venerdì 29 giugno 2012

la cosiddetta cultura del “nuovo” - Stefano Garroni


"Per il contegno di tali capi, i partiti operai di questi paesi non si sono opposti alla condotta criminale dei governi e hanno invitato la classe operaia a identificare la sua posizione con quella dei governi imperialisti. I capi dell'Internazionale hanno tradito il socialismo votando i crediti di guerra, ripetendo le parole d'ordine scioviniste ("patriottiche") della borghesia dei "loro" paesi, giustificando e difendendo la guerra, entrando nei ministeri borghesi dei paesi belligeranti, ecc. ecc.. I più influenti capi socialisti e i più influenti organi della stampa socialista dell'Europa odierna si mettono da un punto di vista sciovinista borghese e liberale, e niente affatto socialista. La responsabilità di questo oltraggio al socialismo ricade innanzitutto sui socialdemocratici tedeschi, i quali erano il partito più forte e più influente della II Internazionale. Ma non si possono nemmeno giustificare i socialisti francesi, i quali hanno accettato dei posti ministeriali nel governo di quella stessa borghesia che tradì la sua patria e si accordò con Bismarck per schiacciare la Comune."...          ( Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa)                                                                                                                                                                
Un motivo fondamentale per rifiutare la cosiddetta cultura del “nuovo”  –ovvero, quella forma di coscienza, oggi tanto diffusa, secondo cui  non esiste più la povertà ma sì i ‘nuovi’ poveri; non esiste più la centralità dell’industria capitalistica, ma sì l’universo post-industriale, ecc.-, una ragione basilare –dicevo- per denunciare tutto ciò, come un caso ulteriore della mistificazione ideologica  borghese, sta nel fatto che più guardiamo da vicino la crisi, che oggi  viviamo e i problemi attuali del movimento operaio, e più ci rendiamo  conto che l’autentica svolta storica si colloca in un tempo relativamente lontano: intendo la prima guerra mondiale.

E ciò è vero non solo dal punto di vista strettamente economico-sociale, ma sì anche da quello dell’intera civiltà, che sostanzia la nostra vita attuale. Ciò significa ad es., che più che mai si dimostra oggi la profondità della denuncia leniniana della sostanziale arretratezza teorica del movimento operaio, anche quando si dichiara marxista (anzi, in particolare quando si dichiara marxista); come anche la denuncia lukacciana che il ‘marxismo’ della Terza Internazionale non aveva Lenin come suo punto di riferimento politico-culturale, ma sì Plachanov, non aveva il dialettico Marx come ispiratore, sia pure indiretto, ma sì il positivismo meccanicistico della Seconda Internazionale.

C’è anche dell’ingenuità nella prospettiva post-moderna, che consiste nel ritenere che epoche storico-culturali diverse si caratterizzino per la diversità dei problemi, che si pongono e non per il modo diverso, in cui sono tematizzati e vissuti quei problemi: è solo l’accettazione di questo presupposto a far sì che si possa parlare, senza sorridere, di ‘nuova’ povertà o degli USA come modello di democrazia. Un danno particolare, che consegue all’affermarsi del post-moderno o dell’ideologia del ‘nuovo’, consiste –lo abbiamo già accennato- nell’inserire una cesura tra storia del movimento comunista (prima ancora socialdemocratico) e attualità dei suoi problemi e lotte.

E’ così’ che nasce la malefica la leggenda, secondo cui il movimento  operaio non ha più un proprio linguaggio,un proprio sistema concettuale per dar senso e prospettiva a quanto oggi avviene, trovandosi perciò nella necessità di vivere ed interpretare il proprio ruolo secondo parametri non suoi, ma sì del suo avversario di classe.

Cosa può fare un piccolo gruppo, come il Collettivo di formazione marxista, contro tale situazione? Ovviamente quasi nulla.Tuttavia, c’è quel quasi che suggerisce di un piccolo, minuscolo spazio esistente – e se questo esiste, è nostro dovere cercare di riempirlo.

Stefano Garroni  (Collettivo di formazione marxista)

martedì 12 giugno 2012

Momenti del dibattito sulla Nep* - Stefano Garroni -


*Da:   http://www.contropiano.org/


In ogni società, lo sviluppo economico è legato, anche, all’esistenza di una certa proporzione – prosegue Trockij – fra i diversi rami produttivi. Per quale via il capitalismo si orienta verso la proporzione ad esso funzionale? Mediante gli alti e bassi, le cadute e i rialzi di un mercato, che si muove ‘secondo natura’, ovvero secondo una sostanziale e gratuita meccanica necessità.

L’economia socialista realizza quella proporzione, invece, attraverso un piano centralizzato. Ma tale nuova organizzazione razionale non può risolversi in un fenomeno, studiato a tavolino e imposto alla realtà; sì piuttosto ha da trattarsi di un processo che si svolge oggettivamente sulla base delle condizioni ed esigenze determinate del periodo e del luogo.

La Nep nasce, su proposta di Lenin[7], col X Congresso del Partito bolscevico, 1921, per terminare nel 1929. La Nep procurò un apprezzabile effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato, e l’alleanza politica degli operai con i contadini venne dotata di una base economica sufficientemente solida.Senonché l’introduzione della Nep destò anche vive preoccupazioni tra compagni: questa svolta economica significa forse, - questa è la domanda, che angustia – l’abbandono della prospettiva socialista e un graduale ritorno al capitalismo? Tra il capitalismo – nel quale i mezzi di produzione appartengono a privati e in cui il mercato regola le relazioni economiche - e il socialismo integrale, vale a dire un dirigismo economico e sociale, vi sono tappe di transizione: la Nep è una di queste.                                                                                            

Leggi tutto:   http://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/9551-momenti-del-dibattito-sulla-nep


venerdì 8 giugno 2012

La nazionalizzazione delle banche, secondo Lenin.


Nel 1917, ma prima dell’ottobre, in un articolo Lenin illustra la sua
proposta di nazionalizzazione delle banche. Esaminare la ‘logica’ di

tale proposta serve, pare a me, per comprendere la natura degli
obiettivi politici, delle parole d’ordine, che Lenin

propone al proletariato ed ai suoi alleati (contadini e piccola borghesia).
In primo luogo, Lenin  sottolinea che la nazionalizzazione delle

banche –ovvero la loro espropriazione e unificazione in un’unica banca
di Stato- consentirebbe a quest’ultimo effettivamente di regolare e

controllare la vita economica, sapere esattamente quali sono le
risorse del paese e come e quanti profitti vengono ottenuti.

Ottenuti da chi? E qui la parola d’ordine della nazionalizzazione
delle banche comincia ad apparire tutt’affatto diversa da una proposta

neutra, interclassistica.
Certamente, infatti, la nazionalizzazione delle banche renderebbe più

fluida la vita economica, pur non togliendo “neanche un copeco” ai
capitalisti (ed in questo senso potrebbe anche non essere avversata da

questi ultimi); ma appunto consentirebbe allo Stato un controllo
dell’attività bancaria (anche attraverso i soviet degli impiegati e

dei funzionari di Banca) e, dunque, sarebbe uno strumento essenziale
per un’economia pianificata e non orientata verso il profitto

individuale. La ‘logica’, dunque, di questa parola d’ordine, a tutta
prima motivata da semplici motivi di efficienza, si mostra legata

all’ottenimento di un altro obiettivo, ovvero, il centrale ruolo dello
Stato in sede economico-sociale; se dunque la nazionalizzazione di cui

parliamo sarebbe una riforma, profonda ma che non costerebbe “neanche
un copeco”, avrebbe tuttavia in sé la necessità di ampliarsi, ad es.

richiedendo la nazionalizzazione degli istituti assicurativi e perfino
delle coalizioni ed intrecci fra grandi gruppi economici.

Dunque, nazionalizzazione delle banche come obiettivo, immediatamente
accettabile anche da parte borghese (per motivi di efficienza), ma

che, per sua stessa natura, ha la necessità di invadere altri campi
–appunto, la nazionalizzazione degli istituti assicurativi ed il ruolo

decisivo dello Stato nell’organizzazione, regolamentazione e controllo
della vita economica.

Dunque la parola d’ordine leninista, per un verso corrisponde a una
necessità obiettiva, ad un bisogno reale di tutti coloro che hanno a

che fare con le banche (in questo senso non è una parola d’ordine
immediatamente anticapitalistica), per un altro verso, si tratta di

una parola d’ordine, che è sollecitata dalla sua stessa natura ad
allargarsi ad altri ambiti, fino ad assumere un carattere certamente

anticapitalistico.
E’ proprio questo tipo di parola d’ordine, che riceve il nome di
obiettivo transitorio e non di obiettivo intermedio.

STEFANO GARRONI

venerdì 18 maggio 2012

Sullo Stato - Stefano Garroni -

Engels potette condurre per lungo tempo, dopo la morte di Marx, una sua riflessione e sviluppare temi, a cui Marx mai si interessò specificamente. Da parte loro, i più significativi seguaci di Marx, (intendo Lenin, Trockij e la Luxemburg) scrissero ed elaborarono sotto la forte pressione di problemi radicali, sia in ambito politico, che economico, organizzativo e militare; e la conseguenza fu che una teoria dello Stato e della politica, che fosse radicata nel pensiero di Marx, non riuscì a nascere. Si badi, ad es., che se Lenin scrisse opere, propriamente teoretiche (Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici), in realtà la sua filosofia sta in tutt’altra sede (e per fortuna!), ovvero nel modo in cui condusse la lotta politica, sulla base di una certa concezione (hegeliana) del movimento storico; va da sé che, se è vero quanto dico, la ‘filosofia’ di Lenin è strettamente legata a situazioni contingenti e, quindi, difficilmente riducibile a precisi teoremi.
Ed ancora, se pure è vero che merito grande di Trockij fu quello di cogliere a fondo le caratteristiche della deformazione burocratica dell’Urss, tuttavia egli stesso non riuscì a chiarire quali fossero effettivamente le radici del fenomeno e quali specifiche, concrete riforme sarebbero state necessarie, in certe condizioni date, per combattere efficacemente quelle deformazioni.                                                                                                                                                              http://www.proletaria.it/index.php?/ita/Cultura-e-Societa/Sullo-Stato

lunedì 16 aprile 2012

LA CRISI EUROPEA OLTRE L’IDEOLOGIA DEL MERCATO - Paolo Massucci -

Inserendoci nel dibattito attuale sulla cosiddetta “crisi dell’Euro” ci proponiamo, pur senza pretesa di completezza, di coglierne alcuni punti essenziali, per poter ampliare il ragionamento al di là della preponderante informazione massificata, basata su ”l’ideologia del mercato”, fuorviante per una effettiva comprensione del processo storico sottostante. Si tratta evidentemente di un compito ostico, soggetto ad errori e fraintendimenti e certamente parziale e provvisorio, in quanto si tenta di “afferrare” una fase della storia in tumultuoso corso di svolgimento, il cui terreno sembra continuamente “muoversi sotto i piedi”. L’attuale crisi appare comunque di proporzione “storica”: è in atto un profondo e drammatico processo di riorganizzazione del sistema capitalistico, il cui esito purtuttavia non può essere né noto né certo.
Siamo vicini al collasso del sistema capitalistico? Al momento è poco probabile, mentre siamo di fronte, almeno in Europa, ad una profonda ristrutturazione dei rapporti di potere, nel segno della scomparsa dei modelli cosiddetti “democratici” del funzionamento della politica e dei modelli cosiddetti “sociali” di redistribuzione delle ricchezze, la scomparsa dunque dei diritti, pur parziali, conquistati dai lavoratori nel secolo scorso. Ma lo scenario futuro rimane imprevedibile.

Quale è il principale fattore di questa incertezza, di questa instabilità, di fronte alle politiche economiche imposte dai poteri dei grandi azionisti dei capitali finanziari? Esso è, in ultima analisi, la possibilità e la capacità di reazione della società stessa (la classe lavoratrice in senso ampio), è l’imprevedibilità della storia, il fattore uomo, cioè la libertà dell’agire umano, la “risposta all’azione”. Se non ci fosse saremmo di fronte alla fine della storia!

Per una discussione sugli svolgimenti politici ed economici in atto in Europa sono stati utilizzati prevalentemente il “6° Quaderno dell’Associazione Marxista Politica e classe” di Contropiano (per la Rete dei Comunisti) del febbraio 2012, intitolato “La mala Europa - Quali alternative ai diktat dell’Unione Europea? Analisi, proposte e movimenti di lotta a confronto”, la rivista Il Mulino (numero 1/12), dell’Istituto Cattaneo di ricerca sociologica, politica, economica e la rivista di geopolitica Limes 2/2012.

lunedì 9 aprile 2012

Zygmunt Bauman - La società individualizzata - Il Mulino, Bologna, 2002 -


 Se questa è la fotografia (terribile) della situazione attuale non ci resta che trarne le dovute conclusioni . E qui cominciano i problemi... come contrastare, anzi come combattere e vincere una battaglia che, appare evidente, è enormemente sbilanciata a favore del nostro nemico mortale: il potere del capitale? Chiaramente questa non è problematica risolvibile a livello individuale o di piccolo gruppo e neanche, come lo stesso Bauman evidenzia, a livello locale, nazionale. Se il potere ormai si esprime globalmente sarà lì che lo scontro dovrà giocarsi. E solo se sapremo costruire solide organizzazioni a livello internazionale ci si potrà confrontare col nemico da pari a pari. Starà alla capacità delle organizzazioni dei lavoratori  trovare fronti comuni di lotta che superino i vincoli di un  perdente localismo.

 Ma noi ancora annaspiamo, insultandoci e, peggio, massacrandoci in assurde dispute intestine additando i nostri stessi compagni come i peggiori nemici da abbattere. (c'è ancora chi inneggia a Stalin maledicendo Trockij  e viceversa... ridicolo). C'è da credere che ci sia lo zampino del nemico nel favorire tutto ciò... personalmente credo sia arrivato il momento di accantonare simili dispute e pensare seriamente a costruire Altro, che non vuole dire necessariamente nuovo, di nuovo sotto il sole c'è davvero poco. Altro significa, per esempio, recuperare quanto (tanto) di buono il movimento comunista ha saputo teorizzare nel corso della sua breve storia, rielaborarlo alla luce della situazione attuale e, possibilmente, evitare di rifare gli errori che hanno segnato le nostre dure sconfitte (allora sì, l'analisi dei comportamenti  giusti e sbagliati dei protagonisti della nostra storia passata può aver senso). Ma Altro significa anche  la consapevolezza che le idee che il movimento esprime sono il portato di un lungo cammino che vuole superare i confini, nobili ma limitati, della stessa lotta di classe, perché è dell' emancipazione di tutti che stiamo parlando.  Ma, per l'appunto da dove ri-partire? Io credo che ripartire dallo studio, soprattutto lo studio della storia, che è anche storia di civiltà, di scienza, di cultura, sia un percorso vincente. Un'altra via sarà quella di difendere il lavoro dalle bordate distruttive del potere finanziario. Chi l'ha detto che le regole del gioco che stiamo giocando siano le uniche possibili? Seguitare a giocare con regole simili significa condannarsi a priori alla sconfitta. Perché, per esempio, non rilanciare sostenendole richieste quali il ripristino di una scala mobile e l'abolizione del precariato? Perché non imporre dei limiti, sia in basso che in alto, alle pensioni, agli stipendi  ai salari? In nome di una equità che sia anche giustizia? Io, noi, pensiamo che ciò sia possibile, e che, semplicemente, serva che se ne ri-cominci a parlare. Ci dicono che bisogna flessibilizzare e precarizzare di più e noi gli rispondiamo  che vogliamo un lavoro certo con una retribuzione dignitosa che ci consenta di dedicarci alla nostra vita ai nostri figli in altri termini alla nostra felicità. Dobbiamo tornare a pretendere quelle cose che sono necessarie, per tutti, alla vita: una scuola pubblica valida, una sanità pubblica degna, una previdenza giusta, che ci garantisca una vecchiaia il più lieve possibile...  Ci diranno che allora se ne andranno dove le loro regole saranno possibili, e noi gli risponderemo di andare pure dove vogliono ma scalzi e nudi, perché solo così gli sarà permesso d'andare... (Il collettivo)


 Zygmunt Bauman e la sua società individualizzata 

sabato 31 marzo 2012

Le Introduzioni a Marx - Pannekoek e il materialismo

Per quanto ormai poco conosciuto (e lo ‘stalinismo’ ha le sue colpe in
proposito), l’olandese Anton Pannekoek (1873-1960) giocò un ruolo di
un certo rilievo nella storia del movimento operaio comunista,
appunto.
Due motivi caratterizzano la produzione teorica di Pannekoek: 1) la
problematica dei consigli operai; 2) la polemica contro il modo
leniniano di intendere il  materialismo.
Per entrambi gli argomenti toccherà svolgere un’argomentazione, assai
più ampia ed articolata, di quanto sia ora possibile. Tuttavia,
qualcosa possiamo già dire riguardo al punto 2).
Com’è noto, secondo la tradizione dell’ortodossia
terzointernazionalista, l’opera d Lenin Materialismo ed
empiriocriticismo è il testo chiave per intendere i concetti di
dialettica e di materialismo, nell’accezione marxiana.
Senonché, proprio in questo testo Lenin oscilla tra la critica del
materialismo,nell’accezione positivistica, e la critica a quella
scienza ed a quella filosofia, che nascono dalla ‘crisi dei
fondamenti’, che segna l’universo culturale tra fine Ottocento e
inizio Novecento.
In questo modo Lenin si chiude la strada alla comprensione delle
profonda dialetticità, che caratterizza la nuova cultura (la quale non
può essere esaurita dal concetto di irrazionalismo).
Ebbene Pannekoek si rende conto di questo limite della riflessione
leniniana, senza tuttavia -e questo è paradossale-  riuscire a
superarla.
                                                                                 S.G. (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")

Le Introduzioni a Marx - Iniziamo con queste note la rassegna di alcuni testi marxisti di diverso orientamento. Attraverso il loro confronto, crediamo, si possano ricostruire alcune categorie basilari del marxismo ed anche mostrare la non linearità della sua formazione e sviluppo storici.

Anche Trockij si cimentò nella stesura di una Introduzione a Marx ed,
esattamene, al Capitale. In questa sede non  tanto ci intessa
l’esposizione riassuntiva e semplificata del contenuto dell’opera
marxiana, che Trockij tratteggia ; quanto piuttosto il metodo .-ed in
questo senso la teoria, che Trockij segue nel suo lavoro.
Leggiamo ad es. alle pp.7s che in genere non ci si dà  pena di
considerare perchè gli uomini si disfanno di oggetti di valore in
cambio di qualche pezzo di certi metalli.
Questa mancanza di curiosità dipende dal fatto che, in generale, le
categorie economiche capitalistiche vengono considerate come ovvie,
come cose che vanno da sé. Ed effettivamente questo è il caso, ma a
patto che si diano per scontati i rapporti capitalistici di
produzione, ovvero si consideri quale ultima istanza del
conoscere l’immediata esperienza di chi vive in un certo tipo di
società.
Arriviamo così ad un tema fondamentale: l’analisi scientifica –questo
Trockij-  afferma- ha un nemico dal quale deve ben  guardarsi: il
senso comune, con la sua immediata evidenza.
Si tratta di una tesi ben nota –sia nell’’epoca di Hegel e pure in
quella di Trotkij; tuttavia è vero anche che a metà  del Novecento
questa tesi fu messa in discussione e si sviluppò tutto un movimento
(detto post-moderno, ma in realtà pre-moderno), il quale, appunto
‘scoprendo’ che l’evidenza scientifica ha carattere mediato (dalla
ragione) e non l’immediatezza del puramente percepito, dichiara non
attendibile la pretesa della scienza di produrre  sapere oggettivo.
Per Trockij, dunque, al contrario da ogni teoria fondata
sull’immediatezza del percepito, il conoscere acquista l’aspetto d un
autentico lavoro, di un’Arbitsmuehe ( di una specifica fatica, come si
esprimevano Hegel e Marx). Nel senso che la scienza produce conoscenza
in  quanto,  con i suoi strumenti logici e teorici, definisce
l’oggetto, in modo stoicamente determinato, gli dà certe
caratteristiche  e una determinata collocazione.
Inoltre, definita la scienza come la conoscenza delle leggi obiettive
della natura, l’uomo –continua Trockij-- ha voluto assegnarsi un posto
privilegiato nell’universo, dando a se stesso il ruolo eccezionale di
chi ha relazioni  con la divinità e, con questo, la conoscenza degli
oggettivi principi morali - di base. Questo è il senso, afferma Trockij
dell’orientamento idealistico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                S.G. (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")

mercoledì 7 marzo 2012

SU UN ARTICOLO DI FABRIZIO GALIMBERTI

24ORE del 26/2 pubblica un articolo di Fabrizio Galimberti, dal titolo "Nella scienza esatta C'è UN BRICIOLO DI FOLLIA" su cui vale la pena soffermarsi allo scopo di chiarire alcuni punti di teoria/scienza.
La tesi di Galimberti è che, anche nella sua costruzione nella teoria scientifica non intervenga la sola ragione, ma si anche elementi irrazionali.
Come si vede si tratta di una tesi tutt’altro che originale, nel senso che forse oggi non esiste epistemologo che non la condivida. C’è però qualcosa che Galimberti dovrebbe meglio chiarire. Ad es., il significato del termine irrazionale. Gia Leibniz vedeva l’ambiguità del termine, che può significare o “ciò che si oppone tout court alla ragione”; sia “ciò che si oppone ad una determinata ragione circoscritta da un’epoca ed una tradizione.” Qual è l’importanza di questa distinzione? E’ chiaro che se l’irrazionale è preso come ciò, che si oppone ad una fase determinata della storia della ragione (ovvero il contrario di quanto si intende con il secondo senso del termine) ciò che oggi è irrazionale può domani divenire razionale. Nel secondo caso invece appunto l’opposizione ragione /irrazionale non è superabile.
A quale dei due sensi Galimberti fa riferimento? Nel suo testo non c’è risposta a tale domanda.
Il secondo tema, su cui vale richiamare l’attenzione, è il seguente: quando deve definire l’economia in quanto scienza teorica, Galimberti ripropone né più né  meno il classico presupposto utilitaristico (l’individuo astorico, che sulla base di una valutazione costi-benefici, decide quale sia la più conveniente tra le scelte, che di fatto si danno.
Come si vede è un presupposto del tutto astratto, che si oppone ad un'altra tradizione (che fu di Sismondi, di A. Smith, di Hegel e di Marx), secondo cui l’economia è un’articolazione della totalità sociale e dunque è determinata storicamente, come è determinato storicamente l’uomo, agente del fare economico. Perché Galimberti sceglie di definire come fa la teoria economica? Ecco l’altro punto su cui egli non dà chiarimenti.
Stefano Garroni.                                                                                                                                                                                                                                                                                     http://www.scienzaevita.org/rassegne/51bbe6d999e1dd48f544f9473cec645f.PDF                                                                                                                                                                                                     

lunedì 27 febbraio 2012

Il 18 Brumaio - Karl Marx

                                                                                                                                                                                                                     

IV
[…]
Per quanto grande fosse la somma di passione e di retorica che il partito dell'ordine poteva lanciare contro la minoranza dall'alto della tribuna parlamentare, i suoi discorsi rimanevano monosillabici, come quelli del cristiano, le cui parole debbono essere: Sí, sí; no, no! Monosillabici alla tribuna come nella stampi. Insipidi come un indovinello di cui si conosce in anticipo la soluzione. Che si trattasse del diritto di petizione o dell'imposta sul vino, della libertà di stampa o della libertà di commercio, dei clubs o della costituzione municipale, della difesa della libertà personale o del regolamento del bilancio, si ritorna sempre alla parola d'ordine, il tema rimane sempre lo stesso, la sentenza è sempre pronta ed è invariabilmente la stessa: "socialismo!". Socialista viene dichiarato persino il liberalismo borghese, socialista la cultura borghese, socialista la riforma finanziaria borghese. Era socialista costruire una ferrovia dove già esisteva un canale, ed era socialista difendersi col bastone, quando si era assaliti con una spada.

Né ciò era un semplice modo di parlare, una moda, una tattica di partito. La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di istruzione da lei escogitati insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi da lei creati l'abbandonavano Essa capiva che tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe tanto nella sua base sociale quanto nella sua sommità politica; erano cioè diventate "socialiste". In questa minaccia e in questo attacco essa vedeva il segreto del socialismo, di cui giudicava il con ragione il senso e la tendenza meglio di quanto non sappia giudicarsi il socialismo stesso; il quale non può capire perché la borghesia gli sia così inesorabilmente inaccessibile, sia che egli gema flebilmente sulle miserie dell'umanità, o annunci da buon cristiano l'avvento del regno millenario e la fratellanza universale, o umanisticamente fantastichi di spirito, cultura e libertà, oppure si faccia dottrinario e inventi un sistema di conciliazione e di prosperità per tutte le classi. Ma ciò che la borghesia non comprendeva era la conseguenza che il suoproprio regime parlamentare, e in generale il suo dominio politico dovevano anche essi sottostare alla generale sentenza di condanna come socialisti. Sino a che il dominio della borghesia non si fosse organizzato completamente, non avesse acquistato a sua espressione politica pura, anche il contrasto con le altre classi non poteva presentarsi in modo puro, e dove esso si presentava, non poteva assumere quel corso pericoloso che trasforma ogni lotta contro il potere della Stato in uni lotta contro il capitale. Se in ogni palpito della vita sociale la borghesia vedeva un pericolo per la "calma", come poteva voler conservare, alla testa della società, il regime della irrequietezza, il suo proprio regime, ilregime parlamentare, questo regime che, secondo l'espressione di uno dei suoi oratori, vive nella lotta e per la lotta, Il regime parlamentare vive della discussione: come può proibire la discussione? Ogni interesse, ogni provvedimento sociale viene trasformato nel regime parlamentare in idea generale e trattato come idea; come può quindi un interesse qualsiasi, un provvedimento qualsiasi, elevarsi al di sopra dei pensiero e imporsi come articolo di fede? La lotta degli oratori alla tribuna provoca le polemiche violente dei giornali; quel club di discussione che è il Parlamento viene necessariamente completato dai club di discussione dei salotti e delle osterie; i rappresentanti che continuamente fanno appello alla opinione pubblica autorizzano l'opinione pubblica a esprimere la sua vera opinione mediante petizioni. Il regime parlamentare rimette tutto alla decisione delle maggioranze: come le grandi maggioranze non dovrebbero voler decidere al di fuori del Parlamento? Se alla sommità dell'edificio dello Stato si suona il violino, come non aspettarsi che quelli che stanno in basso si mettano a ballare?

venerdì 6 gennaio 2012

Roberto Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Roma, Carocci, 2006


Marx ed il marxismo non possono essere la stessa cosa ed è inevitabile che si debba parlare di “marxismi”, al plurale. Questi hanno la loro dignità storica e, nel bene e nel male, rappresentano un momento importante – se non imprescindibile in certi casi – della storia recente, ma si stia attenti a non operare fuorvianti appiattimenti. Gli oggetti d’indagine sono, infatti, due. Non si deve d’altronde compiere l’errore opposto, ossia credere che non sia lecito stabilire quanto i vari marxismi siano stati fedeli alle indicazioni date da Marx: che non ci sia identità fra forma e figura non significa neppure che ogni tentativo di applicazione politica vada bene. Come sempre occorre mostrare le mediazioni (o eventualmente l’assenza di esse)                                                                                

martedì 13 dicembre 2011

In memoria di Hans Heinz Holz

     
Roma martedì 13 dicembre 2011                                                                                                              

Apprendo proprio oggi di un gravissimo lutto, che ha colpito il marxismo sia teorico che militante: la scomparsa, dopo dolorosa e terribile malattia, del compagno tedesco Hans Heinz Holz. Non solo ebbi la fortuna di conoscerlo (come una finissima persona, delicato amico e modestamente "alla mano", come diciamo noi in Italia, nonostante la superiorità della sua cultura e l'autentica esemplarità della sua militanza comunista). Ma ebbi inoltre il privilegio di tradurre varie sue cose (libri, articoli di rivista, conferenze) e, dunque, potetti constatare con attenzione la linearità morale e teorica del suo discorso, nonostante o, anzi, proprio per l'ampiezza dei suoi interessi.                                                    
Ed è proprio questo che voglio sottolineare: è da lui che appresi (spero) una maniera ben determinata di leggere Marx e il marxismo, fuori da immiserenti schemi dogmatici, ma piuttosto all'interno di una vasta cultura classica e contemporanea, di lingua tedesca o non.                                                            
In questa prospettiva, compagno Holz, tu sarai sempre nostra guida e maestro.                                                                                                                                                
Stefano Garroni                                                                                                       

http://ilcomunista23.blogspot.com/2010/09/sulpartito.html
http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/marxismo/589-in-occasione-della-scomparsa-di-hans-heinz-holz-11122011.html

martedì 6 dicembre 2011

Lenin, materialismo, Empiriocriticismo - Stefano Garroni -


In luogo di una introduzione.


Chi ha una certa famigliarità con la letteratura filosofica, dovrebbe sapere che oggi difficilmente può darsi  un professore di filosofia (come anche di teologia[-1] ), che non sia preso dalla critica del materialismo. Mille e mille volte è stata annunciata oramai la sua smentita ed anche nei nostri giorni  si continua a farlo per la centesima o millesima volta. I nostri revisionisti si impegnano nello smentire il materialismo, ma in ciò essi danno l’impressione che la loro critica  sia rivolta al materialismo di Plechanov, ma non a quello di Engels[-2] , non al materialismo fuerbachiano, non alle concezioni materialistiche di J. Dietzgen ed infine che essi criticano il materialismo, assumendolo dal più recente e moderno positivismo [-3]

Senza impelagarmi in citazioni, che chiunque lo voglia può trovare a bizzeffe nei libri sopra citati, mi affiderò piuttosto agli argomenti, che Basarov, Bodnov, Juschkeqwitch, Valentinov, Tschernov ed altri machisti, chiamano in causa contro il materialismo. Uso l’appellativo machista come il marchio più semplice e facile; Mach è noto anche  come empiriocritico.

martedì 15 novembre 2011

Concetti di dialettica. Dialektik –Konzepte

J. Zimmer, “Dialektik und Erfahrung.
Il problema della dialettica nasce anche della contraddittorietà e problematicità
dell’esperienza del reale,  che nella mente non si  colloca in modo preciso, ma deve
essere rielaborata appunto mentalmente, deve dunque esprimersi nella struttura della
forma di pensiero. Il pensante, contemporaneamente, si scopre,  nella differenza e
nell’unità con tutta la[-1]  realtà che lo circonda. In questo significato fondamentale
non vi è ancor alcuna differenza tra la forma dialettica idealistica e  quella
materialistica.
Hegel ha chiaramente elaborato la struttura speculativa fondamentale della dialettica
–ovvero l’unità delle differenze:
Il  suo idealismo non si basa su questa struttura speculativa. Ma sul fatto che lui
sviluppa, il rapporto centrale di pensiero ed essere per ogni dialettica; Hegel  ha
chiaramente elaborato la struttura basilare della dialettica speculativa; il carattere
speculativo del pensiero di Hegel sta nel fatto che la struttura speculativa vale per
ogni tipo di dialettica. il carattere idealistico si estende ad ogni tipo di dialettica,
perché questa implica sempre ll primato del pensiero sull’essere. La dialettica va
riconosciuta come essere, che è l’altro dallo spirito, in quanto realtà prodotta dallo
spirito stesso. Se si separano i presupposti, dai concetti di ragione, svolti da Hegel
nella Fenomenologia dello spirito – la ragione è coscienza, che lo spirito ha di essere
ogni realtà; è per questo che ogni problema immanente di questa costruzione dialettica
giunge, alla fine, ad un felice compimento. Lo spirito muta mano a mano l’altro di sé
stesso nella realtà di se stesso.