo che se la rivoluzione fosse stata costretta a limitarsi alla Russia, allora la Russia sarebbe stata invasa dall’arretratezza e dalla barbarie asiatica, mentre invece se la rivoluzione si fosse potuta estendere fino a zone di capitalismo avanzato (ripeto in particolare la Germania), lo scettro del comando della rivoluzione mondiale doveva passare appunto alla Germania operaia e la Russia avrebbe offerto il proprio sostegno di uomini e di materie prime, però a questo, diciamo questo paese guida perché più sviluppato, più evoluto dalle più grandi tradizioni politiche, democratiche e dotato di una classe operaia esperta, numerosa e combattiva. Il fallimento di questa ipotesi ha cambiato il quadro internazionale e ha costretto l’unione sovietica appunto nei limiti della sua arretratezza. Ciò ha comportato una serie di conseguenze, politiche e sociali, tra cui (vale la pena di ricordarlo) la necessità per l’unione sovietica di accelerare i tempi, non solo della propria industrializzazione ma specificatamente dell’industrializzazione dal punto di vista dello sviluppo delle industrie pesanti, degli armamenti e delle industrie che producono strumenti di produzione, questo in tempi assai rapidi, sulla base di uno sforzo lavorativo molto intenso e quindi sulla base di una disciplina ferrea all’interno del paese. Ovviamente tutto questo non ha favorito lo sviluppo della democrazia sovietica o operaia e ha contribuito invece a creare le condizioni perché i vecchi strati privilegiati della burocrazia zarista potessero tornare in sostanza al potere coperti dall’adesione apparente al nuovo partito comunista e quindi in sostanza ha contribuito a che si determinasse un’evoluzione burocratica in unione sovietica e la sostituzione progressivamente al potere del proletariato al potere di una burocrazia che governava in nome del proletariato. Dal punto di vista dell’interpretazione del marxismo, della chiarificazione del significato del marxismo tutto ciò ha avuto delle conseguenze notevoli. 

martedì 22 gennaio 2013

IL CAPITALE - LIBRO I SEZIONE VI IL SALARIO



CAPITOLO 17

TRASFORMAZIONE IN SALARIO DEL VALORE
E RISPETTIVAMENTE DEL PREZZO DELLA FORZA LAVORO
Alla superficie della società borghese il compenso dell’operaio appare quale prezzo del lavoro: una determinata quantità di denaro che viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Qui si parla del valore del lavoro e si chiama l’espressione monetaria di quest’ultimo prezzo necessario o naturale del lavoro. D’altra parte si parla di prezzi di mercato del lavoro ossia di prezzi oscillanti al di sopra o al di sotto del suo prezzo necessario.
Ma che cos’è il valore di una merce? È la forma oggettiva del lavoro sociale speso per la sua produzione. E mediante che cosa misuriamo la grandezza del suo valore? Mediante la grandezza del lavoro in essa contenuto. Da che cosa sarebbe dunque determinato per esempio il valore di una giornata lavorativa di dodici ore? Dalle dodici ore lavorative contenute nella giornata lavorativa di dodici ore; il che non è che un’insulsa tautologia[21].
Per essere venduto sul mercato come merce, il lavoro dovrebbe comunque esistere prima di essere venduto. Ma se l’operaio potesse dargli un’esistenza autonoma, venderebbe merce e non lavoro[22].
Fatta astrazione da queste contraddizioni, uno scambio diretto di denaro ossia di lavoro oggettivato con lavoro vivente, abolirebbe o la legge del valore che comincia a svilupparsi liberamente proprio e soltanto sulla base della produzione capitalistica, oppure la stessa produzione capitalistica, la quale si basa per l’appunto sul lavoro salariato. La giornata lavorativa di 12 ore si presenta per esempio in un valore di denaro di 72 €. O si ha uno scambio di equivalenti e in tal caso l’operaio riceve per il suo lavoro di 12 ore 72 €. Il prezzo del suo lavoro eguaglierebbe il prezzo del suo prodotto. In questo caso egli non produrrebbe alcun plusvalore per il compratore del suo lavoro, i 72 € non si trasformerebbero in capitale, la base della produzione capitalistica scomparirebbe: ma è precisamente su questa base che egli vende il suo lavoro e che il suo lavoro costituisce lavoro salariato. Oppure egli riceve in cambio delle sue 12 ore di lavoro meno di 72 € ossia meno di 12 ore di lavoro.
Dodici ore di lavoro vengono scambiate con dieci, sei, ecc. ore di lavoro.

giovedì 10 gennaio 2013

Circa la categoria di "merce" in Marx. Arbeitskraft e Arbeitvermögen. - Stefano Garroni -


“Di primo acchito, la ricchezza borghese appare come un’immane raccolta di merci, la singola merce essendone l’esistenza (Dasein) elementare. Ma la singola merce si rappresenta (darstellen) sotto il duplice punto di vista[1] di valore d’uso (d’ora in avanti <gw>, abbreviazione del tedesco Gebrauchswert) e valore di scambio (<tw>, dal tedesco Tauschwert). [2]</tw></gw>

Questo incipit è ripreso, pressocché letteralmente, nel capitolo sulla <merce> del primo libro di Das Kapital, con una variante, però, che forse merita di esser sottolineata.</merce>
Se in Zur Kritik, Marx parla della merce come  esistenza (Dasein) elementare della ricchezza borghese, in Das Kapital, invece, preferisce definirla Elementarform della stessa ricchezza borghese[3]; ciò che va notato, qui, è che il generico esistere è concepito da Marx (certo sulle orme di Hegel) come un processo, che si svolge mediante ‘figure’ o forme diverse, sicché quando parlo dell’esistere di un qualcosa posso intendere o il suo immediato e puntuale esserci, oppure la serie di quelle figure o forme, attraverso cui l’oggetto si svolge e raggiunge il suo finish.

Nel modo di esprimersi degli economisti borghesi –continua  Zur Kritik- la merce è innanzi tutto “qualunque cosa necessaria, utile o piacevole per il vivere, oggetto dei bisogni umani, mezzo di vita nel senso più ampio del termine. Questo esserci della merce come GW e la sua esistenza naturalmente manifesta coincidono … Il  valore d’uso ha valore solo per l’uso e si realizza unicamente nel processo del consumo.”[4]

Questa pagina non si presta solo alla banale osservazione che, anche per Marx, la produzione economica ha da essere utile necessariamente per l’uomo, quale che sia il bisogno che essa soddisfi; piuttosto è importante, mi sembra, rilevare che la riflessione marxiana evidenzia come il modo di pensare degli economisti borghesi faccia intimamente corpo con l’angustia ed astrattezza dell’atteggiamento (filosofico!) utilitarista.[5] Per fare un esempio,  così scrive De Vecchi: “Jevons ipotizza un mercato ‘perfetto, nel senso che ogni scambista possiede informazioni complete sulla disponbilità delle varie merci da parte di tutti gli atri scambisti, sulle loro intenzioni ad effettuare tutti gli scambi tra due merci qualsiasi a un identico rapporto di scambio, e sui termini nei quali avvengono gli scambi in un dato istante.”; ed ancora: “Jevons ipotizza un mercato ‘perfetto’, nel senso che ogni scambista possiede informazioni complete sulla disponibilità delle varie merci da parte di tutti gli altri scambisti, sulle loro intenzioni ad effettuare tutti gli scambi tra due merci qualsiasi a un identico rapporto di scambio, e sui temini nel quale avvengono gli scambi in un dato istante.” [6]

Richiamandosi ad un motivo che già era della tradizione economica, Marx sottolinea che quale che sia la forma sociale della ricchezza, i GW contrappongono sempre il loro contenuto indifferente a tale forma.[7]
“Per quanto oggetto dei bisogni sociali e, quindi, interno all’insieme sociale, tuttavia il GW non ha in sé l’impronta di nessun rapporto sociale di produzione … (una merce) è merce in quanto è indifferente rispetto all’uso che se ne fa.

Il valore d’uso nella sua indifferenza nei confronti di una determinata forma economica, dunque il GW in quanto GW, si colloca fuori dell’ambito di analisi dell’economia politica[8]. Il valore d’uso rientra certamente nell’ambito dell’economia politica, quando codesto valore è una forma determinata: ovvero, in quanto immediatamente il GW è la base materiale, nella quale si rappresenta un determinato rapporto economico, il TW.[9]

Una disarmonia tra valore d’uso e valore di scambio consiste nel fatto che mentre il GW appare essere un necessario presupposto per la merce, il valore di scambio si presenta dapprima come rapporto quantitativo, in cui valori d’uso diversi si scambiano tra di loro. In tale rapporto, essi formano la stessa grandezza di scambio[10]. Così commenta icasticamente (ma affatto realisticamente) Marx: un volume di Properzio ed otto prese di tabacco possono avere lo stesso TW, nonostante l’estrema diversità di GW, che hanno elegie e tabacco.[11]

Come TW, un GW è tanto valore quanto un altro, purché stiano tra loro nella corretta proporzione.[12]
Insomma, con totale indifferenza nei confronti della loro naturale forma di esistenza e senza alcun riguardo alla specifica natura del bisogno per il quale sono un GW, le merci nello scambio si sovrappongono[13], si sostituiscono l’una con l’altra, valgono come equivalenti e rappresentano la stessa unità, nonostante la  loro variopinta apparenza.

Una prima puntualizzazione del rapporto tra valore d’uso e valore di scambio potrebbe esser così schematizzata:


  • Sappiamo che i GW sono immediati mezzi di vita, i quali derivano da una attività sociale, ovvero dall’erogazione di forza-lavoro, necessaria alla loro produzione: i GW sono, dunque, lavoro oggettivato, materializzazione del lavoro sociale: in questo senso è vero che tutte le merci sono cristallizzazioni di una stessa sostanza.
  • Ma se consideriamo le diverse attività produttive –le quali danno luogo a diversi GW-, non possiamo certo affermare che tutte le merci siano cristallizzazioni esattamente di una stessa sostanza: ogni diverso GW pretende, infatti, l’erogazione di un lavoro concreto, specifico, destinato a produrre non qualunque merce, ma esattamente quella lì di cui è il caso. Cos’è, dunque, questa stessa sostanza?
  • Rispondere alla domanda è fondamentale, perché significa dotarsi di un criterio, in base al quale poter affermare che due merci naturalmente diverse e di quantità diverse hanno lo stesso valore, in quanto contengono la stessa quantità di quella comune sostanza, che si presenta immediatamente come valore di scambio.[14]
  • Quando si dice che merci diverse hanno uno stesso valore di scambio, ovvero, quando si dice, poniamo, che x M = y M’ ( che la quantità della merce ha lo stesso valore di scambio della quantità della merce M’) stabiliamo una relazione quantitativa a tutta prima ben comprensibile, la quale ci dice quale sia il valore di scambio di x M, assegnando ad y M’ la funzione di equivalente.[15]

Ma possiamo complicare ulteriormente la formula ed affermare, così, che un numero indefinito di altre merci hanno lo stesso valore di scambio y M’a questo punto potremmo dire di aver compreso perfino il senso e il processo di formazione del  denaro (y M’ = D), ovvero dell’ equivalente generale[16]
Riflettiamo ancora sulla situazione, in cui GW diversi, ed in quantità diverse, equivalgano tutti ad una stessa quantità di valore di scambio: dunque, la diversa utilità dei vari GW perde di rilievo ed emerge unicamente che, tutti, rappresentano uno stesso lavoro semplice, privo di specificazioni (Gleichgültig) e differenze (Unterschiedlos).

Se dal punto di vista del TW esistono diversità tra le merci in questione, queste derivano non dai differenti, determinati lavori che ogni GW comporta, ma sì dalle diverse quantità di lavoro erogato per ogni singolo caso, quali che siano le qualità determinanti dei singoli lavori e dei loro prodotti.
Possiamo dire, dunque, che quando diverse merci vengono misurate per il loro valore di scambio, ciò a cui si fa attenzione non è più il generico lavoro/fatica, né il lavoro in quanto specifica, determinata attività, finalizzata ad un certo scopo ma non ad un altro. Sì piuttosto in quanto energia, misurabile matematicamente e, quindi, presupponendo un’organizzazione sociale, che rende possibile questa astratta quantificazione (non si tratta, dunque, di una generica asterazion, ma sì di una astrazione storicamente determinata).

Ciò che entra in considerazione, dunque, è certo il lavoro, ma a prescindere dalle sue determinazioni o qualità particolari: insomma, ora è in considerazione il lavoro astratto, privo di differenze (nel senso, che abbiamo tentato di chiarire).

Cerchiamo di capire meglio, quale senso possa avere – in Marx – l’espressione <lavoro astratto="">.</lavoro>

L’ipotesi più immediata – e suggerita a volte dallo stesso testo di Marx-  è che si ha lavoro astratto, quando si prescinde dalla particolarità, dalla determinatezza di ogni lavoro concreto, ritrovandosi così tra le  mani la semplice capacità lavorativa umana, senz’altre determinazioni.[17]
Quest’ipotesi esplicativa, di cui pure si hanno altri esempi in testi marxiani[18], ha il limite di ridurre il lavoro astratto ad un semplice efflatus vocis, che non riesce a suggerirci nulla di riconoscibile nella realtà (Wirklichkeit), nulla di vivo, di operante effettivamente.
Se fosse questa la strada, attraverso cui giungere alla categoria di lavoro astratto, non potremmo concludere altrimenti se non che codesta categoria è solo un oggetto di pensiero, qualcosa che ha realtà unicamente per il pensiero e che, dunque, non è possibile elevarlo alla funzione di regolatore di fatto degli scambi economici.

Ma proviamo a proporre un’altra strada, un altro ragionamento –di cui,per altro, abbiamo già sottolineato alcune caratteristiche..
Quale che sia la società, per mantenersi e svolgersi, essa ha bisogno di lavoro –non di un lavoro in particolare, ma di lavoro nel senso di tutto quel complesso di possibili attività, di potenzialità,[19] che ne soddisfano i bisogni -  non dunque un lavoro senza ulteriori determinazioni, sì piuttosto di un lavoro capace di assumere tutte le determinazioni, necessarie al vivere sociale, in un certo momento storico[20].
A differenza dal lavoro astratto di cui abbiamo detto prima, questo lavoro generalmente sociale esiste, solo, se si articola e differenzia attraverso i molti lavori concreti, determinati, ovvero quelli che producono certe merci e non altre, che soddisfano certi bisogni e non altri.[21]  Non si tratta, dunque, di valore astratto, perché spogliato di ogni determinazione, ma perché capace di tutte le variazioni di lavoro concreto, storicamente date e storicamente plasmabili.

A questo punto scopriamo che il marxiano ‘lavoro astratto’ non ha sostanzialmente nulla a che spartire con una nozione empiristica, dacché riproduce la forma  e la struttura della totalità dialettica, insomma di quel tutto che, pur essendo fatto di parti, pur essendo articolato in parti, è sempre oltre le singole parti e il loro stesso insieme.[22]

Detto in altri termini, ognuno dei diversi lavori determinati o concreti sono specificazioni –storicamente mutevoli- della generale capacità (Vermögen) lavorativa dell’umanità in generale. Capacità che –com’è ovvio per ogni universale, inteso dialetticamente- non esiste se non appunto nelle sue determinazioni, specificazioni concrete.[23]

Per chiarir meglio quest’ultimo punto, ricordiamo una precisazione dell’economista francese Suzanne de Brunhoff[24]: il lavoro astratto, nel senso qui chiarito, è sempre lavoro, che produce qualcosa, destinata ad entrare nella circolazione mercantile e, dunque, capace, potenzialmente, di realizzare plusvalore.
In altri termini il lavoro improduttivo non rientra nella Arbeitsvermögen (Ma qui si apre un alrtro tema, che merita una trattazione specifica).






[1] - Si noti che Marx non parla di due qualità della merce, nel senso ad es. che l’una possa esser separata dall’altra; sì piuttosto, di due prospettive, secondo le quali la stessa merce deve poter essere considerata.

[2] - K.Marx, Zur Kritik der Politischen Ökonomie. Erstes Kapitel: die Ware, Dietz Verlag Berlin 1971: 21

[3] - K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie. Erster Band. Buch I : Der Produktionsprozeß des Kapitals, vlo in  Marx Engels WerkeBand 23, Berlin Dietz Verlag 1970: 49. (D’ora in avanti MEW. 26.I). La prima osservazione da fare è che entrambe le formulazioni usate da Marx si coniugano perfettamente con la concezione del movimento storico come sviluppo a partire da un <germe> o Keim, che già troviamo in Hegel e che Engels esplicitamente riprenderà più volte. Va sottolineato, però, che, secondo Marx, la forma elementare del capitale non è ancora, in sé e per sé, capitale, ma lo diviene in certe condizioni. La forma elementare, insomma, è l’Ausgangspunkt  della Kapitalbildung,, il punto di partenza della costruzione capitalistica, ma solo a patto che se ne diano le condizioni appropriate. </germe>

[4] - Zur Kritik, op. Cit.: 21. A differenza dalla capacità di lavoro, la merce –si legge in MEW. 26.1: 134- è una cosa materiale, che sta in contrapposto all’uomo e che ha una determinata utilità per lui; nella merce si materializza, si cristallizza un certo quantum di lavoro. Naturalmente in primo luogo, nel travail, qui se fixe et réalise in a venal and echangeable commodity, Adam Smith include tutti i lavori intellettuali, che vengono consumati direttamente nella produzione materiale. Non solo il lavoratore materiale diretto e il lavoratore che opera con macchinari, ma anche l’overlooker, l’ingegnere, il manager, ecc., in breve il lavoro dell’intero personale, che è presente in una determinata sfera della produzione materiale, allo scopo di produrre determinate merci e la cui cooperazione è necessaria per la fabbricazione delle merci. Nella realtà essi aggiungono al capitale costante il loro lavoro complessivo e, d’altrettanto, fanno crescere il valore. Già da quanto detto,si ricava che se un  lavoro non è utile ad altri, non crea valore di scambio, ma solo un oggetto d’uso personale per il produttore: in questo senso, non si tratta di lavoro produttivo (Pennavaja, op. cit.: 11).

[5] - Il che inevitabilmente comporta l’immagine della vicenda economica, centrata su due astrazioni: (a) i desideri o bisogni (naturali o artefatti) del singolo uomo o dell’uomo en tant que tel, il quale  (b) è autore di consapevoli  e libere scelte, operate nel quadro di un mercato  che, col tempo, diviene addirittura mondiale. Per la questione del nesso fra economia marginalistica, da un lato, e psicologismo e utiltarismo, dall’altro, cf. N. De Vecchi, JevonsIl  problema del calcolo logico in economia politica, Milano 1976.

[6] - N. De Vecchi, op. cit.: 50s. Mutando ciò che c’è da mutare, questa è esattamente l’impostazione della morale utilitaristica.

[7]  - Per quanto possa esser presente questo motivo nella tradizione economica, ciò che sul serio vale sottolineare è l’implicita distinzione, che Marx opera, tra contenuto materiale della dimensione economica e sua struttura formale: è proprio tale distinzione che consentirà a Marx di cogliere la radicale storicità dei modi di produzione e le loro differenti ‘leggi di sviluppo’. Ricordiamo, inoltre,  l’affermazione di Hegel, per cui la forma è l’essenza del reale.

[8] - Questo è il motivo, per cui compilatori tedeschi trattano con amore i valori d’uso, fissati sotto il nome di <beni> ... Cose sensate sui <beni> bisogna cercarle in Avviamenti alla merceologia. Come Marx ribadisce, in Das Kapital, op. cit.: 50, lo studio delle varie qualità delle merci costituisce una scienza specifica: la merceologia o Warenkunde.</beni></beni>

[9] - Zur kritik, op. cit.: 22.

[10] - E’ ovvia la precisazione, che se ne trae: se il Gw sta a significare relazione del ‘bene’ con necessità o desideri umani, invece, il TW implica necessariamente che la singola merce sia posta in raffronto con altre merci: quindi, come Marx dirà, a rigore non esiste il valore di scambio, sì esistono i  valori di scambio.

[11] - Cf. AAVV, Marx in questione, Napoli 2009: 66.

[12] - Zur Kritik, op. cit. : 22.

[13] - Come si potrebbe dire in geometria –d’altronde più volte Marx –ma in generale l’economia politica- fa ricorso ad un linguaggio, che deriva dall’ambito matematico o delle scienze naturali (chimiche e biologiche in particolare). In proposito, v. C. Pennavaja,. K.Marx. L’analisi della forma di valoreLaterza 1976: 8. “Uno dei grandi errori dell’economia politica classica, sta nel fato che non riesca a giungere dall’analisi della merce e, in particolare, del valore della merce, a ricavare la forma di valore, che le si presenta come TW. I suoi rappresentanti migliori, come A. Smith e D. Ricardo, trattano la forma valore come qualcosa del tutto indifferente ovvero eterno alla natura della merce. La ragione non sta solo nel fatto  che l’analisi della grandezza di valore assorbe tutta la loro attenzione. La cosa è più profonda: la forma valore del prodotto del lavoro è la forma più astratta, ma anche più generale del modo di produzione borghese … Va notato una volta per tutte che, con economia politica classica, io intendo tutta l’economia dopo Petty, che indaga l’interna connessione dei rapporti di produzione borghesi, in contraddizione con la economia volgare, che si dà da fare solo all’interno dell’apparente connessione, … la quale (economia volgare) perciò si limita a sistematizzare, a render ancor più piatte e stravolgerle in una eterna verità –così  come  una visione del mondo -le rappresentazioni banali, ma per sé piacevoli, degli attori della produzione borghese. (MEW. 23: 95n.)

[14] - Anticipando sul testo di Marx, com’è noto, per lui, la ‘comune sostanza’ è il lavoro astratto o generalmente umano, che in quantità diverse, è socialmente cristallizzato in merci diverse. Potremmo dire che il lavoro sociale, astratto o generalmente umano è l’insieme dei lavori determinati o concreti ( cioè dei lavori richiesti dalla produzione di questa e non di quella merce, dunque, specificamente volti a produrre M e non M’), i quali costituiscono le determinate articolazioni del lavoro astratto o sociale. Possiamo dire, dunque, che il lavoro generalmente umano è un’astrazioneche va formandosi mediante il meccanismo economico dello scambio, ma anche che lo rende possibile, tale meccanismo. In questo senso, il lavoro astratto esiste, in quanto astrazione socialmente e storicamente necessaria, che non va confusa con la generica e indeterminata fatica, che dai tempi più antichi fu considerata come valore del bene.

[15] - Naturalmente i rapporto tra GW e TW, quale si realizza nella società capitalistica, appartiene specificamente a quest’ultima. (V. Pennavaja, op.cit.: 6.).

[16] - Se quantità diverse di merci diverse vengono sempre misurate nei termini di quantità di Y, quest’ultima merce assurge al ruolo di denaro. Un anticipo di questo argomento marxiano lo troviamo in Sulla formazione e la distribuzione delle ricchezze del fisiocratici Turgot (Roma 1975).

[17] - In proposito vale la pena ricordare che, a volte, Marx usa l’espressione Arbeitsvermögen , in luogo del più abituale Arbeitskraft.

[18] - Ad es., nell’ “Intr.” alla Zur Kritik …, op.cit. : 229, Marx definisce “eine verständige Abstraktion“  (un’astrazione sensata) l’espressione la produzione in generale, supportando questa sua tesi con argomenti tipicamente empiristici (la possibilità di usare formule abbreviate, che però mettono in luce aspetti, presenti in ogni caso concreto, dunque, la possibilità di evitare inutili ripetizioni).

[19] - In questa chiave è interessante l’uso da parte di Mrx dell’espressione Arbeitsvermögen.

[20] - Utilissimo alla comprensione di ciò, quanto cita da Marx C. Pennavaja, op.cit.: 14s.

[21] - Per comprendere ciò è utilissimo tener presente che cosa modifichi la grandezza di valore di una merce. (C. Pennavaja, op.cit. 1976: 8); ma di grande chiarezza è anche il testo di Marx, che la stessa Pennavaja cita a p. 24 del suo libro: “Lavoro umano senz’altro, erogazione di forza-lavoro umana, è, sì, capace di ogni determinazione, ma è in sé e per sé indeterminato.”

[22] - Si potrebbe dire, utilizzando una terminologia cara al filosofo H.H. Holz, che si tratta di un lavoro, die greift alle die andere besondere und konkrete Arbeiten über – in tedesco, infatti, übergreifen ha, appunto, questo significato di contenere le proprie parti, ma di non esaurirsi in esse.

[23] - Inteso in questo modo, infatti, il ‘lavoro astratto’ –ovvero sottoponibile a misurazione matematica- è possibile solo in un contesto socio-economico, caratterizzato da una determinata organizzazione del lavoro e da un certo livello di sviluppo tecnologico.

[24] - S. de Brunhoff, La politiqe monétaire. Un essai d’interpretation marxiste., Paris 1970.