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Gabbie d'acciaio. Così in occidente l'uomo scopre tutti i suoi limiti.
Il 14 giugno 1920 moriva Max Weber, stroncato dalla spagnola, la prima delle pandemie influenzali del XX secolo che provocò milioni di vittime. Aveva appena finito di correggere le bozze dell’immane lavoro in cui aveva riformulato l’impianto dei “concetti fondamentali della sociologia”, e che costituisce il primo capitolo di quello straordinario testo fondativo della moderna sociologia che è Economia e società (pubbicato postumo).
Poligrafo eccezionale, innovatore nei più diversi rami del sapere (dalla storia economica alla scienza politica, dalla filosofia del diritto alla teoria della conoscenza, dallo studio delle religioni all’indagine etica e antropologica sulle forme di vita), unisce in sé, in una sorta di ‘concordia discors’, la passione concretissima del ricercatore e una rara capacità di muoversi nel deserto di ghiaccio delle astrazioni filosofiche.
Per avere un’idea approssimativa del personaggio, basterà richiamare quanto ebbe a dire di se stesso nel discorso pronunciato nel 1895 all’università di Friburgo:”Io sono un membro della classe borghese, mi sento tale e sono stato educato alla sua visione del mondo e ai suoi ideali”. Due anni dopo formulava la domanda fondamentale che attraverserà tutta la sua produzione culturale: che cosa ha realizzato l’èra del capitalismo? E la risposta resterà identica fino alla fine della sua vita: l’èra del capitalismo non ha portato né potrà portare la felicità al mondo, ma ha creato l’uomo occidentale moderno.
Sulla messa in evidenza dei tratti morfologici dell’uomo occidentale, il cui “volto spirituale” è stato modellato dalla grande industria, fino al punto di non essere più riconoscibile, si arrovellerà gran parte della ricerca weberiana. Tutta L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904/1905) verterà sulla nascita di un tipo umano assolutamente inedito, proteso alla professione come vocazione (Beruf): si tratta del tipo umano che è una componente strutturale dello “spirito” capitalistico.
Pertanto, era scontato che il centenario della sua morte fosse l’occasione non solo per rivisitare il suo pensiero, ma soprattutto per interrogarsi se il tipo umano scaturito dalle trasformazioni che nel frattempo hanno investito l’”uomo occidentale” si può considerare ancora una variante dello “spirito” capitalistico, oppure è qualcosa di totalmente diverso che rinvia a una forma di capitalismo radicalmente senza precedenti (quella che oggi chiamiamo convenzionalmente globalizzazione).
Riaccostarsi oggi a Weber significa, dunque, sollevare domande cruciali sul destino dell’Occidente, sulla sua razionalità tecnico-scientifica, sulla tenuta dei suoi valori etico-politici ereditati dall’Illuminismo e dalla tradizione del socialismo europeo nelle sue espressioni socialdemocratiche e cristiano-sociali (libertà, eguaglianza, solidarietà).
Ma rileggerlo oggi ha senso se ci chiediamo che cosa egli ha da dirci rispetto a fenomeni epocali assolutamente nuovi come la decolonizzazione del secondo dopoguerra, il collasso dei regimi comunisti a partire dal 1989 e l’ecocidio che sta mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’uomo sul pianeta e le condizioni stesse della sua abitabilità da parte di tutti gli esseri viventi.
Werner Sombart racconta che alla domanda sul destino del capitalismo – Quanto durerà la “danza delle streghe” che l’umanità ha cominciato con il capitalismo? – Weber sembra che abbia risposto:”Durerà fino a quando l’ultima tonnellata di ferro non si sarà fusa con l’ultima tonnellata di carbone”. È chiaro che non possiamo riapprossimarci a Weber senza porre attenzione ai limiti fisici dello sviluppo (ai precari e già compromessi equilibri dell’ecosistema) e senza mettere nel conto gli effetti perversi o le catastrofi ambientali che l’”uomo occidentale” ha prodotto nel corso di due secoli di spoliazione e di uso sconsiderato delle risorse naturali: problemi e sfide che egli certamente non poteva conoscere, ma che costituiscono la soglia su cui collocarci per cogliere la discontinuità rispetto al suo tempo storico.
Due testi recenti possono aiutarci a decifrare la complessità del pensiero di Weber e a dialogare con lui a partire dalle urgenze del nostro presente. Il primo è un lavoro storiografico di ampio respiro, di Antonio De Simone, L’Ultimo classico. Max Weber. Filosofo, politico, sociologo (Mimesis 2020): una sorta di libro-antologia (di circa settecento pagine) che ripercorre la vastissima letteratura che nel secondo dopoguerra si è andata accumulando sull’opera weberiana. Il secondo è un saggio di Massimo Cacciari, Il lavoro dello spirito. Saggio su Max Weber (Adelphi 2020) dallo stile fortemente teoretico e problematico, che si cimenta con le domande weberiane attraverso il prisma del proprio personale percorso filosofico. Pur situandosi, quanto a finalità euristiche e a modalità di scrittura, su registri diversi e perfino molto distanti tra loro, entrambi offrono un’immagine vivida della tormentata e, per molti aspetti tragica, riflessione weberiana.
Tragica in primo luogo perché Weber ha nei confronti del proprio tempo un atteggiamento alieno da qualsiasi utopismo politico o da qualsiasi promessa di redenzione o salvezza religiosa. Per usare una sua formula, non era per nulla disposto a compiere il “sacrificio dell’intelletto” che conduce i credenti ad abbandonarsi nelle “braccia misericordiose” delle antiche Chiese, per quanto egli si renda conto che lo spirito del capitalismo – la mentalità calcolistica dell’imprenditore moderno - sia sorta dall’ethos protestante, dalla forma metodica di vita propugnata dalle sette protestanti nel Nord Europa e negli Stati Uniti.
Proprio passando meticolosamente in rassegna la lunghissima storia delle interpretazioni di Weber, De Simone ci ricorda – con Pietro Rossi e Raymond Aron – che Weber si scopre essere nostro contemporaneo ogni volta che una generazione torna a leggerlo, a discuterlo e a ripensarlo. Infatti, non è un caso che tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso avviene, come osserva De Simone, una vera e propria “svolta interpretativa” dovuta a numerosi autori italiani e stranieri (P. Rossi, F. Bianco, N. M. De Feo, F. Ferrarotti, L. Cavalli, R. Bendix, F. Tenbruck, W. Schluchter, W. Hennis, J. Habermas, ecc.).
A mio avviso, questo rinnovato approccio a Weber, che metteva l’accento sulla teoria della razionalizzazione sociale e culturale con la sottolineatura della differenziazione della società in sfere di valore autonome, nasceva dall’esigenza di prendere atto da un lato del conflitto tra forze sociali antagoniste, portatrici di visioni del mondo inconciliabili, e dall’altro di una secolarizzazione sempre più accentuata dei costumi, degli stili di vita e dell’immaginario collettivo.
Il punto più alto di questa “svolta interpretativa” è stato Habermas non solo perché, come rileva De Simone, è l’autore che, dopo il confronto con Marx, fa del “confronto critico” con Weber un punto di riferimento obbligato per ricostruire una teoria critica allargata della razionalità. Habermas tenta soprattutto di rimettere il dispositivo categoriale di Weber al servizio di un ripensamento della teoria della democrazia moderna come democrazia deliberativa, utilizzando la categoria del “politeismo dei valori” come chiave di volta di una concezione della democrazia intesa come spazio agonistico di un confronto fondato su ragioni tra proposte alternative di soluzione dei problemi difese dai rispettivi attori sociali e culturali.
Che questa lettura neoclassica della democrazia e del Politico appaia implausibile a Cacciari, non è difficile da comprendere. Ma sia a Habermas che a Cacciari sfugge che la secolarizzazione non è un processo unilineare e compiuto una volta per tutte: la comparsa degli integralismi religiosi unitamente alle derive terroristiche nel cuore della modernità ha mostrato che il disincantamento del mondo si coniuga sempre con gli arcaismi del mito e con i culti delle comunità tradizionali.
Così pure, a Cacciari sfugge quanto attuale sia tornato Marx con la sua diagnosi dell’anima “faustiana” del capitalismo, che ha globalizzato la forma-merce e la forma-denaro a tutti gli ambiti della vita quotidiana e ha fatto dell’Economico lo spazio in cui si strutturano i rapporti geopolitici tra gli Stati. Quello che Marx chiamava “cervello sociale”, o intelletto generale, non è propriamente assimilabile alla categoria weberiana della scienza come professione-vocazione (Beruf). Non è casuale che il saggio di Cacciari si concentri in particolare sulle celebri conferenze che Weber aveva tenuto agli studenti tedeschi di Monaco di Baviera il 17 novembre 1917, La scienza come professione, e il 28 gennaio 1919, La politica come professione. Weber da grande-borghese, peraltro consapevole del tramonto dell’etica della rinuncia e dell’autosacrificio che aveva ispirato gli imprenditori del capitalismo delle origini, vedeva nell’etica della responsabilità l’anello di congiunzione tra scienza e politica.
Senza dubbio, Cacciari ha ragione quando osserva che, nell’epoca della razionalizzazione del capitalismo globale, nessuna attività scientifica professionale può concepirsi “astrattamente autonoma”. Essa fa parte di un sistema con cui interagisce.
Weber aveva perfettamente inteso che l’odierna scienza, organizzata nei grandi istituti di ricerca, non è più quella che era ai tempi di Galilei e Newton. E se una volta era un’arma di critica della religione e delle visioni magiche del mondo, essa è via via divenuta sempre più uno strumento per il conseguimento della redditività capitalistica e per il rafforzamento della potenza militare degli Stati. Qui non c’è “lavoro dello spirito” che tenga, se non si prende atto che la globalizzazione va contrastata attraverso uno “spirito di scissione” (come direbbe Gramsci) tra il capitalismo faustiano che tende a proporsi come l’unica vera religione universale e la democrazia che non può essere più confinata solo nei confini dello Stato nazionale; tra gli imperativi del Mercato mondiale e le istanze volte a salvaguardare l’abitabilità della Terra e il riconoscimento del politeismo dei valori nello spazio di un mondo comune.
Anche De Simone ricorda che per Weber democratizzazione e demagogia sono complementari e che la politica moderna o è “carismatica” o non è. Ma se, come giustamente nota Cacciari, il populismo nasce dall’assottigliarsi della dimensione grande-borghese della politica, e se con il venir meno della responsabilità del politico irrompe inevitabilmente sulla scena una “moltitudine incompetente”, carica di risentimento e frustrazione, allora appare molto debole la via d’uscita da lui indicata. Quella, cioè, che la scienza si configuri come “energia autonoma” e la politica come coscienza critica delle potenzialità produttive del lavoro intellettuale. Infatti, tramontata la cultura grande-borghese in cui Weber si riconosceva, il problema è quello di non considerare più come una seconda natura la “gabbia d’acciaio” del capitalismo finanziario globalizzato, rispetto a cui il neoliberalismo contemporaneo funge da legittimazione ideologica nel momento in cui proclama che non ci sono alternative (There is no alternative, come amava dire la signora Thatcher).
La sfida di fronte a cui si trova l’uomo occidentale, ormai mondializzato, è esattamente questa: scoprire la parzialità e i limiti (sociali, politici, antropologici e anche terrestri) della propria cultura.
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