sabato 15 marzo 2014

La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes - Riccardo Bellofiore -

[pubblicato in Alternative per il socialismo, n. 30, marzo aprile 2014, p. 77-90] - https://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/3507-riccardo-bellofiore-la-socializzazione-degli-investimenti-contro-e-oltre-keynes.html 

Le note che seguono sono nient’altro che appunti, incompleti, sulla ‘socializzazione degli investimenti’: espressione che compare, in modo cruciale, nell’ultimo capitolo della Teoria generale di Keynes. Il termine, negli anni a noi più vicini, è diventato di moda, soprattutto in una certa sinistra (quella che non si sa più come chiamare: alternativa, radicale; certo non di classe). Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.


Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono interventi correttivi).
Va da sé che questi limiti esistono davvero e sono gravi: abbiamo però qui un esempio di un modo di ragionare che mette al centro del proprio discorso il plesso domanda-distribuzione, invece di partire, come sarebbe necessario, da moneta e produzione. Questa ultima è una lezione che, in fondo, discende da Marx, e che Kalecki (l’economista polacco che prima di Keynes raggiunse alcuni dei contributi analitici della Teoria generale) non aveva affatto scordato.
Qualche pagina più oltre, Keynes afferma che lo Stato deve esercitare una influenza determinante sulla propensione a consumare (per esempio grazie alla tassazione) e sull’investimento privato (attraverso una politica monetaria che conduca al ribasso il tasso di interesse di lungo termine, e conduca all’eutanasia del rentier)Ciò non sarà sufficiente: Keynes era per varie ragioni convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato, una previsione su cui fu smentito, e su cui pesavano errori significativi contenuti nella sua costruzione teorica. Ne traeva perciò la conclusione che fosse opportuna una significativa ‘socializzazione dell’investimento’, unico strumento in grado di condurci nella zona della piena occupazione delle risorse produttive, incluso il lavoro.
Keynes qualificava però subito il suo discorso. Erano da approvare tutti i ‘compromessi’ e gli strumenti grazie ai quali l’autorità pubblica potesse cooperare con l’iniziativa provata (privata). La ‘socializzazione’ che proponeva andava non solo distinta dalla nazionalizzazione (la proprietà dei mezzi di produzione non era così importante, sosteneva). Essa era in contrasto netto con il socialismo di Stato. Per questo definiva la teoria esposta nel libro come moderatamente conservatrice nelle sue implicazioni. Certo, alcuni ‘controlli’ andavano stabiliti: ma ‘bastava’ che lo Stato, gradualmente e senza alcuna ‘rottura’ nelle tradizioni della società, muovesse le sue leve tanto quanto era necessario a indurre una piena utilizzazione di capitale e lavoro. A quel punto la teoria tradizionale, neoclassica, tornava ad essere del tutto accettabile, e non si poteva obiettare alle sue tesi sul come gli interessi privati guidassero l’allocazione ottimale delle risorse.
Non vi è ragione alcuna per supporre che il presente sistema determini una cattiva distribuzione delle risorse, sostiene Keynes. Se 10 milioni di lavoratori potrebbero essere occupati, e solo 9 lo sono, il problema è trovare occupazione al milione rimanente, non destinare ad altri lavori i 9 milioni di occupati dalle forze del mercato.  E’ nel determinare il volume, e non la direzione, dell’occupazione effettiva che il sistema attuale fallisce. Un discorso che non si può certo accusare di oscurità. 


Michał Kalecki
Michał Kalecki aveva colto con lucidità alcuni problemi nel discorso di Keynes. Era certo possibile che, sulla carta, i capitalisti potessero guadagnarci, e non poco, con politiche di pieno impiego: una più elevata massa dei profitti poteva davvero essere il correlato di una più alta occupazione dei lavoratori. Non era dunque il riformismo una opzione attraente, in grado di aprire la strada ad un ‘compromesso’ tra le classi? La stessa teoria di Kalecki - nella sostanza già formulata prima del 1936 in saggi in polacco, e derivata da un uso creativo degli schemi di Marx via Luxemburg e Tugan Baranovski - chiariva che (in una società capitalistica pura, dove i lavoratori consumano integralmente il salario) la massa dei profitti è identica a (e causata da) investimento e consumo dei capitalisti. Dato il grado di monopolio (la quota dei profitti lordi sul reddito, in fondo riconducibile al saggio di sfruttamento), se ne poteva derivare il livello di produzione complessiva, e dunque di occupazione.
Se lo Stato fosse intervenuto con una spesa pubblica in disavanzo (magari finanziata con nuova moneta: o direttamente via istituto di emissione, o indirettamente via banche commerciali), ciò avrebbe avuto lo stesso effetto che la Luxemburg aveva attribuito alle esportazioni (nette) in aree non capitalistiche: per questo le aveva definite esportazioni ‘interne’ o ‘domestiche’. D’altronde, la stessa Luxemburg, aveva in qualche misura anticipato conclusioni keynesiane nel caso in cui la spesa pubblica fosse stata di sostegno al militarismo. E questa era, in qualche misura, la conclusione di Kalecki. Il capitalismo ‘keynesiano’ a venire sarebbe stato incentrato sulla spesa militare. Un capitalismo di pieno impiego era possibile, ma non su base permanente. Se raggiunto, uno stato di piena occupazione avrebbe ridotto, sia il controllo capitalistico sulla composizione della spesa (e dunque della produzione), sia il controllo sulla classe operaia interno ai processi di lavoro (favorendo episodi di insubordinazione operaia), con conseguente richiesta di migliori condizioni per i lavoratori dentro e fuori la produzione. Più che la lotta sul salario, era questo conflitto (o forse antagonismo) che poteva garantire risultati, nella logica kaleckiana. L’ostilità della classe capitalistica al pieno impiego si traduceva in un ‘ciclo economico-politico’: quando ci si avvicinava al pieno impiego le politiche keynesiane sarebbero state usate all’incontrario, per ricostituire l’esercito industriale di riserva. 


Joan Robinson
L’attacco più violento al keynesismo ‘realmente esistente’ viene nel 1972 da Joan Robinson, una keynesiana di sinistra (oggi verrebbe definita una postkeynesiana, versante inglese). Le sue parole non lasciano dubbi sul fatto che è lo stesso Keynes del capitolo finale della Teoria generale ad essere, almeno in parte, direttamente coinvolto nella critica. Un articolo che ho ben presente, perché è stato uno dei primissimi che ho letto, poco dopo la sua pubblicazione, all’inizio dei miei studi di economia.
Robinson sostiene che nei primi anni Settanta si era nel bel mezzo di una ‘seconda’ crisi della teoria economica. La ‘prima’ è quella da cui emerge, negli anni Trenta, la ‘rivoluzione keynesiana’ (titolo di un libro allora famoso di Lawrence Klein, del 1947, tratto dalla sua tesi di Ph.D. al MIT, nel 1944: quando prese il dottorato Klein, Premio Nobel nel 1980, era iscritto al partito comunista, il che spiega il capitolo del suo libro in cui compara Keynes e Marx). La prima crisi ruotava attorno al nodo del livello dell’occupazione, il fallimento del laisser faire per insufficienza di domanda effettiva. La seconda crisi era tutta diversa, e investiva di petto le carenze della teoria dominante nel trattare il nodo del contenuto dell’occupazione. Era una crisi sul terreno anche della distribuzione. Per chi leggeva l’articolo della Robinson nella Torino dei primi anni Settanta - a contatto con i lavoratori che contestavano ormai apertamente non soltanto il ‘per chi’ ma anche il ‘cosa’ si produceva, oltre che il ‘come’; e che in verità già da qualche anno, a partire dalle lotte sulla salute, iniziavano ad aver ben chiaro il nodo del ‘quanto’ produrre – non era difficile vedere che il discorso della economista di Cambridge parlava anche alle lotte sulla produzione.
Cosa c’entrava Keynes? Per portare a casa la sua critica alla teoria neoclassica sul livello dell’occupazione, Keynes aveva dovuto dimostrare che lo Stato può aumentare l’occupazione, che gli investimenti (anche pubblici) inducono una spesa derivata di consumi, e che questa seconda ondata è del tutto indipendente dalla natura dell’impulso iniziale di spesa. Per questo scriveva che scavare buche per poi riempirle andava altrettanto bene, dal punto di vista del suo ‘modello’, di una spesa pubblica che producesse valori d’uso per la società. Possiamo dar per scontato che lui preferisse il secondo tipo di spesa, non è questo il punto. E’ il medesimo Keynes che, preoccupato dalla disoccupazione di massa degli anni Trenta, può scrivere nella prefazione alla traduzione tedesca pubblicata in Germania nello stesso 1936 che un paese totalitario come il nazismo costituisce uno sfondo istituzionale dove meglio che nelle democrazie la sua teoria potrebbe essere messa all’opera.
Bene: quando i ‘keynesiani’ diventano la nuova ortodossia, e il pieno impiego assurge a obiettivo dichiarato e praticato dai governi capitalistici dei trent’anni successivi alla guerra, tanto conservatori quanto progressisti, si guardano bene dal cambiare la domanda, e passare dalla questione del livello a quella del contenuto dell’occupazione, come secondo Robinson sarebbe stato opportuno. La Guerra, scrive, era stata una grandiosa lezione di ‘keynesismo’. Se in astratto qualsiasi spesa andava bene, il ruolo trainante lo ebbe però la spesa per armamenti, costruendo il complesso militare-industriale, e guadagnandosi il consenso non solo di capitalisti e lavoratori ma anche degli ‘economisti’ che la consigliavano come profilassi contro la stagnazione e la disoccupazione, infischiandosene della ‘finanza sana’. La spesa in disavanzo favorita dai consiglieri keynesiani e la conseguente centralità del sistema militare-industriale trasformarono il sogno ad occhi aperti di Keynes in un incubo di terrore. Le nuove forme della povertà in mezzo all’abbondanza e l’emergere drammatico dell’inquinamento, nel mondo ‘keynesiano’ di allora (ricordate: i ‘trenta gloriosi’, il compromesso capitale-lavoro, l’era aurea del fordismo di cui ci racconta la sinistra; assieme all’idolatria del PIL), ne furono l’esito necessario. 


Hyman P. Minsky
E’ qui che si inserisce a proposito la ripresa, tre anni dopo (1975), del tema della ‘socializzazione degli investimenti’ nel primo e negli ultimi due capitoli del primo libro di Minsky (John Maynard Keynes, tradotto in italiano con il titolo, per una volta più perspicuo, Keynes e l’instabilità del capitalismo: ristampati entrambi, sull’onda del ritorno della grande crisi nel capitalismo, sia negli Stati Uniti che in Italia, rispettivamente nel 2008 e nel 2009). E’ un libro che Minsky andava scrivendo dai primi anni Settanta, in parte nella stessa Cambridge, dove ebbe senz’altro modo di discuterne con Joan Robinson. Certo, basta leggere quelle pagine per trovarsi gettati nello stesso ordine di idee della Robinson, persino radicalizzato, mille volte lontano dalla timida ripresa del keynesismo che predomina a sinistra.
Keynes proponeva un controllo sociale sull’investimento e sognava una società più egualitaria; e certamente questo messaggio è stato imbastardito da quella Sintesi Neoclassica che aveva puntato sullo stimolo all’investimento privato per conseguire alti profitti, facendone discendere elevata occupazione e aumento del reddito anche dei ceti più poveri grazie allo ‘sgocciolamento’ in basso (trickle down) della maggiore ricchezza e del maggior reddito dei ceti abbienti. Così la diseguaglianza (relativa) cresceva e il problema dell’impoverimento non era affrontato per la via di una migliore (oltre che più piena) occupazione ma per il tramite di sussidi monetari e ‘assistenza’.
Il problema, insiste Minsky, è che non solo le novità di Keynes erano imprecise e confuse, ma che la stessa ‘vecchia’ teoria era in buona misura ancora lì – e proprio nei punti chiavi della teoria degli investimenti, del tasso di interesse, della determinazione dei prezzi delle attività-capitale (assets). In parte ciò era voluto, per rendere più accettabile il messaggio ritenuto più urgente sulla politica economica anti-ciclica; in parte era involontario, per l’incapacità di sfuggire al peso della teoria tradizionale in cui era stato educato. I keynesiani hanno finito con il cancellare lo stesso problema dinamico del ciclo economico, da cui l’opera di Keynes nasceva, per ridurlo ad un orizzonte statico di equilibrio. D’altra parte, tra i Quaranta e i Sessanta, non era forse scomparso il problema del ciclo, sostituito dalla regolazione fine del meccanismo economico? Lo sgonfiamento prima, e la repressione poi (almeno per un po’, sino ai primi Sessanta), della finanza speculativa, facilitavano l’illusione ottica di una stabilità permanente. Se Kalecki, in anticipo di trent’anni, ne aveva smontato le basi ingannevoli per quel che riguardava i rapporti tra le classi sociali, Minsky, in anticipo di almeno un decennio, faceva lo stesso per quel che riguardava il rapporto tra finanza e investimento.
Qui Minsky innestava la sua critica non solo al keynesismo ma allo stesso Keynes. Non era vero quello che diceva la nuova ortodossia, che bastavano cambiamenti al margine alle istituzioni del capitalismo per garantire che crisi e depressioni fossero roba del passato. Al contrario, era tutto da discutere se le politiche anti-congiunturali potessero sostenersi nel tempo senza creare altre contraddizioni, ed era fallace pensare di poter ricacciare sotto il tappeto le domande del ‘per chi’ si dovesse produrre, di ‘che tipo’ di occupazione dovesse essere stimolata, di quale natura dovesse avere il pieno impiego. Il limite risaliva dritto dritto a Keynes, il Keynes che aveva accantonato con troppa facilità le questioni gemelle di una radical reformulation, di una ricostruzione radicale della società, e di un diverso insieme di criteri per valutare l’evoluzione di quella stessa società.
Il lettore vede subito che siamo di fronte a una messa in stato d’accusa dell’ultimo capitolo della Teoria generale. E questo stato d’accusa viene da un economista che non si vergogna di essere stato socialista (l’American Socialist Party: sua madre era attiva nel movimento sindacale, il padre nel partito socialista di Chicago, e si incontrarono sul tram andando a una celebrazione della nascitadi Marx). Anzi, che lo è ancora. Certo, un socialismo rigorosamente antileninista, oltre che antistalinista. Ciò, evidentemente, poteva fare problema. Pochi anni dopo, quando Minsky iniziò a collaborare stabilmente al Centro Studi Confindustria, diretto da Guido Carli (è grosso modo da quegli anni che iniziò ad abitare a Bergamo, ed ebbi la fortuna di conoscerlo), vi fu ancora chi, come Karl Brunner,  si infuriò, con Paolo Savona, per aver loro “portato in casa un comunista” (l’episodio è riportato dallo stesso Savona in “Guido Carli in Confindustria: maestro di pensiero e statista”, in Carli G., Savona P., Guido Carli Presidente di Confindustria 1976-1980, Bollati Boringhieri, 2008). Non a Minsky stesso, almeno a quell’epoca. E gli ultimi capitoli del suo libro del 1975 esplicitamente propongono uno tra i 57 tipi di capitalismo, dai tratti però marcatamente ed esplicitamente socialisti (il riferimento di Minsky alle 57 varietà possibili del capitalismo rimandava alle 57 varietà pubblicizzate dalla ditta Heinz).
Seguiamo il filo di ragionamento di Minsky. Keynes negli anni Venti era un uomo della sinistra. Non più negli anni Trenta, e ciò sicuramente era dovuto anche a quello che era la Russia comunista, centralizzata e autoritaria. La Teoria generale avrebbe reso finalmente obsoleta e inutile la teoria marxiana, con tutte le sue confusioni. Negli anni Venti, in fondo, Keynes flirtava ancora con un socialismo decentralizzato e ‘umano’. Negli anni Trenta ritiene che il mercato risolva in modo soddisfacente il problema di una allocazione efficiente; che le politiche di pieno impiego che suggerisce facciano un bel tratto di strada per risolvere il problema della giustizia sociale, e che vadano solo affiancate dalla eutanasia del rentier (politiche che riducano il tasso di interesse), da una adeguata tassazione diretta, e da una incisiva imposta di successione. Il capitalismo come regno della libertà e dell’iniziativa individuale andava ‘salvato’.
Ovviamente, commenta Minsky, l’idea di Keynes che il capitale potesse divenire ‘scarso’ era l’altra faccia della sua ingenua teoria dei bisogni assoluti come ‘saziabili’ (una generalizzazione indebita delle proprie preferenze), mentre al contrario ciò che è avvenuto dopo è l’esplosione, indotta dal sistema stesso, dei bisogni relativi. In ciò hanno svolto un ruolo importante il modo del sostegno statale all’economia come domanda di beni e servizi, il privilegio fiscale dei redditi da capitale rispetto a quelli disponibili per il consumo, la politica di trasferimenti meramente monetari, di cui è stato intessuto il keynesismo. Il disciplinamento dei bisogni che con tutta evidenza sarebbe opportuno non lo si può affidare, come crede Keynes, al mercato, con solo un piccolo aiuto da parte del sistema della tassazione e dei sussidi. Il vantaggio della spesa militare è che distrugge continuamente il suo stesso prodotto, non rientra in circolo (è una politica di investimento adeguata al capitale proprio perché non è utile), e in più favorisce un sistema produttivo ad alta intensità di capitale.
A dover esser messa sul banco degli imputati, secondo Minsky, è la contraddizione palese in Keynes tra l’idea della ‘socializzazione degli investimenti’ e quella secondo cui il mercato svolgerebbe bene il suo ruolo di allocatore delle risorse. Esisteva, ed esiste, una alternativa: un ‘socialismo di mercato’ che controlli i centri di comando (towering heights) e promuova il consumo collettivo (communal consumption); a cui potremmo aggiungere nello stesso spirito il controllo diretto del movimento dei capitali. Ciò che i ‘keynesiani’ hanno perseguito, non del tutto tradendo la lettera di Keynes, è stato il Big Government, uno Stato grande a sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo. Un modello di alti profitti-alti investimenti, ma dunque anche elevato ‘spreco’ (non siamo lontani, con tutta evidenza dal mondo di Sweezy (con Baran), citato in JMK, oltre che di Kalecki, anche se Minsky non aveva ancora recepito il contributo di quest’ultimo, e non lo cita ancora). Un modello, insomma, che è predicato proprio sulla esplosione dei bisogni relativi, e che sostenendo rendite, interessi e profitti nutre nel suo seno il risorgere della finanza speculativa e di una instabilità sempre più accentuata. Un universo destinato ad una necessaria implosione, e a cui non si può rispondere con la nostalgia di un keynesismo ‘buono’ (che peraltro mai si è dato); e che intanto destina il pianeta al degrado sociale e naturale.
E’ a questo che deve rispondere la ‘socializzazione degli investimenti’, in un senso ben più profondo di quello inevitabilmente aporetico di Keynes. Basta confrontare le frasi di Minsky con quelle di Keynes: occorre, scrive l’economista di Chicago, una economia in cui i settori chiave siano socializzati; dove il consumo in comune [dunque non monetario, ma per così dire provveduto ‘in natura’] soddisfi la parte maggiore dei bisogni privati; dove la tassazione del reddito e della ricchezza sia disegnata per abbattere la diseguaglianza; dove la speculazione nella struttura delle passività sia regolata da leggi che ne definiscano rigidamente l’ammissibilità. Un ‘capitalismo’ del genere può rendere raggiungibile il pieno impiego con meno tensioni e instabilità di quelli emersi nel capitalismo degli anni Sessanta e Settanta. 
Su questa strada i fini socialisti, propri di un socialismo libertario, possono essere riconciliati con il capitalismo. Ma per giungere a una analisi adeguata di come funziona una economia capitalistica, e di come intervenire lungo le linee di una teoria ad un tempo razionale e radicale, è necessario comprendere non soltanto che il capitalismo ha difetti costitutivi, non risolvibili per la via di una tiepida regolamentazione, ma anche che si deve tornare ai problemi degli anni Trenta. E qui, con tutta evidenza, Minsky ha in mente il New Deal. Quel New Deal che non era keynesiano: per certi versi, negativamente (Roosevelt, prima della Seconda Guerra Mondiale, non apprezzava affatto i disavanzi nel bilancio dello Stato); ma anche, per altri versi, positivamente (Roosevelt, sulla spinta del conflitto sociale, aveva promosso una spesa che aveva inciso potentemente sulla composizione della produzione, e che dunque aveva coniugato sostegno alla domanda e ridefinizione dell’offerta; e dove lo Stato si faceva occupatore diretto di manodopera).
Da questo punto di vista aveva di nuovo torto Keynes quando nella sua lettera aperta a Roosevelt pubblicata nel New York Times del 31 dicembre del 1933, se giustamente lo invitava a spingere sull’acceleratore della recovery, della ripresa, discutibilmente gli suggeriva una politica dei due tempi, rimandando a tempi migliori la reform, la riforma radicale dell’economia e della società. Il punto di Minsky è evidentemente che le due gambe debbano camminare insieme. Sul New Deal, e su quel Piano del Lavoro o sull’ispirazione liberalsocialista di Ernesto Rossi o Sylos Labini, ho scritto a più riprese (da solo o con Joseph Halevi) dal 2008, anzi in verità da prima. Un punto che ritorna negli anni più recenti anche nelle riflessioni di Luciano Gallino e Laura Pennacchi. 


Federico Caffè, Augusto Grazianie Claudio Napoleoni
Criticando i keynesiani Paul M. Sweezy, a ragione sosteneva che parlare di riformare il capitalismo significava peccare di ingenuità o di doppiezza. Il capitalismo difenderà fino in fondo i suoi privilegi, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà ai riformatori che non tocchino i loro interessi.
Federico Caffè era sicuramente un riformista, pur a un certo punto disilluso e disperato. Ma certo non ingenuo. Cita il Franco Fortini che sul Corriere della sera scrive che “lo sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato”. La alternativa che propone è una economia di piena occupazione, ma è chiaro – aggiunge - che ciò dipende da una riforma fondamentale del contesto istituzionale. Di questa riforma fanno parte controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai fini della regolamentazione complessiva dell’investimento privato.
Forse alludendo a Abba P. Lerner, la definisce una vera e propria ‘economia dei controlli’. Di più, si tratterebbe di una autentica ‘amministrazione globale della offerta’. Siamo chiaramente nello stesso orizzonte di Minsky, quello di una socializzazione industriale e della struttura produttiva, della banca e della finanza, dell’occupazione. Di fatto, e di nuovo, della rimessa in questione del ‘che cosa’, ‘quanto’ e ‘per chi produrre’ – qualcosa a cui una sinistra autentica non può non aggiungere una rimessa in questione anche del ‘come’ produrre. Caffè qualifica questa prospettiva come ‘riformismo gradualistico’, ma non si vede (almeno, io non vedo) proprio cosa vi sia di moderato in tutto ciò. Tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che scrive che si tratta di proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento di approfondirli ed estenderli.
Se cerchiamo da noi l’esempio massimo di un keynesismo ‘strutturale’, mille miglia lontano dal keynesismo corrente e un po’ facile degli economisti alternativi dei nostri giorni, l’autore a cui penserei per primo è però Augusto Graziani: non a caso un autore che ha costruito il suo pensiero più originale sulla critica al Keynes della Teoria generale, e sul recupero semmai del Keynes del Trattato sulla moneta. Per quel Keynes - come per Wicksell, Schumpeter, e prima ancora Marx - l’accesso privilegiato alla moneta è ‘comando’ sulle decisioni attinenti alla produzione e alla occupazione. Quell’accesso è, certo, prerogativa anche dei governi: ma Graziani non ha mai ceduto a illusioni ‘sovraniste’; né gli si fa un gran servizio nel ridurlo a un postkeynesiano, ad un ‘eterodosso’ tra i tanti, fautore di politiche espansive della domanda effettiva, e magari di una qualche svalutazione corretta ‘da sinistra’. Graziani ha sempre ben chiara la natura di classe delle decisioni politiche; e ha sempre rigorosamente distinto tra governo e Banca Centrale. Per lui, il conflitto sociale – che si svolge fuori dall’arena del mercato è di natura, in senso lato, politica: come per Kalecki, il riferimento è non tanto alle lotte sul salario, piuttosto alle lotte nella produzione, che può (e deve) imporre i contenuti della spesa pubblica.
Graziani si è inoltre ben guardato dal farsi fautore di un aumento generico della domanda. I fallimenti del sistema privato sono profondi, e i bisogni collettivi sono insoddisfatti: proprio per questo, sostiene, ogni spesa va accuratamente valutata e indirizzata ad una composizione del prodotto che sia socialmente utile. Lo Stato deve inoltre assicurare ai cittadini, per così dire ‘in natura’, la disponibilità reale di beni e servizi, andando al di là di una politica di meri sussidi monetari o di riduzioni fiscali. Per ultimo ma non da ultimo, lo Stato ha la responsabilità di aprire la strada ad un investimento che migliori la qualità strutturale dell’economia in un orizzonte di lungo periodo che solo lui può garantire. Di nuovo, siamo nell’orizzonte della ‘socializzazione degli investimenti’ intesa in un senso complessivo e radicale.
E’ indubitabile che troppe siano le differenze tra Graziani e Claudio Napoleoni per accomunarli in modo generico sotto un’unica prospettiva. Pure, è altrettanto indiscutibile che esista una convergenza, almeno sul problema. In un intervento al CESPE del 1987, poi raccolto in un volumetto dal titolo: “Quali risposte alle politiche neo-conservatrici?”, Napoleoni ribadisce l’importanza di ripristinare il vincolo ‘interno’, cioè di una spinta sociale sul terreno distributivo, che può incarnarsi in un aumento dei salari ma anche in una riduzione dell’orario di lavoro. L’economista abruzzese non è contrario ad una politica prudente del cambio, che reputa (se accoppiata alla riproposizione del vincolo ‘interno’) in grado di ripristinare una dialettica di classe, e di costringere le imprese a un cambiamento strutturale. Che ne è in questa prospettiva del ‘risanamento’ del bilancio pubblico? Sostiene questo Napoleoni che dell’intervento sul bilancio pubblico se ne può fare una bandiera solo dentro un’operazione più complessiva che non solo agisca sulla distribuzione del reddito ma che intervenga anche sulle determinanti strutturali dell’economia e della società. Una politica che riduca la dipendenza dall’estero, che investa in grandi infrastrutture, che governi il mutamento tecnologico in maniera da indirizzare l’aumento di produttività verso un aumento della quota del nuovo valore che va al lavoro, di un minor tempo di lavoro nella sfera della produzione, di una più equilibrata ripartizione del lavoro di riproduzione, di un maggior rispetto della natura. Cosa è questa se non ‘socializzazione degli investimenti’? 


Alain Parguez
In questo orizzonte di discorso un contributo di rilevo è quello che viene da Alain Parguez. Lo Stato deve farsi ‘ancora’ di uno sviluppo che generi un pieno impiego autentico. Per definizione, il passivo del bilancio dello Stato, qualora il conto corrente con l’estero sia nullo, equivale ad un attivo del settore privato, dunque a un suo risparmio netto. Inevitabilmente, politiche che mirino ad un pareggio o un attivo del bilancio pubblico (le politiche di ‘austerità’) non possono che rivelarsi controproducenti, determinando l’opposto di quel che dichiarano. Deprimendo produzione, occupazione, aspettative, fanno crollare investimenti e consumi. A questo conducono le varie terapie shock, come quella imposta alla Grecia, o le politiche recessive e deflazionistiche in corso. E’ chiaro che i disavanzi dello Stato, invece di ridursi, si riprodurranno e aumenteranno, in un circolo vizioso, che si riproduce in una caduta libera pregna di drammi sociali e individuali. Sono, questi, dei ‘cattivi’ disavanzi, a cui non corrisponde come contropartita alcuna infrastruttura materiale o sociale. E’ questo invece ciò che caratterizza i ‘buoni’ disavanzi.
I ‘buoni’ disavanzi sono infatti disavanzi voluti ex ante, pianificati, che si collocano per così dire ‘naturalmente’ in una politica di lungo termine. Essi hanno quale scopo dichiarato il contrario di quel che afferma Keynes al termine della Teoria generale. Risultano nella produzione di uno stock di risorse tangibili e intangibili, non solo infrastrutture concrete, ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute. Di rimbalzo, possono creare un clima favorevole migliorando le aspettative, e potrebbero così favorire una spesa per investimenti privati, che rimane comunque trainata dal big push del settore pubblico. Tale produzione di valori d’uso sociali va effettuata in disavanzo ma, in realtà, al termine degli effetti che ha indotto, finisce con l’autofinanziarsi – sempre, nelle economie capitalistiche e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica. 


Lucio Magri
Potrà sorprendere il prossimo autore preso in considerazione: Lucio Magri, segretario del Partito di Unità Proletaria. Il documento è la relazione su “Difesa rigida o offensiva manovrata?”, pubblicato su il manifesto quotidiano, gennaio 1974. Magri si pone il problema di un ‘programma minimo’ di gestione della crisi. I temi che costituiscono l’asse del discorso, e che qui cito per lo più direttamente senza virgolette, sono quelli che seguono.
Il primo tema è la questione della distribuzione del reddito, o più semplicemente del chi paga la fase di stagnazione e di riconversione produttiva. Il livello di vita delle masse come quello dell’occupazione, in una fase recessiva, non sono difendibili senza un massiccio programma di spesa pubblica per finanziare consumi collettivi, beni primari a basso costo, programmi di sostegno dell’occupazione nei settori a bassa produttività e di riconversione in altri settori. Qui il limite del discorso di Magri è quello di dare per scontato che dalla considerazione, corretta, che la crisi non era allora causata da insufficienza di domanda, si potrebbe derivare una più generale critica al finanziamento in disavanzo della spesa pubblica. Fa di conseguenza cadere l’intero peso della manovra sull’aumento delle imposte. Discutibile allora, senz’altro errato oggi. Come discutibile era una certa sopravvalutazione della natura ‘finale’ della crisi, di cui sottovalutava la natura di (lunga) crisi di ristrutturazione.
Il secondo tema era quello dei consumi collettivi. Che essi non possano funzionare da elemento di rilancio del meccanismo capitalistico non toglie nulla, per Magri, al fatto che una massiccia spesa e una razionale pianificazione nel settore dei consumi sociali potessero rappresentare un passo avanti decisivo per le condizioni di vita delle masse e per il livello civile di tutta la società. Lo spostamento di significative risorse da consumi individuali inessenziali a consumi sociali poteva garantire sia una migliore soddisfazione dei bisogni, anche senza sostanziali incrementi produttivi, sia, almeno nel breve periodo, maggiori occasioni di lavoro. Da una impostazione del genere Magri derivava scelte concrete e una linea di classe. Sia per ciò che riguardava quali beni collettivi produrre, sia per ciò che riguardava la loro distribuzione. La linea di classe si riduceva a tre discriminanti. Una impostazione accentuatamente egualitaria nella produzione e nella distribuzione del bene collettivo. Una chiara autonomia del consumo collettivo da un diretto obiettivo produttivistico (ritenuto il solo modo di garantire una vera produttività). Una lotta a fondo contro l’annidarsi del parassitismo nella spesa pubblica, contro la borghesia di stato e la paralisi burocratica.
Per quel che riguarda il problema dell’occupazione, pareva a Magri del tutto illusoria – et pour cause - la prospettiva, sostenuta dai ‘riformisti’ di allora, di risolvere il problema della occupazione intensificando gli investimenti e rilanciando il meccanismo di sviluppo capitalistico. Non era peraltro proponibile una pura e semplice lotta per la difesa dei posti di lavoro esistenti. Si doveva riuscire ad aprire lotte per nuovi posti di lavoro, per una politica dell’occupazione. La scelta che andava fatta era di puntare (anche, ma in modo significativo) su settori a bassa produttività, su tecnologie ad alto contenuto di lavoro. Una politica che andava ancorata a priorità socialmente riconosciute. A questo si poteva accoppiare una ondata di grossi investimenti nella ricerca, e di stimoli economici in direzione di una riconversione di settori industriali per l’esportazione di beni e di tecniche verso paesi in via di sviluppo.
Aggiungeva Magri che pensare a questa serie di scelte di politica economica come a un ‘programma di governo’, a un insieme di leggi di riforma o di decisioni di spesa, frutto di un accordo di vertice, sia pure sotto la pressione di una spinta di massa, sarebbe stato puramente illusorio. Esse non potevano configurarsi se non come il frutto di un permanente e articolato movimento di massa, capace di funzionare in ogni momento e in ogni settore, oltre che come forza di pressione, come controparte del potere pubblico in precise ‘vertenze’, come elemento di controllo permanente, e anche di gestione attiva delle conquiste ottenute. Gestione diretta e di massa di un programma di lotta che via via si impone e si controlla e il cui procedere non risolve ma approfondisce la crisi del sistema (siamo, a me sembra, ancora nell’orizzonte del Gramsci delle Tesi di Lione, con una insospettabile convergenza con Federico Caffè).
Concludeva: non si tratta di imporre dal basso in modo diverso la linea riformista, ma di portare avanti in modo differente dal riformismo un programma che è intrinsecamente diverso, perché parte dalla demistificazione dell’illusione del ‘nuovo modello capitalistico’ (oggi diremmo: della ‘via alta’ allo sviluppo capitalistico). Se non si riesce, nella articolazione degli obiettivi e delle esperienze, a far avanzare il discorso sulla redistribuzione del reddito, sui consumi sociali, sull’occupazione, come strumento di lotta reale di massa, come crescita di potere prima e più che di singoli obiettivi, ogni discriminante di impostazione e di contenuto diventa formale. Non era un modello alternativo, stabile, di capitalismo, ma di gestione della crisi.
Ho scritto con le parole stesse di Magri, ma non ho potuto fargli giustizia. Troppo – di condivisible, ma anche di non condivisibile – ho dovuto tralasciare. Ma certo, in questo che Magri chiama provocatoriamente ‘modello alternativo di stagnazione’, condizione per poter porre un domani sul tappeto la questione di un (comunista) ‘modello alternativo di sviluppo’, troppe sono le somiglianze nei confronti di una radicale ‘socializzazione degli investimenti’, per non chiedersi in che misura le due analisi debbano reciprocamente essere confrontate, e interrogarsi vicendevolmente. 


Conclusioni
La gran parte degli autori che ho citato ha scritto quanto ho riportato negli anni Settanta. Quale l’attualità in ciò che hanno sostenuto allora? Enorme, a mio parere. La svolta neoliberista, se ha spiazzato per lungo tempo le questioni che si ponevano in quel decennio, non le ha affatto cancellate. Le ha viste semmai eclissarsi per tornare allo scoperto con maggior forza ed evidenza, ma in un contesto di rapporti di forza sociali ben più degradato.
Per mio conto, mi sono trovato a coordinare, per Rifondazione Comunista e assieme a Emiliano Brancaccio (quello che scrivo impegna, sia chiaro, soltanto me), una commissione sulla politica economica. Eravamo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. La mia convinzione – potrei dire, da sempre: dall’inizio degli anni Settanta – è che la crisi italiana non soltanto fosse paradigmatica, pur nella sua eccezionalità, delle dinamiche del capitalismo europeo e globale, ma anche che essa avesse una natura ‘strutturale’. Non era, come non è, riducibile alla questione della diseguaglianza (i ‘bassi salari’). Né era, o è, risolvibile con un più acceso (e benvenuto) conflittualismo, con una (auspicata) migliore distribuzione: un po’ più di reddito qui, un po’ meno di orario di lavoro lì.
Il mio tentativo nella commissione fu quello di organizzare discussioni che portassero gli economisti italiani ‘di sinistra’ – una categoria purtroppo sempre più affetta dalla tara di agognare una presenza mediatica la più pronunciata possibile (tra un appello, una lettera, un monito, una comparsata in televisione); come anche dal desiderio profondo di divenire consiglieri di un qualche nuovo Principe - alla cognizione che il capitalismo che si era costituito negli anni Ottanta e Novanta, non era per niente un ritorno del ‘liberismo’, un trionfo di una generica ‘globalizzazione’, un misterioso e novissimo ‘postfordismo’, né tanto meno la vittoria di un introvabile ‘pensiero unico’. Insomma, le vuote sigle della sinistra alternativa e radicale. Era invece un ‘nuovo’ capitalismo nel pieno di un intervento politico attivo, che aveva trasformato e incluso i lavoratori dentro un meccanismo infernale, che gestiva internamente la domanda effettiva, e che dava vita a nuove forme del vecchio sfuttamento.
Da studiare era il nuovo mondo della produzione e della finanza, prima ancora di porre in questione domanda e distribuzione: perché appunto reform recovery vanno insieme. Un capitalismo per cui era prevedibile l’avvicinarsi di una grande crisi (tanto che sovrastimai la gravità della crisi scoppiata nel 2000, e con Joseph Halevi mi trovai pronto a quella del 2007; gli economisti della nostra sinistra se ne accorsero, male, a fine 2008). Con pazienza bisognava attrezzarsi sul piano ‘strutturale’ del modo di produzione: tanto per quel che riguardava l’approfondimento della conoscenza, quanto per quel che riguardava l’abbozzo di costruzione di un programma minimo. Muovendosi verso una politica economica attenta, ebbene sì, alle questioni legate alla ‘socializzazione degli investimenti’. Basta andarsi a rileggere quello che scrivevo allora.
Se devo essere sincero, non ho mai capito bene quale e quanto fosse l’investimento della dirigenza del Partito su quella sotto-commissione. Non molto, sospetto. Ci veniva detto di rimanere ‘sulle generali’, perché erano ‘ovviamente’ i politici a dover dettare la linea programmatica. E però quando le elezioni si avvicinavano ci si chiedeva con urgenza di scrivere le righe da mettere fianco a fianco agli altri mattoni approntati, separatamente, dagli ‘ecologisti’, dalle ‘femministe’, e così via (io, devo dire, mi sottrassi). Una cosa deve essere chiara. Una socializzazione degli investimenti, per essere proposta da sinistra (figuriamoci da partiti o movimenti comunisti), non si improvvisa. Richiede un lavoro. Non individuale, ma collettivo. Di lunga lena, che si costruisce nel tempo: basti pensare a che tipo di scuola e di università presuppone.
Bisognerebbe cominciare, un giorno o l’altro, con pazienza, a farlo, scontando i tempi della costruzione inevitabilmente lenta. Se no sarebbe meglio, di queste cose, non parlarne nemmeno. Non è tema né di articoli né di interventi ai convegni, se non si vuole essere superficiali. Pure, potete contare sul fatto che la dura realtà dei fatti (che hanno la testa dura, e non badano agli equilibri dei politici o delle comunità intellettuali) ci costringerà a parlarne sempre di più, seppur male, nei tempi a venire. Speriamo solo di sfuggire alla massa di banalità, e di vere e proprie insensatezze, che ci affligge sulla questione dell’euro, dove un tragitto simile è stato già percorso, in modo probabilmente irreparabile, sino a che non si sa veramente cosa dica la politica della sinistra (al singolare). 

venerdì 7 marzo 2014

100 tweet sulla crisi - Riccardo Bellofiore -



-Siamo in una ‘grande crisi,’ non in una crisi congiunturale; una grande crisi ‘capitalistica’, che non equivale a crollo (tutt’altro): separa un capitalismo morente da un altro modello emergente, di cui non si vedono ancora chiaramente i tratti. Il paragone è valido solo nel senso che non è affatto escluso che uscire dall’euro preluda a più, e non meno, austerità. è  affatto escluso che uscire dall’euro preluda a più, e non meno, austerità.                                                                                                                                                                                                                                                                      -In realtà, la Banca centrale europea sta gestendo la trasformazione del sistema europeo e la ristrutturazione dei rapporti sociali, dal lavoro al welfare, transitando da una crisi all’altra, sempre impedendone però la degenerazione.                                                                                                                                                                                                    -Non dobbiamo semplicemente tornare a Keynes, dobbiamo andare oltre Keynes, per un certo verso tornando a prima di Keynes, cioè al New Deal. Con Halevi lo diciamo dal 2008, anzi in verità da prima della crisi, quando sostenemmo, presi amichevolmente in giro dalla sinistra politica ed economica, la necessità di un aumento, non di una stabilizzazione, del rapporto debito/PIL.                                                                                                                                                                     -La ‘ripresa’ non va separata da ciò che Keynes, in una lettera a Roosevelt, chiamava la ‘riforma’: le politiche economiche espansive contro l’austerità non vanno separate da una diversa e migliore composizione della produzione, e dall’obiettivo della piena e buona occupazione, con lo Stato che si fa promotore di entrambi gli obiettivi, insieme e simultaneamente. Keynes li vedeva in sequenza: prima la ripresa, poi la riforma. Io li vedo come contemporanei.                                                                                                                                                                                                                                                                                                             -Soltanto dentro un discorso del genere assume una valenza positiva l’erogazione di un reddito di esistenza, condizionato alla prestazione di un lavoro ‘sociale’ nell’arco vitale.                                                                                                                                                                             -Caduto il consumo a debito, impossibile l’esportazione netta di merci sulla luna, insufficiente la spinta degli investimenti a chiudere il circuito monetario (non soltanto nella crisi, ma anche quando le cose vanno bene), l’unico possibile motore dello sviluppo è la spesa pubblica in disavanzo, che da sinistra va finalizzato a un differente ‘cosa, come, quanto’ produrre.                                                                                                                                                                                      -La via di sinistra esiste, ed è quella di Minsky (non nella lettera, ma nello spirito): socializzazione dell’investimento, socializzazione dell’occupazione, socializzazione della finanza.                                                                                                         -Quello che sta avvenendo è che la Germania importa relativamente di più da oriente e relativamente di meno dal mezzogiorno d’Europa – anche per questo le nostre catene ‘ricche’ della subfornitura tedesca sono sotto pressione.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           -Nel caso dell’Italia una delle ragioni della bassa dinamica della produttività dipende dalle politiche di privatizzazione e precarizzazione dagli anni Novanta, quale che fosse il colore del governo, e rispetto alle quali il nostro paese è stato una punta di avanzata (e deleteria) sperimentazione.                                                                                                                                                                                                                                                                      -la crisi capitalistica non è mai semplicisticamente dovuta ai ‘bassi salari’, e tanto meno al ‘sottoconsumo’ (lo dichiaravano a chiare lettere sia Marx che Rosa Luxemburg, se solo uno si prendesse la briga di leggerli sul serio; il basso consumo è la causa ‘ultima’ delle crisi, dunque non ne spiega nessuna). Il modello neoliberista è stato piuttosto un modello di sovraconsumo. La crisi, come sapevano appunto Marx e Luxemburg, ma anche Keynes e i suoi collaboratori più stretti, è semmai una crisi da sotto-investimento (o, più in generale, da insufficienza della domanda autonoma).                                                                                                                                                                                                                           -Sul terreno della politica economica, la gran parte degli economisti di sinistra italiani appartiene oggi a quello che, in modo semiserio, definisco come ‘keynesismo-leninismo’. In battuta: abbiamo gli strumenti tecnici, se solo fossimo noi i consiglieri del principe … . Se la Banca Centrale è prestatore di ultima istanza, non vi sono limiti oggettivi al debito pubblico. Il Tesoro non ha difficoltà a svolgere politiche di pieno impiego. I vincoli sono politico-istituzionali.                                                                                                                                                         -Qui vedeva lontano Paul Mattick: il keynesismo-leninismo è un marxismo che, proprio come la solidarietà antitetico-popolare che opponeva Seconda e Terza Internazionale, vede nel comando statale l’alfa e l’omega. La stanza dei bottoni in cui ‘entrare’, per illudersi di governare il processo capitalistico, o per spezzarlo come strumento borghese, senza però cambiarne in fondo la natura.                                                                                                                                                                                                                                                       -L’opposizione non è tanto capitalismo finanziario/democrazia, come dicono le Tesi: è semmai  capitalismo/democrazia, tout court.                                                                                                                                                                                                                                                             -L’uscita individuale dall’euro, la disobbedienza di un solo paese, la costruzione di un euro del Sud-Europa sono tutte prospettive problematiche. Sempre più assumono un colore ambiguo nelle pretese di una dubbia riconquista di una ‘sovranità’ monetaria ‘nazionale’, da parte del ‘popolo’, a salvezza di una ‘impresa’, di cui il lavoro diviene parte ‘organica’ e subalterna.                                                                                                                                                                                                 -Dobbiamo proporre un ‘altro’ modello. “Credo che le sinistre siano giunte ad un punto di snodo, ad un bivio, in cui si presentano due strade: una strada consiste nel tentare di risolvere meglio degli altri i problemi che gli altri si pongono […] L’altra strada è quella di mutare in maniera radicale le prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di contrapporre veramente al modello degli altri un altro modello.” (Napoleoni) Oggi non bastano la pura e semplice reflazione, o il ritorno al keynesismo. Occorre un altro modello di economia e società.                                                                                                                                                                                                                                                                                                -avviare, qui e ora, senza garanzie di successo, un lavoro sociale e politico che, a tutt’oggi, non siamo ancora stati in grado neanche di iniziare a pensare davvero. E’ ora. Se non ora, quando?                                                             http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3482-riccardo-bellofiore-100-tweet-sulla-crisi.html


venerdì 28 febbraio 2014

Sull'accumulazione originaria di Karl Marx , Il Capitale Libro I, Capitolo 24 - Ermanno Semprebene -

La teoria economica di Marx ci mostra come il processo storico dell’apparizione e dell’appropriazione del plusvalore costituisce una sola unità dialettica di tre momenti differenti:                                                              

1) Lo scambio ineguale che poggia su valori ineguali: è lo scambio che si sviluppa in una società ancora dominata dall’economia naturale [c’è una produzione di merci cui si affianca una semplice circolazione (M-D-M) che si struttura poi in un processo di circolazione di denaro che vede aumentare il suo valore sulla base di uno scambio ineguale dovuto all’appropriazione da parte del “commerciante” di merci pagate con quantità di denaro inferiori al loro valore reale e rivendute ad un valore superiore (D-M-D*)]. Questo meccanismo scorretto porterà ad una accumulazione di capitale che a sua volta si moltiplicherà grazie al sistema del prestito “ad usura” (altra palese forma di scambio ineguale). Sarà questo, dice Marx, l’inizio di quella accumulazione di capitale commerciale che darà la possibilità di creazione di quella gran massa di denaro che permetterà la formazione del capitale industriale necessario per il passaggio alla seconda forma, il secondo momento dialettico:                                                                                                                           
2) Lo scambio eguale che si basa su valori uguali(tipico del modo di produzione capitalistico), dove l’appropriazione del plusvalore (D-M-D*) non si afferma più sulla semplice circolazione delle merci ma scaturisce dall’insieme del processo di produzione (produzione- trasporto- scambio- consumo). [Il capitale acquista sul mercato macchine e materie prime (capitale costante) e forza lavoro (capitale variabile). La produzione di merci si sviluppa in una struttura organizzata ed efficacemente supportata da una rete di comunicazioni moderna ed efficiente che permetterà un’accumulazione enorme di merci che, a loro volta, si trasformeranno in denaro aumentato di valore nel processo di consumo]. La creazione del plusvalore non si avrà, come nel primo momento, da vendita e acquisto di merci a valore superiore o inferiore del loro valore reale, bensì le merci verranno scambiate al loro reale valore. E qui arriviamo al terzo momento dialettico:                                                                                                                                                                              
3) Lo scambio ineguale che poggia su valori eguali: la merce “forza lavoro”, l’operaio, presenta una caratteristica del tutto particolare, una sua peculiarità, è l’unica merce capace di creare, se inserita in un processo lavorativo determinato (appunto il processo di produzione capitalista), più valore del suo “costo” iniziale. (in altre parole la capacità lavorativa che viene acquistata dal capitale sotto forma di forza lavoro e che viene impiegata nelle sei, otto, dieci, ore che compongono la giornata di lavoro dell’operaio produce una quantità di merci il cui valore reale è di gran lunga superiore a quanto quel lavoratore percepisce per lo svolgimento della sua opera). Questa produzione di maggior valore sarà appunto un superprodotto a tutto beneficio di chi detiene, mantiene, riproduce l’organizzazione del sistema.                                                            
A questi tre momenti dialettici si aggiunge una ulteriore fase di scambio ineguale che risulta dai differenti livelli di produttività dei diversi paesi che partecipano al commercio capitalistico mondiale.   


"Port - Royal" - Aristide Bellacicco -


Ai bambini si insegnava soprattutto a non farsi illusioni.
Nessuno veniva sgridato né minacciato.
Non esistevano punizioni.
Ci limitavamo a renderli tristi. Ci sembrava giusto così
.

(maestro Arnauld)

Io la mattina mi alzavo alle quattro per dire messa. Poi leggevo la bibbia per un’ora e alle sei, con qualsiasi tempo, uscivo a passeggiare nel parco. Dall’angolo sud, accanto al glicine, si riusciva a vedere Versailles. Non mi è mai piaciuto guardare da quella parte, e ogni volta che ci capitavo tornavo indietro alla svelta. - Stai scappando? – mi chiedevo, e non volevo rispondermi. Bevevo un bicchiere di latte nella mia stanza, indossavo l’abito scuro e preparavo i libri per la lezione. La scuola occupava una sola aula al piano terra del convento, con le finestre che davano sul cortile interno alle spalle del parco. Da lì passavano solo le suore e qualche prete, nulla che potesse distrarre i bambini. Erano in tutto trenta, il più giovane aveva cinque anni e il più grande dodici. Si chiamava Blaise, era un ragazzino molto sveglio e il solo veramente indisciplinato. Era anche il meno triste, però, e io non sapevo se rallegrarmene o se considerarla una sconfitta personale. Questo dubbio mi è rimasto nei tanti anni che sono passati da allora, ma col tempo ho imparato a sottovalutarlo. Era una domanda legittima e insensata. Adesso racconterò la storia di Blaise e del suo maestro Arnauld, che sono io, e di Albertine, l’unica donna che ho amato in vita mia.

La principale scoperta di Port- Royal era che i bambini sono malinconici per natura e cercano di sfuggire al fascino di quel sentimento distraendosi. A questo servono i giochi, le monellerie, e quell’apparente spensieratezza che era la mia principale avversaria. Il mio lavoro consisteva essenzialmente nell’impedire ai bambini di distrarsi. C’era una tecnica: bisognava che non fosse mai concessa loro nessuna delle normali soddisfazioni di quell’età. Il sistema non si basava sui divieti, ma sulle assenze. Le cose sbagliate venivano semplicemente fatte sparire. Non si assegnavano voti e non venivano distribuiti elogi. Se qualcuno spiccava per intelligenza o acume, o addirittura per qualche tratto geniale, non gli si dava alcun peso. I primi della classe non esistevano e, di conseguenza, neanche gli ultimi. Un prato di erbe della stessa altezza e colore. E non si giocava, a Port- Royal. Non c’era nessuna proibizione formale, ovviamente. Era solo che ne mancava il tempo, e tutto era organizzato perché mancasse. I giorni erano tutti uguali e non era prevista una tregua. La mattina rimanevano in classe dalle sette all’una. Poi li si portava a mensa, dove pranzavamo insieme e io stavo a capotavola. Dopo mangiato riposavano un’ora nelle loro stanze. Alle tre c’era la messa. Nel pomeriggio, in primavera o nei giorni di bel tempo, Albertine li portava nel parco per un paio d’ore. A volte mi univo anch’io, ultimo della fila, per il piacere di ascoltare la sua voce mentre insegnava ai bambini i nomi delle piante. Verso le cinque tornavano nello loro stanze e studiavano o facevano i compiti fino alle otto. Dopo cena c’era la preghiera comune e alle nove erano già a letto. Col tempo, la malinconia diventava una droga potente di cui era impossibile fare a meno. I bambini la scoprivano in se stessi come un’estrema risorsa e imparavano ad amarla e a volerne di più. Usciva da loro come un colore uniforme che li rendeva indifferenti a tutto tranne che alle cose serie che gli insegnavo io. Stavano attenti, studiavano ed erano silenziosi. Quasi tutti, almeno. Blaise no.
Me l’aspettavo da lui quella domanda, e un giorno venne. 

- Maestro Arnauld – mi domandò Blaise - perché non ci fate mai giocare? Avevamo appena finito la lezione e stavamo andando a mensa. 
- Non è così - risposi - chi te lo impedisce? Se vuoi, gioca.
- E con chi? Qui nessuno ne ha voglia. Non posso mica giocare da solo come un matto
- Questo è vero, Blaise. Ma se nessuno ne ha voglia, ci sarà pure un motivo. Che ne dici? Non volevo che gli altri sentissero il nostro discorso. Lasciai che entrassero nel refettorio e restai fuori con lui. Passando per ultima, Albertine mi strizzò l’occhio. 
- Ascolta Blaise. E’ semplice. Hai mai letto nel vangelo che Gesù da piccolo perdeva tempo a giocare? Non mi sembra che c’è scritto. C’è scritto invece che andava a discutere con i dottori del tempio. Ed era più piccolo di te
Blaise si mise a ridere. Era l’unico che rideva ancora in tutta la classe.- Dai, maestro Arnauld, non mi prendere in giro. Questo non significa niente. Nel vangelo non ci sono scritte un sacco di cose che invece devono essere successe per forza. Insomma, le cose ovvie
- E sarebbero, queste cose ovvie?
- - disse Blaise - ad esempio non c’è mai scritto che Gesù andava al bagno. Eppure gli sarà scappata ogni tanto. Oppure che gli venivano le bolle o che si grattava il naso o…
- Blaise! - lo interruppi - Il vangelo non ha il tempo di occuparsi di queste sciocchezze
- Appunto, dico. Il vangelo racconta solo le cose importanti. Ma le altre sono avvenute lo stesso. E’ impossibile che Gesù non giocava. Non ci posso credere
Per il momento, pensai che era meglio piantarla lì. Gli dissi che ne avremmo riparlato e lo portai a mangiare.
- Però, Blaise – gli dissi a bassa voce – non ti mettere a parlare con gli altri di queste cose. Dille solo a me, d’accordo? 
- D’accordo – rispose – non ti preoccupare. Non ti voglio mica creare problemi, maestro Arnauld
Ah, ecco: non voleva “crearmi problemi”. Mi offriva una solidarietà complice, quasi da collega, non certo da allievo. Restai di sasso, ma non riuscivo a sentirmi arrabbiato con lui. Blaise non era come gli altri, non era triste. Ed era resistente. 

Nel primo pomeriggio, verso le due, Albertine venne nella mia stanza.
- Dai – mi disse – che non ho molto tempo. Ho detto alla madre superiora che andavo a cambiare i fiori nella cappella.
- I fiori? Albertine, siamo in novembre. Non ci sono fiori.
- Figurati. Quella non sa nemmeno se piove o c’è il sole. Non mette mai il naso fuori. E poi mi copre suor Angela. 
Mi tirai di colpo a sedere sul letto.- Lo hai detto a suor Angela. Non può essere. Albertine, dimmi che non è vero.
Albertine mi coprì gli occhi con una mano. Faceva così ogni volta che stavamo per litigare.
- Stai buono, maestro Arnauld. Non c’è pericolo. Qui dentro io e te facciamo come ci pare. Però facciamolo presto.
Mi abbracciò e io mi dimenticai di ogni cosa per un buon quarto d’ora. Mentre si rivestiva gli dissi di Blaise.
- Però – commentò Albertine – mica male. Bel cervellino.
- Anche troppo- dissi io – anche troppo. Non so cosa fare. Mi sbilancia.
Albertine finì di sistemarsi il velo. Non c’erano specchi, a Port- Royal, e si guardò nel vetro della finestra chinandosi appena. Con le dita fece sparire una ciocca nera dalla fronte. Era l’unica suora che avessi mai visto senza velo e la sola che mi piacesse a prescindere.
- Il fatto è che ti piace – disse.
- Chi? – domandai. Mi ero distratto – Chi mi piace?
- Blaise. Ti piace da morire, ammettilo. Vorresti essere come lui. Lo sai che scrive?
- Cosa? Chi? Scrive, Blaise? E che scrive?
- Ah non lo so – disse Albertine - Ha un quaderno segreto. Lo tiene nel tiretto dello scrittoio. L’ ho scoperto mentre riordinavo la stanza.
- E non lo hai aperto?
- Ci mancherebbe altro. Sopra c’era scritto “i miei pensieri”. E io non faccio parte dell’inquisizione, mi sembra.
Prima di andarsene mi baciò.
- Oh – disse – che non ti venga in mente di raccontare in giro questa storia. Era seria.
- Non ti preoccupare, Albertine. A Blaise non gli voglio mica creare problemi.
Appena fu uscita mi rivestii alla svelta. Dovevo dire la messa delle tre. Faceva freddo e mi sentivo strano e triste. Mi fermai con i calzoni in mano.- Stai scappando? – mi chiesi – stai scappando, maestro Arnauld? Ma non c’era risposta. 

C’era solo un altro bambino che mi dava delle preoccupazioni. Si chiamava Alphonse de Cligny, aveva otto anni ed era figlio di un nobile. Se non avessimo abolito l’istituto del primo della classe, quel titolo sarebbe toccato a lui. In aula di studio, Alphonse non mi toglieva mai gli occhi di dosso. Credo che ricordasse a memoria ogni mia parola. Quando leggevo i suoi componimenti rimanevo ammirato e inquieto. Aveva una grafia da bambino e uno stile da adulto. No, non è esatto: aveva uno stile da vecchio. Davanti a quelle righe di aspetto ingenuo e di contenuto astrattamente elevato mi sentivo perduto e mi veniva voglia di aprire la finestra anche in inverno. Sembrava di leggere gli scritti di un nano–prodigio. Per Alphonse il mondo e la vita non avevano più sorprese né attrattive. “ Noi tutti - aveva scritto una volta – siamo schiavi della concupiscenza e della stupidità. E’ per questo che l’uomo è infelice, perché desidera senza tregua cose senza valore: la ricchezza, gli onori, gli agi, i divertimenti.. Se capisse che tutto questo affannarsi non ha scopo alcuno, e che l’unica cosa che conta è l’eternità, sarebbe salvo per sempre. Invece la maggior parte delle persone cerca di dimenticarsi dell’unica cosa certa e duratura, che è la morte, distraendosi con le cose incerte ed effimere che il mondo gli offre e che nulla possono contro quella. Io mi impegno a non seguire questa strada. Voglio vivere senza mai dimenticare che devo morire.” E poi c’era anche questo:“ Mia madre mi ha messo al mondo nel peccato. Non poteva farne a meno. Nessuno può nascere senza che qualcun altro commetta peccato nella carne. E’ questo il segno della corruzione della natura umana, il vero significato e la principale conseguenza della colpa originale. Ma per l’uomo consapevole non tutto è perduto. Egli sa infatti che un peccato può essere cancellato da un peccato più grande.” Erano più o meno le cose che insegnavo io, solo che Alphonse le diceva meglio. Ma c’era anche qualcosa che non veniva da me: quell’idea che un peccato più grande potesse annullarne uno meno grave. Era un’affermazione strana, di sapore esoterico e di colore nero, e non sapevo spiegarmi da dove l’avesse presa. 

Un pomeriggio alla fine del mese, dopo la messa delle tre, gli dissi che volevo parlargli e lo portai nella mia stanza. Alphonse mi seguì senza dire una parola. Lo feci sedere sull’unica sedia e io restai in piedi. 
- Volevo chiederti una cosa – gi dissi, e gli mostrai il compito con quella frase sui peccati.- Vuoi leggere da qui, per favore? Alphonse mi guardò fisso negli occhi, poi abbassò lo sguardo sul foglio e lesse. Alla fine mi guardò nuovamente negli occhi. 
- Ecco- dissi – volevo sapere da dove hai preso questa idea. Non voglio dire che sia giusta o sbagliata. E’ un’idea come un’altra. Niente di che. Ma da dove ti è venuta? Niente elogi né critiche, nessuna manifestazione di sorpresa che potesse compiacere la sua vanità. Era lo stile di Port- Royal. Ma con Alphonse era proprio superfluo. Alphonse non la conosceva affatto, la vanità. 
- Dalle scritture- rispose senza esitare – è il sacrificio di Gesù. L’uomo era caduto nel peccato originale e per redimerlo è stato necessario che venisse commesso un peccato ancora più grande. Solo così poteva esserci la salvezza
- E quale sarebbe questo peccato più grande?- gli chiesi. Avevo paura. Alphonse mi guardo serio serio. Forse pensava che volessi esaminarlo. 
- L’uccisione di Gesù, maestro Arnauld. La crocifissione. Non esiste un peccato più grande. Ma solo così si poteva cancellare il peccato originale. E salvarci. Quindi, il peccato più grande annulla quello più piccolo. 
- Ho capito Alphonse, ora puoi andare – gli dissi, e lo congedai quasi di fretta. Restai da solo in camera qualche minuto per cercare di cancellare dalla mia mente ciò che avevo visto. Ma non era sbagliato fare così? Non era vietato distrarsi? Versai la brocca nel catino e immersi la faccia nell’acqua fredda. Mi bruciava. 

Il giorno dopo, verso le quattro, andai a trovare Blaise nella sua stanza. Entrai senza bussare, come usava a Port- Royal. Blaise girò la testa verso di me e, con estrema calma, infilò nel cassetto dello scrittoio un grosso quaderno sul quale stava scrivendo. Chiuse il cassetto e si alzò in piedi. 
- Maestro Arnauld – disse, e sorrise 
- Che stai facendo, Blaise? 
- Studio, maestro Arnauld. Che altro? - La penna d’oca oscillava ancora nel calamaio. 
- Siediti, Blaise. Voglio chiederti di fare una cosa per me
- Certo. Con piacere
- Siediti, però. Ecco, bravo. Stammi a sentire. Hai presente Alphonse de Cligny? 
- Come no. Quello che non parla mai
- Esatto. Proprio lui. Vorrei che tu, ecco… lo facessi giocare un po’. Dopo pranzo, magari. Invece di andare a riposare. Ti do il permesso io. Portalo nel parco e giocate un po’. Ti va? 
Blaise si accigliò per un istante. Pregai che fosse intelligente quanto pensavo. Lo era, sì.- Per me va bene – disse – anzi, benissimo. Ma non credo che lui vorrà. Quando gli parlo a volte nemmeno risponde. E poi a che giochiamo? 
- Sai giocare a nascondino? Ecco, giocate a nascondino. Se non lo conosce insegnagli tu. Poi farò in modo di procurarvi una palla. Giocate a palla, o a tirarvi i sassi, nel frattempo. A quello che vi pare, Blaise. Basta che lo fai giocare. 
- Una palla – disse Blaise – bè, maestro Arnauld, una palla è qualcosa. Niente male. Io ci sto. Ma speriamo che ci stia anche Alphonse. 
- – dissi – speriamo. Tu fai il possibile, Blaise. E adesso studia, hai capito? 
- Ma certo che studio, maestro Arnauld. Che altro dovrei fare? 
Uscii dalla sua stanza sentendomi un traditore. Non sapevo cosa avevo tradito, ma in ogni caso non mi dispiaceva averlo fatto. In quel momento desideravo stare solo con Albertine, ma chissà dov’era. Scesi nel parco e camminai fino al glicine. La campagna era coperta di nebbia, Versailles era invisibile. Il parco aveva i colori e la serietà dell’inverno. Pensai a Alphonse e a quel disgraziato di Blaise e pregai quel nostro strano e invisibile dio, che ci univa e ci divideva tutti, di dare una mano. E alla svelta, maledizione. 

Mi capitò una cosa che prima non era mai successa: durante le lezioni mi distraevo e perdevo il filo. Forse la maggior parte dei bambini non se ne accorgeva, ma Blaise e Alphonse sicuramente sì. Una volta confusi le lettere di san Paolo con l’Apocalisse. E poi mi sfuggì una frase infelice.- “Preferisco la misericordia al sacrificio” – dissi citando il vangelo – ricordatevelo, ragazzi. Blaise, Alphonse e anche gli altri. Qualche volta andate a giocare. Divertitevi un pò, ogni tanto Non è mica peccato. Davvero, non lo è, credetemi. Non ci furono repliche né domande. D’altra parte, non era nello stile di Port- Royal interloquire durante le lezioni. E io avevo preoccupazioni di tutt’altro genere per angustiarmi troppo di quei dettagli. 

Una mattina, molto presto, venne a cercarmi l’assistente del Rettore. Mi stavo ancora vestendo. 
- Maestro Arnauld, scusate per l’ora- mi disse- ma sua eccellenza vuole parlarvi subito
Monsignor Duprè mi aspettava nel suo studio. Accanto a lui, in piedi, c’era la madre superiora. Non aveva espressione e non mi guardava. Temetti il peggio. 
- Maestro Arnauld – disse il rettore – accomodatevi. Solo due minuti, non voglio sottrarvi al vostro lavoro. Sedetti di fronte a lui, dall’altro lato dell’enorme tavolo intarsiato. - Vengo subito al punto – disse monsignor Duprè – E il punto è questo: ieri pomeriggio, alle due e mezza, la madre superiora, passando per caso davanti a una finestra della cappella, ha notato che nel parco c’erano due allievi. Alle due e mezza, maestro Arnauld. Quella è l’ora del riposo pomeridiano. O no? 
- Certo – risposi – dalle due alle tre
- Perfetto- Duprè si passò un dito sotto al naso – perfetto. Non dubitavo. Ora, la madre ha subito incaricato un degli istitutori di verificare quello che stava succedendo. I ragazzi, a quanto pare, avevano un comportamento assai singolare. Uno dei due, quello un po’ strano, come si chiama? ma sì, Blaise, era inginocchiato dietro un cespuglio. L’altro, e sto parlando di Alphonse de Cligny, il figlio di monsieur de Cligny, aveva un braccio poggiato sul tiglio e la faccia premuta contro il braccio. Sono stato chiaro? 
- Ma certo – dissi – forse stavano giocando
- Naturalmente – disse Duprè – questo l’abbiamo capito tutti. E a che stavano giocando? 
- Non so. A nascondino, a occhio e croce. Almeno credo
- Esatto. Complimenti, maestro Arnauld. Proprio a nascondino. E’ quello che ci ha detto Alphonse de Cligny quando l’abbiamo interrogato. 
Lo guardai.- L’avete interrogato? E perché ? 
- Come perché? Per sapere cosa stavano facendo.
- E cosa stavano facendo? 
Il rettore si mise a ridere e guardò la madre superiora. Un lieve oscillare del busto mi rivelò che forse rideva anche lei. Non riuscivo a vederle gli occhi.- Maestro Arnauld – disse il rettore sempre ridendo – ma ce l’avete appena detto voi. Stavano appunto giocando a nascondino. 
- Certo – dissi – a nascondino. E allora? Cioè, Monsignore, con tutto il rispetto: perché lo viene a dire a me? Se i ragazzi hanno mancato non è colpa mia. Io sono il loro maestro, non il loro guardiano. C’è altro personale per questo. 
Il rettore smise di ridere e picchiò una mano sul tavolo.- Il fatto è – disse serio – che siete stato voi ad autorizzarli. Ce l’ ha detto Alphonse de Cligny. E a lui l’aveva detto quel, come si chiama? ah sì, Blaise. Guardi, non so cosa sia successo e non so perché sia successo. Voi , maestro Arnauld, siete un ottimo insegnante, ma questa volta avete sbagliato. In buona fede, ne sono sicuro, ma avete sbagliato. Avete permesso ai ragazzi di contravvenire alle regole. Avete creato un tempo libero che non ci deve essere. Port- Royal non è un asilo infantile. Qui non si gioca. Si girò un momento verso la madre superiora e poi tornò a guardarmi negli occhi. 
- Lo so- dissi – ma questa volta è diverso. Anzi, forse ho colpa di non averne parlato subito con lei ma…insomma, pensavo che con un po’ di svago…innocente, Alphonse magari…Mi interruppi. Non stavo dicendo niente. Duprè aspettava con aria perplessa.- Alphonse de Cligny – dissi – non sta bene. Ha scritto delle cose che mettono i brividi. Bisogna aiutarlo. Forse è il caso di avvertire il padre
- Alphonse de Cligny è in ottima salute – disse Duprè – e ho letto anch’io i suoi componimenti. Se non fosse contrario allo stile di Port – Royal, lo proporrei per una nota di merito. Certi allarmismi sono fuori luogo, maestro Arnauld. Comunque – concluse – i ragazzi hanno capito l’errore. E non lo ripeteranno. In ogni caso, la vostra autorità non è stata messa in discussione. Alla fine, hanno ammesso entrambi di aver frainteso. 
- Di aver frainteso – ripetei. 
- Esattamente – disse Duprè – e mi raccomando, non prendete altre iniziative del genere senza consultarmi. Anzi, non ne prendete affatto. Sono stato chiaro, maestro Arnauld? Mi alzai, mi inchinai senza rispondere e uscii da quel posto infame. Mi aspettavo di essere accusato per via di Albertine, certo, e sarebbe stata la fine. Ma quello che era successo era assai peggio. Raggiunsi l’aula e cominciai la lezione. 

Nei giorni seguenti feci il possibile per evitare Blaise. Non avevo il coraggio di guardarlo negli occhi. Sapevo che Blaise era perfettamente in grado di capire quello che era successo e che non ce l’aveva con me. Ma ero io che mi sentivo un vigliacco. Mi domandavo anche cosa stava capitando ora nella testa di Alphonse, e quanto male gli avevano fatto, quanto gliene avevamo fatto tutti quanti, me compreso. E avevo paura. 

Un pomeriggio di sole, mentre i bambini erano nel parco con Albertine, raggiunsi la stanza di Blaise. Mi sedetti al suo scrittoio, che mi andava piccolo, e tirai fuori il famoso quaderno. Lo lessi da cima a fondo due volte. Blaise era salvo, senza alcun dubbio. Su di lui non avevamo potuto nulla. Era ironico, sereno, libero. E geniale. Sentii qualcosa di caldo fluirmi nel petto. Port- Royal e quel ragazzino si fronteggiavano ma non ad armi pari, perché il più forte era lui. Ricordo una frase che mi fece particolarmente bene. “Se dio c’è – aveva scritto Blaise – non può essere quello che ci insegnano qui. Se dio c’è, sta altrove. Dio non è un allievo di Port.- Royal. Se lo fosse, non potrebbe essere dio. Dio non perderebbe tutto questo tempo a parlare continuamente di sé. Ogni tanto, parlerebbe anche di qualcun altro. ”E poi quest’altra: “M.A. è una brava persona. Non è come gli altri. Non ha mica il culo incollato alla sedia. E’ uno di quelli che a un certo punto prendono e se ne vanno. ”Ottimo, Blaise, figlio mio. 

Non successe più nulla fino all’antivigilia di Natale. I bambini aspettavano la festa con indifferenza e serietà, nello stile di Port - Royal. Il ventitre dicembre scesi nel parco la mattina presto, raggiunsi il glicine, guardai Versailles, mi feci una domanda senza risposta e alle otto ero in classe. Cominciai a fare l’appello ma mi interruppi subito. Il posto di Alphonse era vuoto. - Qualcuno di voi ha visto Alphonse de Cligny? – domandai. I bambini si guardavano l’un l’altro senza dire niente. Poi Blaise si alzò e si avvicinò alla cattedra.
- Stamattina sono passato a prenderlo in camera sua – mi disse – lo faccio sempre da un po’ di tempo. Ma lui non c’era. 
- E perché non mi hai avvisato subito? 
- Perché non sono una spia, maestro Arnauld. E tornò al suo posto. Feci chiamare un istitutore, gli dissi di badare alla classe e uscii a cercare Alphonse. Salii di corsa nella sua stanza. C’era già stato Blaise e quindi era inutile, ma forse volevo solo perdere tempo. La camera era in ordine, il letto già rifatto, i libri e i quaderni ancora sullo scrittoio. Li sfiorai con le dita. Tornando via, aprii a caso la porta di qualche altra stanza, meccanicamente, senza aspettarmi di trovarci niente, e non le richiusi. Forse era il caso di avvisare Duprè, pensavo, o Albertine, ma nello stesso tempo mi dicevo che in un caso o nell’altro sarebbe stato uguale e senza scopo. Mi affacciai ancora un momento dall’aula di studio, ma l’istitutore mi guardò e scosse il capo. Allora, riattraversando il cortile interno, uscii nel parco. Fuori era molto freddo, le piante erano bianche e immobili e forse già morte nella gelata. Camminai per un po’ sulla neve guardandomi intorno. Mi ricordai di quando avevo promesso a Blaise di procurargli una palla. E mi venne in mente una parola, l’unica parola naturale detta da Duprè quando ci avevo parlato. Cominciai a correre. Tagliai fra i sentieri, calpestando il roseto e l’orto disabitato, e mi immersi fino alle caviglie nello stagno delle ninfee. Poi attraversai delle spine , qualcuna mi graffiò la faccia, scivolai sul ghiaccio e sentii un gran male al ginocchio. Quando mi rialzai lo vidi. Il tiglio era l’albero più alto del parco, stava quasi al centro, fra cespugli di malva e ortica. Era grande e spoglio, usciva nero da tutto quel bianco come un fiammifero spento. Alphonse era lì, seduto con la schiena appoggiata al tronco e le gambe allungate. Aveva la testa abbassata. 
- Alphonse – chiamai. La neve era caduta dai rami e gli era finita in testa, formando una calotta banca che gli nascondeva i capelli. Mi abbassai per guardarlo in viso. Il ginocchio mi bruciava forte. 
- Alphonse, che ci fai lì? L’occhio destro era otturato dalla neve. L’altro era aperto e fissava qualcosa fra le gambe. Ma non c’era niente.- Alphonse. Gli presi una mano. Era coperta di brina. Subito dopo cominciai a urlare e in un attimo il parco si riempì di gente. 

Il medico mi fece un impacco d’erbe per il ginocchio e mi ordinò delle tisane. Passai natale a letto e in quei tre giorni non vidi nessuno, tranne una suora che mi portava da mangiare e mi cambiava l’impacco. Avevo l’impressione che di notte chiudessero la porta con la chiave. Nelle tisane c’era qualcosa che mi faceva dormire. Ogni tanto pensavo ad Albertine. Il ventisette mi svegliai presto e provai a mettermi in piedi. Potevo camminare, anche se zoppicavo un po’. Mi vestii lentamente. Alle sette venne la suora a portarmi il latte e la tisana del mattino. Si stupì di trovarmi già vestito. La ringraziai e le dissi che potevo fare da me. Ma dovetti insistere.- Grazie, sorella – dissi – sto meglio. Ce la faccio. Davvero, può andare. Indugiò ancora mentre io la guardavo a braccia conserte. Alla fine si ritirò di malumore. Bevvi il latte e versai la tisana giù dalla finestra. Il freddo era intenso e attorno era ancora tutto pieno di neve. L’orizzonte della campagna era sprofondato nella nebbia. 

Alle otto bussarono alla porta e Duprè entrò senza aspettare che dicessi avanti. Con lui c’era la madre superiora. Mi abbracciò.- Come va? Maestro Arnauld…La suora fece un minuscolo inchino con la testa senza dire niente. Duprè sedette sul letto ancora disfatto. Io restai in piedi.- Ho saputo che stava un po’ meglio - disse – ma volevo vedere di persona. Gli risposi che stavo bene e che ero guarito.- - disse Duprè con un breve sorriso – questo magari lo lascerei decidere al medico. Lo faccio venire subito. E si girò vero la madre superiora. 
- La ringrazio – dissi – ma non ce n’è bisogno. Mi sono riposato in questi giorni. Non ho fatto che dormire. Ora mi sento in forma. Sul serio, monsignor Duprè, non si preoccupi. E lo informai che alle nove volevo dire messa nella cappella. Percepii un lieve movimento della madre superiora. Se avesse avuto una qualsiasi espressione, poteva essere rabbia.
- Questo è lodevole da parte sua – disse Duprè – ma…insomma maestro Arnauld, con la gamba in quelle condizioni, e poi… insomma, la faccenda di Alphonse ha avuto degli strascichi. Lei non c’entra, per carità, questo noi lo sappiamo, ma monsieur de Cligny ha preteso dei chiarimenti. E’ un uomo importante. Ha molte conoscenze a corte. 
Mi colpirono le parole “faccenda” e “strascichi”. Mi sembravano simili al rumore dei chiodi sulla bara di Alphonse, che non avevo sentito. 
- Per quanto mi riguarda – dissi – sono pronto a prendermi tutta la colpa. Alphonse si è ucciso a causa delle cose che gli insegnavo io
- Ucciso? – monsignor Duprè scatto in piedi – maestro Arnauld, ma che sta dicendo? Alphonse è morto di polmonite. Il medico è stato chiarissimo su questo punto. Si era avventurato fuori per giocare e non si è reso conto del freddo. Era anche vestito leggero. Il freddo lo ha…ecco, lo ha addormentato. E poi una polmonite fulminante. Così ha detto il medico. Duprè era rosso in volto. Afferrò la ciotola vuota del latte.- L’ ha bevuto questo? – mi chiese. Risposi di sì. - Bene. Allora adesso vorrà riposare. Maestro Arnauld, io capisco che tutto ciò l’abbia terribilmente addolorata. E chi ci vorrà tempo perché lei recuperi la sua…lucidità, ecco. Tutti, tutti siamo sconvolti, a Port- Royal.. E le siamo vicini. Aspetti ancora qualche giorno, dia retta a me. .Si riprenda del tutto. E preghi, certo, preghi. La preghiera aiuta. Ma per ora, niente messe né lezioni. Si alzò- Ormai è quasi tutto chiarito – aggiunse senza guardarmi – la colpa è unicamente dei sorveglianti. Non si sono accorti della fuga di Alphonse. Forse dormivano, non lo so. Ma era già successo, ricorda? quando Alphonse e quell’altro, ma sì, Blaise erano usciti nel parco a giocare a nascondino. Lei stesso mi disse che la responsabilità era del personale di sorveglianza. E aveva ragione. Anche se li aveva autorizzati lei. L’inchiesta è ancora in corso. Ma secondo me, in due o tre giorni risolviamo tutto. Coraggio. Mi battè una mano sulla spalla e uscì. La madre superiora lo seguì senza fare un gesto. Non chiusero la porta a chiave, ma tanto era inutile. Stavano facendo un ottimo lavoro. Ancora due o tre giorni, e Port- Royal sarebbe tornato alla normalità. Mi domandai chi avrebbe fatto lezione ai ragazzi nel frattempo. Duprè, sicuramente. O la madre superiora. Ma parlava, quella? A parte quando doveva fare la spia, naturalmente. Mi stesi sul letto. Avevo una voglia furiosa di stare con Albertine. E mi dispiaceva non poter dire messa. Non che significasse qualcosa in sé, ma era l’ unica cosa che mi veniva in mente per fare finta, almeno per un po’, che Alphonse non fosse morto. 

… da due giorni non riuscivo a incontrare Albertine. Il terzo giorno si presentò in camera mia verso le tre. Entrò senza bussare. 
- Albertine, devo dire messa
- La dici dopo. La messa può aspettare. Io ho solo dieci minuti. Ma erano più che sufficienti. Dopo, avevo ancora voglia. Cercai di nuovo i suoi seni. Albertine mi fermò la mano e me la strinse. Sembrava diversa dal solito.
- Ascolta – disse – ascolta bene quello che ti dico. Te lo dirò una volta soltanto. La sua mano era fredda. Chinò la testa sulla mia mano. - Mi vuoi sposare? Maestro Arnauld, mi vuoi sposare? Rispondimi. O sì o no. Rispondimi ora. 
- – dissi – ti voglio sposare. Certo. Lo sai. Ma io sono un prete e tu una suora. Non è una novità. Dura da un sacco di tempo. Siamo stati anche bene qui. Cosa vuoi che faccia? Vuoi che scappiamo da Port- Royal ? Vuoi che lasciamo tutto? Albertine si vestì di fretta. Non disse più nulla fino a quando non si fu sistemata il velo guardandosi nella finestra. Poi si voltò verso di me. 
– disse – non me ne importa più. Questo è un cimitero. Io non ho voglia di farmi seppellire qui, è troppo presto per me. Tu fai come vuoi. Ma vieni con me, maestro Arnauld, amore mio. E’ meglio così. Te lo giuro. Ci aiuta Angela
- Suor Angela? Che c’entra suor Angela? 
- Non c’è più suor Angela. Non ci sono più suore a Port – Royal. Sono scappate tutte con i loro uomini. Pensavi che io e te fossimo gli unici amanti qui dentro? Povero scemo. Ora se la spassano a Parigi. Angela viene stasera a prenderci con una carrozza. 
- E Duprè? – dissi – Quello ci cerca fino in capo al mondo. Albertine scoppiò a ridere e non si fermava più. Non riusciva a trattenersi, si agitava tanto che a un certo al punto il velo si staccò e cadde in terra, ma lei non lo raccolse. Allora mi meravigliai di quanto fossero diventati lunghi i suoi capelli. Le arrivavano alla cintura. 
- Duprè – disse – se n’è andato anche lui. Con la madre superiora. Ora vivono a Marsiglia. Lui gestisce un bordello. Lo faceva anche prima, a quanto pare
- E tutti gli altri? 
- Svegliati, Arnauld. Qui non c’è più nessuno. Ci siamo rimasti solo noi. Vieni a vedere. E spalancò la finestra. Fuori c’era un sole immenso, che riempiva la metà del cielo. Il parco era affondato nella luce e nel calore. Le piante e gli alberi erano secchi, bruciati, e tutto era morto. Vidi dei cani rotolarsi nello stagno secco delle ninfee e poi mordersi l’un l’altro con furia, come se avessero fame di se stessi. 
- Com’è possibile – dissi – in così pochi giorni. E anche i tuoi capelli
- Non sono pochi giorni – rispose Albertine – è tutta la vita. E i miei capelli sono così perché non li ho più tagliati. Sono dieci anni che non li taglio. Se una cosa la lasci perdere, cresce. Guardai ancora nel parco. C’era qualcuno. Stava seduto sotto il tizzone spento dell’albero di tiglio. Aveva un cappello bianco e giocava con una palla facendola rimbalzare accanto a sé. 
- Ma quello è Alphonse – gridai – Alphonse! Allora non è vero che è morto! Sta giocando con la palla di Blaise. Alphonse! Mi sporsi dal balcone e lo chiamai ancora. Agitavo le braccia verso di lui, lo volevo prendere in braccio. Albertine mi afferrò per la spalla. 
- Piantala Arnauld, sei patetico. Alphonse è morto stecchito. 
- Ma se è lì – gridai – non lo vedi che è lì? Alphonse! 
- Sì che lo vedo. E’ l’unico rimasto. E’ un morto, ed è il guardiano di Port- Royal. Perciò sta lì. Andiamo via prima che si accorga di noi, Arnauld. Ce l’ ha a morte con noi. 
- Lo so. E’ stata colpa mia. Sono stato un vigliacco. Dovevo difenderlo
- Questo non c’entra niente, scemo – disse Albertine – ce l’ ha con noi perché qui dentro io e te ci siamo anche trovati bene. E questo che non sopporta. E se ci trova ci mangia vivi. Li hai visti i cani? 
Io mi girai verso di lei. Albertine aveva i capelli tutti bianchi, e le rughe… 

Mi svegliai tutto bagnato e feci una gran fatica per rimettermi a respirare. Nella stanza era quasi buio, doveva essere pomeriggio tardi. Avevo freddo. Insomma era nel latte, maledizione, non nelle tisane, quelle erano a posto. Mica stupidi, però. Mi alzai e accesi il lume ad olio. Mi sciacquai la faccia nel catino. Il ginocchio andava molto meglio. Recuperai il respiro normale. Avevo fame. Provai la maniglia e vidi che la porta era aperta. Mi avviai lungo il corridoio, orientandomi sulla mia ombra alla luce fioca delle candele, e scesi nel refettorio. Era ancora presto per la cena, la sala era vuota, ma avevano già apparecchiato. Sentivo rumori dalla cucina. Mi sedetti al mio posto, a capotavola.- Voglio mangiare – dissi ad alta voce. Una suora venne fuori dalla cucina. Mi sorrise. 
- Maestro Arnauld – disse – che ci fa qui? E’ presto. Se torna in camera, le porto subito qualcosa. 
- No – dissi – voglio mangiare qui. Adesso. Per favore, sorella. Quello che c’è. Un po’ di carne magari. E del vino
- Vino ? – fece la suora – Ma non abbiamo vino, quando mai? Maestro Arnauld, torni in camera, la prego. Non mi faccia avere dei guai
Mi voltai a guardarla. Era giovane, sicuramente una novizia, erano loro a fare servizio in cucina. 
- Non è vero che non abbiamo vino. Quando dico messa, secondo lei cosa ci metto nel calice? Vada in cappella e prenda il vino della messa. Ce n’è un piccola botte nella sagrestia. Oppure, in camera di monsignor Duprè. O nella cella della madre superiora. Loro ne hanno. Ma se ha paura, ci vado io
- Maestro Arnauld… - disse la suora. 
- Va bene – dissi – lasciamo perdere il vino. Ma mi porti la carne. E il pane. E l’ acqua, per favore. Dopo cinque minuti mi portò un piatto di arrosto e una pagnotta. Poi tornò con una caraffa d’acqua. Mangiai di buon appetito, masticando con piacere la carne ben cotta e accompagnandola con il pane. 

Insomma, ero l’unico. Port- Royal era tutta sulle mie spalle. Port – Royal ero io. I vivi e i morti dipendevano da me. Mi avevano lasciato insegnare perché ero il più bravo e avevano fatto i loro conti. Io formavo i bambini, li addestravo ad essere dei futuri maestri Arnauld. E anche loro, da grandi, avrebbero trovato un compromesso, una distrazione o un compenso supplementare alla teologia e alla devozione sotto forma di un’Albertine o di un’Albert, a seconda dei gusti. Ma questo non aveva importanza. Tutti abbiamo le nostre debolezze. La salvezza non viene dalle buone azioni, ma dalla fede. Pecca più forte che puoi, e credi più forte che puoi. E nelle pause fotti, perché no. I bambini erano tristi: e allora? Da grande sarebbero diventati uomini seri e attenti. Gente che guardava al sodo, come Duprè e la madre superiora. Polmonite, non dolore. Gli Alphonse sarebbero sempre esistiti, quelli che prendono tutto alla lettera e si macerano sui versetti . Tipi di quel genere distruggono se stessi, mica gli altri. Non servono e danno noia. Meglio se si fanno fuori da soli, a un certo punto. Così che l’esigua e utile stirpe dei maestri Arnauld possa ancora prosperare su questa terra fino alla fine dei tempi. 

Mangiai tanta di quella carne e tanto pane che alla fine uscii nel parco e vomitai tutto. Il freddo mi fece bene. Tornai nella mia stanza, bevvi un sorso d’acqua dalla brocca e poi andai a cercare Albertine. Entrai nel convento. Le suore mi guardavano con spavento. Ne fermai una.- Dov’è Albertine? Tirò indietro le braccia e scappò via. Nessuna mi rispondeva, si limitavano ad appiattirsi verso il muro quando passavo. - Insomma, dov’è Albertine ? gridavo. 
A una svolta del corridoio incontrai la madre superiora. - Maestro Arnauld – mi disse senza espressione nella voce – esca subito. Lei non sta bene. Ora faccio chiamare il medico
- Vuole che faccia una gita sotto la neve come Alphonse ? – dissi – Dov’è Albertine? 
Non rispose più nulla. Rimase immobile con le mani strette sotto la tonaca. Me la lasciai alle spalle e continuai a percorrere i corridoi chiamando Albertine.- Albertine! 
Le porte delle celle si aprivano e si richiudevano subito , uno sguardo e via. Il colore bianco e grigio dei veli. Almeno, stavo facendo qualcosa che non avrebbero dimenticato. - Albertine! In ultimo venne fuori dalla sua cella, che non avevo mai visto, al secondo piano. Sembrava che uscisse per caso e senza fretta. Camminava verso di me come se io non ci fossi. Le misi le mani sulle spalle per fermarla. 
- Ti sono cresciuti i capelli? – le chiesi – E’ una settimana che non ti vedo. Vuoi sposarmi? 
Le mie parole mi sorpresero. Non pensavo che le avrei domandato proprio quello, Albertine mi guardò con un sorriso terribile. Era molto bella. 
- Ciao, maestro Arnauld. Ma che straordinaria trovata. Ottimo, non potevi fare di meglio. Tu proprio non ci sai stare al mondo, è vero? Ma io sì. Lo disse sussurrando e durò due secondi al massimo. Poi mi scansò e scomparve. Nessuno l’aveva sentita. Non la inseguii. Continuai a camminare fino alla scala che dava all’esterno, spalancai la porta con un calcio e tornai nel parco. Stavo scappando.

Non ho più saputo nulla di Blaise. Recentemente, mi è capitato fra le mani un libro di un autore che porta il suo nome con un cognome diverso. L’ ho letto, e ho fantasticato a lungo che si trattasse di lui. E’ un libro di successo. Questo Blaise è stato a Port- Royal, non c’è dubbio. E se invece non c’è stato, è riuscito ad immaginare ciò che noi eravamo con una precisione e una lungimiranza che solo i grandi scrittori possono avere. Perciò, potrebbe trattarsi proprio del mio Blaise. Il libro mi fa compagnia tutti i giorni, ormai. La mattina, quando scendo al porto a fare la mia solita passeggiata, lo infilo nella tasca del cappotto. Amburgo è una bella e strana città . Ti lasciano vivere e non ti danno tropo fastidio. Io mi guadagno da vivere insegnando il francese ai figli dei commercianti di qui. Non mi vogliono né bene né male. Gli sono utile, ecco tutto. Mi pagano regolarmente e ogni tanto mi regalano un tacchino o una pollastra. In cambio, io leggo loro qualche passo del libro, quando li vedo troppo stanchi. Si divertono ad ascoltarmi. Ma leggo quasi sempre le stesse frasi. Ad esempio dove dice: “il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce.” Ci torno su di continuo e poi dico: 
- Ragazzi, il cuore: che parola scema, non vi sembra. Cosa ne pensate? 
- Ach, Meister
E I bambini ridono, forse per farmi piacere, forse perché sono vecchio e un po’ scemo. O perché sanno che subito dopo li mando fuori a giocare. 




su Althusser - Stefano Garroni -

http://www.filosofico.net/althusser.htm

giovedì 27 febbraio 2014

IL MARXISMO DI PAUL MATTICK



Le opere di Mattick pubblicate in Francia hanno avuto scarsa eco e nessun commento favorevole. Non c’è da stupirsi, poiché gli scritti di questo vecchio radicale tedesco, del tutto indifferente alle fisime degli intellettuali, sono una vigorosa denuncia dei miti e delle ideologie, la cui fioritura ha accompagnato il lungo consolidamento del capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale. Anche negli anni in cui il capitalismo in Germania, in Italia e in Giappone passava di "miracolo in miracolo", Mattick non ha assolutamente creduto che le politiche Keynesiane o neo-keynesiane mettessero in discussione le previsioni di Marx sulle contraddizioni e i limiti dell'accumulazione del capitale. Ma, soprattutto, Mattick non ha solo perseverato nel contrapporre Marx a Keynes, ma ha pure, e ciò è molto meno scontato, opposto Marx a tutti coloro che pretendono di parlare in suo nome. I pretesi continuatori di Marx non sono altro che i suoi epigoni, colpevoli nel modo più assoluto di aver affossato, dalla fine del XIX secolo, il significato del marxismo, rifiutando di vederci una teoria del crollo del capitalismo o deducendo il crollo da presupposti che non erano quelli di Marx. (Pierre Soury - Pag 172)                                                                                                                                                 
Marx, laddove esamina le conseguenze ultime dello sviluppo del macchinismo rispetto agli elementi costitutivi del rapporto capitalistico di produzione ... sembra porre un problema squisitamente astratto, poiché la realtà capitalista, allora, era ancora lontana dalla situazione limite, che egli si sforzava di analizzare. La nascita e lo sviluppo dell’automazione hanno oggi ridotto in modo significativo questa distanza, e i problemi che porrebbe al capitalismo una decrescita continua del lavoro produttivo tende a diventare sempre di più un problema attuale e concreto. Il poderoso sviluppo tecnologico, cui è giunto il capitalismo nel corso degli ultimi decenni, non consente al sistema di travalicare le contraddizioni dell’accumulazione e, agli occhi di Mattick, rappresenta solo una fuga in avanti che – supponendo che debba proseguire – avrebbe il solo effetto di avvicinare sempre di più il regime capitalista ai suoi limiti storici. (Pierre Soury - Pag 174)                                        
Mattick si guarda bene dal pronosticare che, dagli abissi della società «unidimensionale», la crisi faccia risorgere rapidamente la lotta rivoluzionaria, come se la combattività e la lucidità politica del proletariato si debbano elevare in funzione inversa al calo della redditività. Mattick appartiene a una generazione che non ha l’ingenuità di credere che la rivoluzione appare non appena il capitalismo entra in crisi. La rivoluzione, dice, non è mai una certezza ma non è neppure un «semplice sogno marxista», perché se il proletariato non può farsi affossatore del capitalismo, e non ne concepisce l’idea stessa durante le fasi in cui il sistema riesce a consolidarsi – ritrovando la capacità di accumulare –, nessuno può dare un giudizio preventivo su quanto avverrà, se si conferma che le contraddizioni del regime sfasciano i fondamenti economici su cui è stata costruita la società integrata. Il catastrofismo di Mattick non è tanto più ottimista di quello di Marx o anche di Rosa Luxemburg. Ma non è neppure tanto disperato. ( Pierre Soury - pag 175)
http://www.contra-versus.net/uploads/6/7/3/6/6736569/un_omaggio_a_paul_mattick__contra-versus.pdf

venerdì 21 febbraio 2014

Le principali teorie economiche - Riccardo Bellofiore

Da:  UniBgTube - puntorosso.it - Riccardo-Bellofiore è un economista italiano


Sulla Dialettica Logica di Evald Ilyenkov - (1974) -


From the History of Dialectics

 Il compito, tramandatoci da Lenin, di definire una logica (con una “L” maiuscola), cioè di procedere ad una esposizione sistematicamente sviluppata della comprensione dialettica come logica e teoria della conoscenza del materialismo moderno, è oggi particolarmente urgente. Il carattere marcatamente dialettico dei problemi aperti in ogni ambito della vita sociale e della conoscenza scientifica rende sempre più chiaro che solo la dialettica marxista-leninista ha la forza di costituire il metodo della comprensione scientifica e dell’attività pratica, e aiutare gli scienziati nella comprensione teorica dei dati fattuali e sperimentali e nella soluzione dei problemi che essi incontrano nel corso della ricerca.

    Negli ultimi dieci o quindici anni, ben pochi lavoro sono stati scritti rivolti a separare le branche che sono parti dell’intero che noi solo sogniamo; essi possono appena essere considerati come paragrafi, persino capitoli, della futura Logica, come blocchi più o meno completi dell’edificio che deve essere eretto. Non si può, naturalmente, cementare tali blocchi meccanicamente in un insieme; ma dato che il compito di una esposizione sistematica della logica dialettica può essere svolto solo con uno sforzo collettivo, dobbiamo almeno determinare i principi più generali del lavoro d’insieme. Negli studi qui presentati tentiamo di concretizzare alcuni punti di partenza per tale lavoro collettivo.

 

In filosofia, più che in ogni altra scienza, come Hegel ricordava con qualche contrarietà nella sua Fenomenologia dello Spirito il termine o il risultato finale sembra…dover assolutamente esprimere il fatto completo stesso nella sua reale natura; in opposizione ad esso il mero processo di portarlo alla luce, sembrerebbe, propriamente parlando, non avere significato essenziale”.

sabato 15 febbraio 2014

Hegel - La Fenomenologia dello spirito - Antonio Gargano


«Del resto non è difficile a vedersi, che la nostra è un’età di gestazione e di passaggio ad una nuova era». Hegel ha piena consapevolezza che noi viviamo in un’età di trapasso in cui vecchie certezze si sono sgretolate e nuove certezze non sono nate. «Lo spirito ha rotto con quello che è stato fino ad ora il mondo del suo esserci e del suo rappresentare; esso è in procinto di calare tutto ciò nel passato, ed è impegnato nel travaglio della sua trasformazione». Viviamo troppo al di dentro di una trasformazione per rendercene conto: c’è un travaglio doloroso, che sembra implicare solo disgregazione, ma che è la preparazione di una nuova era: «In verità esso non è mai in quiete, ma è preso da un movimento sempre progressivo. Ma allo stesso modo che nel bambino [vuol dire nel nascituro, nel feto] dopo un lungo e silenzioso periodo di nutrizione, il primo respiro interrompe – con un salto qualitativo – il processo graduale di quello sviluppo soltanto quantitativo, ed allora il bambino è nato, così lo spirito in via di formazione matura lentamente e silenziosamente verso la sua nuova figura». Anche se non ce ne accorgiamo, l’epoca storica sta, faticosamente, per partorire qualche cosa di nuovo, però, appunto, secondo una delle leggi della dialettica, la quantità all’improvviso si trasforma in qualità, cioè si accumulano prima gradualmente le condizioni di un cambiamento e poi il cambiamento sboccia all’improvviso. Non ci rendiamo conto che viviamo in un’epoca di trasformazione, in cui si stanno accumulando le condizioni di una nuova nascita; sentiamo ogni tanto i gemiti di un parto che sta per venire, non lo abbiamo ancora visto, «ma io sono certo, dice Hegel, che lo spirito, cioè il divenire dell’uomo, sta per generare una nuova era, che poi sboccerà all’improvviso». Hegel è un filosofo rivoluzionario, per lui la storia presenta discontinuità: procede silenziosamente per anni, anche per secoli, poi, all’improvviso, emerge un’epocanuova.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                [...] Lo spirito non è qualche cosa di passeggero, di destinato ad essere sconfitto, a essere sorpassato: lo spirito dà luogo a creazioni permanenti. Lo spirito è il momento più alto perché è il momento in cui la comprensione dell’uomo si attaglia pienamente alla realtà, quindi dà luogo a costruzioni che rimangono, a quelle che Hegel chiama “seconda natura”. Nello spirito l’uomo è creatore. L’uomo si trova di fronte la natura, ma crea un altro mondo, una seconda natura, che è il mondo del diritto, della famiglia, dello Stato, dell’arte, della religione, della filosofia. Lo spirito non è transeunte, non è destinato ad essere sconfitto; esso si radica nella realtà, perché corrisponde al momento più alto di comprensione dell’uomo, che veramente afferra la realtà con la sua ragione e si riesce a radicare nella realtà, riesce a impiantarvi qualche cosa di duraturo, che Hegel chiamerà nella Filosofia del diritto “seconda natura”, nel senso che è quasi una seconda creazione. Le creazioni mature dello spirito sono i grandi sistemi religiosi. I grandi sistemi religiosi cercano di cogliere l’assoluto e di organizzare popolazioni intere intorno a credenze che rimangono nei secoli, se non nei millenni, ma le religioni sono solo il penultimo stadio dello spirito, perché esse colgono l’assoluto, il divino, l’infinito, in una maniera inadeguata, ancora legata al mito, alla rappresentazione. Lo sviluppo supremo dello spirito, l’ultimo stadio della Fenomenologia, è il sapere assoluto, cioè il momento in cui l’uomo capisce, al di là della religione, che l’infinito, il divino, l’ideale, sono perfettamente razionali, hanno una forma razionale, e quindi devono essere capiti allo stesso livello, cioè nella forma della ragione.                                                                                                 http://www.iisf.it/scuola/idealismo/Hegel_fen.htm

sabato 1 febbraio 2014

Su Hegel politico. - Stefano Garroni -


In italiano possiamo dire <quella persona non ha carattere>, per intendere che su quella persona non si può contare - in particolare nel caso si tratti di assumere un qualche atteggiamento deciso, di mostrare una certa risolutezza e volontà  e continuità nella decisione presa. Una persona che non ha carattere ha in sé qualcosa di indefinito, non è né questo né quell’altro ed, in tal senso, possiamo anche dire che <quella persona non esiste>, appunto perché né è definibile in modo sufficientemente preciso, né ha ‘il polso’, la ‘robustezza morale’, che ci si attende da una persona, che sia effettivamente tale.

Tuttavia, potremmo (e dovremo) dire che quella stessa persona tuttavia esiste: però nel senso particolare, che mi sembra ben precisato in questa pagina, scritta da Sartre nel 1943:
“(la persona) è in quanto evento, nel senso che posso dire che Filippo II è stato; che il mio amico Pierre è, esiste; è in quanto compare in una situazione che egli non ha scelto; in quanto Pierre è un borghese del 1942 e Schmitt era, invece, un operaio berlinese del 1870; egli è, perché gettato nel mondo, abbandonato in una ‘situazione’; è, in quanto pura contingenza; è nella misura in cui –per lui, come per tutte le cose di questo mondo -per questo muro, per questo albero, per questa tazza-, è legittimo porsi la questione originaria <perché questo essere qui è così e non altrimenti?> Esso è nella misura in cui vi è qualcosa di cui esso stesso non è il fondamento, ovvero la sua                                                                             presenza al mondo.” [1]

Lo sappiamo, al senso ed al linguaggio comuni può capitare di trasmettere, sia pure in modo largamente inconsapevole, una saggezza,  a volte perfino profonda  -ed è questo, appunto, che capita nel nostro caso.

Cosa ci insegna, infatti, quel comune uso linguistico, che abbiamo richiamato e che stiamo esaminando?

Che una persona mancante di carattere non esiste propriamente; ma, anche, ci mostra come questo sia un giudizio che generalmente diamo di persone, le quali in un altro senso -ovvero empiricamente- tuttavia esistono, son presenti, stanno lì, possono essere indicate a dito; ovvero, persone di cui potremmo scattare una foto, che potremmo sentir parlare, ecc.