lunedì 9 novembre 2020

Usa 2020, la ribellione populista resta ancora lì - Lorenzo Castellani e Giovanni Orsina

 Da: https://open.luiss.it - https://www.huffingtonpost.it - 

Lorenzo Castellani, Ricercatore di Storia delle Istituzioni Politiche alla Luiss di Roma. - Giovanni Orsina è un politologo e storico italiano. 

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Se i dati riportati in questo articolo sono veri, devono farci pensare. La vittoria democratica, che forse in se stessa può anche non dispiacerci, nasconde di fatto una realtà sociale che, anche in virtù del particolare sistema elettorale statunitense, non si sente e non è rappresentata da Biden? E, a quanto sembra, si tratta di settori non irrilevanti della stessa classe operaia e di altri gruppi socialmente svantaggiati, che forse avevano visto nel populismo di Trump una sorta di difesa dagli effetti della globalizzazione.  Ė pur vero che Biden ha raccolto i voti degli afro-americani, i quali certo non potevano stare con Trump. Ma a nostro avviso c'è di che riflettere sullo scollamento fra i progressisti "liberal" e il ventre arrabbiato, impoverito ed emarginato di una parte consistente dei cittadini statunitensi bianchi. Si può anche fare un paragone con il referendum sulla Brexit, dove risultò decisivo il voto delle classi povere che dell'Europa non volevano più saperne. Forse, anche se ci costa dirlo, ha ragione D' Alema quando, proprio ieri, ha detto che queste elezioni non hanno risolto nessun problema. Basterà mettersi le mascherine come sicuramente raccomanderà il neo-eletto? È possibile che l'intellettualità nordamericana, compresa quella di colore, non sia più, se mai lo è stata, in sintonia con gli umori dei più poveri e dei meno politicizzati. Che però sono operai e contadini.  Come la mettiamo? (il collettivo)

Biden e le radici persistenti del populismo 

L’onda blu mancata

L’impatto della vittoria di Joe Biden non può essere sottovalutato: com’è ovvio, è tutt’altro che irrilevante – per gli Stati Uniti, ma anche per l’Europa e l’Italia – se alla Casa Bianca nei prossimi quattro anni vivrà Trump o alloggerà un Presidente democratico. Ma è pure tutt’altro che irrilevante che l’“onda blu” pronosticata da sondaggi e osservatori, la “landslide victory” di Biden, abbia mancato di materializzarsi. In un’elezione quanto mai combattuta e partecipata, segnata dall’emergenza pandemica, un presidente uscente estremamente controverso, detestato dall’establishment governativo e imprenditoriale, più che disprezzato dal ceto intellettuale e dalla maggior parte dei media, accusato nientemeno che di essere un pericolo per la democrazia, è riuscito a conservare quasi intatto il blocco elettorale che lo aveva portato alla Presidenza quattro anni fa. Con ogni evidenza quel blocco – minoritario, ma a malapena – ha radici profonde. E altrettanto evidentemente, la sinistra non riesce a scalfirlo altro che in misura marginale, anche se ha messo in campo tutta la sua considerevole potenza di fuoco politica, mediatica e culturale.

Un’America profondamente divisa

I primi dati sulla ripartizione del voto mostrano un’America profondamente divisa lungo linee sociali, etniche e geografiche. La prima frattura è di genere: secondo dati raccolti dal Wall Street Journal, Biden è stato votato dal 55% delle donne e solo dal 47% degli uomini, e Trump ovviamente viceversa. Il 64% della working class bianca ha invece votato per il Presidente uscente, mentre lo sfidante ha ottenuto il 60% tra le donne laureate. Trump ha guadagnato voti rispetto al 2016 tra gli ispanici e gli afro-americani ma rimane largamente minoritario soprattutto tra le persone di colore, che restano una roccaforte democratica. Un’altra frattura che si ripresenta, com’era stato nel 2016, è quella tra aree rurali e aree metropolitane: i Repubblicani prevalgono nettamente nelle prime e i Democratici nelle seconde. Una rottura tra centro e periferia, oltre che fra Stati delle coste e Stati interni, che sembra essere oramai insanabile nella politica americana (e non soltanto americana) di questi anni. Da ultimo, ci sono “stati blu” che diventano sempre più blu e “stati rossi” che si fanno sempre più rossi: dove un partito vinceva largo oggi tende a vincere con uno scarto ancor maggiore. Un segno della crescente polarizzazione politica tra le diverse aree geografiche, con zone interamente dominate dai Democratici e altre ferreamente controllate dai Repubblicani. All’orizzonte si profila anche una più netta separazione rispetto al recente passato tra gli stati tradizionalisti del Sud e quelli progressisti del Nord.

Preoccupazioni diverse

La frattura si presenta altrettanto netta quando consideriamo le priorità dei due elettorati. Fra i Democratici prevalgono nettamente le preoccupazioni per la salute, mentre per i Repubblicani è predominante l’economia. Il razzismo è una questione estremamente rilevante per chi vota Biden, mentre l’elettorato di Trump è assillato dalla sicurezza. Le minoranze e la diversità sono considerate una forza per gli Stati Uniti dagli elettori democratici, ma suscitano avversione e inquietudine fra i repubblicani. I democratici vorrebbero una transizione rapida verso l’economia green, mentre i supporter di Trump restano saldamente ancorati a quella petrolifera.

Società della competenza vs società del pragmatismo

Cresce infine la contrapposizione tra la “società della competenza”, composta di individui dotati di istruzione universitaria e destinati a esercitare professioni intellettuali nei grandi centri urbani, nella ricerca, nell’hi-tech, e la “società del pragmatismo”, fatta di persone meno istruite e legate ai settori produttivi più tradizionali. La spaccatura elettorale tra Democratici e Repubblicani è netta e crescente su questo versante: l’elettorato populista rifiuta le pretese pedagogiche di chi ha frequentato l’università, sempre più percepita come una roccaforte del pensiero cosmopolita. La concentrazione della competenze e l’importanza crescente, sul piano retributivo e sociale, dello status universitario hanno scavato un solco profondo con chi ha scelto altre strade. La meritocrazia ha aperto opportunità a molti, ma ha anche sradicato gli individui dalle comunità d’origine. E chi è rimasto nei piccoli centri non intende più farsi dire come deve pensare, comportarsi o votare. In questo caso, dunque, si è messa in moto una ribellione che si muove contro i competenti, gli esperti, i professionalizzati e le loro istituzioni.

Tante questioni aperte, tutte irrisolte

Le elezioni non paiono insomma aver risolto nessuna delle tante questioni aperte nella politica e nel dibattito pubblico americano. Il nocciolo duro trumpiano, tradizionalista, territorializzato e anti-globalista non è stato convinto dal messaggio progressista di apertura e integrazione dei gruppi sociali e resta persuaso dalla retorica anti-establishment e nazionalista del presidente uscente. Le aree rurali, la classe operaia e i produttori territorializzati (manifattura, petrolio, armi) difendono accanitamente i propri spazi economici, non mostrano alcun desiderio di accettare un sistema di valori cosmopolita e multiculturale e continuano a opporsi all’espansione del welfare federale. Per paradosso, soltanto sulla politica estera, elemento fondamentale della potenza imperiale americana, potremo vedere qualche punto di convergenza e sforzo di mediazione fra i due partiti, almeno nel breve termine.

Gli effetti della cultura individualista e cosmopolita

L’incapacità della cultura individualistica e cosmopolita che ha segnato con la propria egemonia l’ultimo trentennio della nostra storia di sgretolare e riassorbire almeno in parte il “blocco sociale” trumpiano è forse uno dei messaggi più interessanti di queste elezioni. Un messaggio che i democratici americani sembrano patire molto, almeno a giudicare dal disagio che esprimono di fronte alla tenuta elettorale del Presidente uscente, nonostante abbiano vinto. La cultura individualistica e cosmopolita è estremamente flessibile e potente, e si è in genere dimostrata capace di cedere di fronte ai propri avversari, adattarsi ad essi, inglobarli e infine digerirli. Tanto la destra tradizionale novecentesca, Dio, patria e famiglia, quanto la sinistra tradizionale novecentesca, classe operaia e welfare state, ne sono state distrutte. I movimenti di protesta che emergono periodicamente ne sono benedetti, esaltati, e infine normalizzati. Perfino davanti all’islamismo, salvo che non produca atti eclatanti di violenza, quella cultura si è rivelata capace di farsi concava.

Il populismo non è un fenomeno effimero

Di fronte alla rivolta populista, però, avviata o quanto meno accelerata nel 2016 proprio dall’elezione di Trump, oltre che da Brexit, la strategia “avvolgente” prediletta dalla cultura individualistica e cosmopolita si è convertita nel suo esatto contrario: reazione dura, muro contro muro, demonizzazione dell’avversario. Questa scelta di contrapposizione si fondava su una premessa: che l’onda populista fosse un fenomeno effimero e contingente e che, se la si fosse tenuta fuori dalla porta e delegittimata, sarebbe scemata rapidamente nel momento non lontano in cui tutti, elettori inclusi, si fossero resi conto della palese mancanza di alternative alla società cosmopolita e individualistica. Le elezioni americane mostrano (almeno per ora) la fallacia di questa premessa.

La ribellione populista resta debole sul piano istituzionale e in molti casi minoritaria anche su quello elettorale, ma ha un nocciolo duro tutt’altro che facile da digerire. Questo pone almeno due problemi. Innanzitutto, dà testimonianza del parziale fallimento della cultura individualistica e cosmopolita, della sua incapacità di tener dentro tutti. Una testimonianza particolarmente pericolosa per quella cultura, che trova nel successo il suo criterio di verità e legittimazione – non potendone avere altri, di criteri di verità e legittimazione, a motivo del suo relativismo. In secondo luogo, lascia in vita un consistente patrimonio di rabbia e ribellismo che per il momento resta minoritario, ancorché consistente, ma nel futuro, magari sollecitato da altre crisi, potrebbe crescere ulteriormente e assumere forme politiche ancor più estremiste e violente. Se c’è una sfida importante per Biden e i democratici, nei prossimi anni, è certamente quella di evitare che ciò accada. 


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