*Da:
*Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/05/luciano-canfora-la-schiavitu-del.html
La teoria Marxista poggia la sua forza sulla scienza... che ne valida la verità, e la rende disponibile al confronto con qualunque altra teoria che ponga se stessa alla prova del rigoroso riscontro scientifico... il collettivo di formazione Marxista Stefano Garroni propone una serie di incontri teorici partendo da punti di vista alternativi e apparentemente lontani che mostrano, invece, punti fortissimi di convergenza...
giovedì 17 agosto 2017
mercoledì 16 agosto 2017
L'inchiesta operaia*- K. Marx (1880)
Vedi
anche: - Istruzioni
per i delegati del Consiglio Centrale Provvisorio dell'Associazione
Internazionale dei Lavoratori
- Lettera
di Marx a Sorge
- Considerazioni preliminari e Programma minimo del Partito operaio francese
- Considerazioni preliminari e Programma minimo del Partito operaio francese
Premessa -
di Gianfranco Pala
Nel
presentare le 100 domande del "questionario" - meglio
conosciuto poi come inchiesta
operaia -
scritte di proprio pugno dal vecchio Marx, due anni e nove mesi prima
di morire, per conto dei compagni del partito
operaio francese,
e pubblicate sulla Revue
socialiste di
Benoît Malon [nel n.4 del 20 aprile 1880], ci è sembrato, più che
opportuno, indispensabile farle precedere da quelle pagine marxiane
che, già anni prima, le avevano delineate e preparate, e da quelle
altre considerazioni collaterali che ne accompagnavano il contesto
politico culturale. [Il solo testo dell'inchiesta fu già pubblicato
in italiano dai Quaderni
rossi nel
1963, ma appunto al di fuori di quel contesto che ne può spiegare
meglio genesi storica e significato politico. I materiali di
accompagnamento dell'inchiesta furono pure pubblicati in un volumetto
- Karl
Marx, Documenti, De
Adam, Parma 1969 - rimasto fuori del mercato e quindi praticamente
sconosciuto ai più. Recentemente la presente riproposizione di
una compiuta esegesi moderna dell'inchiesta
operaia è
stata pubblicata dalla rivista Invarianti,
n.25, settembre 1994].
Il
primo testo di riferimento è quello relativo alle Istruzioni
per i delegati del consiglio centrale provvisorio dell'associazione
internazionale dei lavoratori [il
consiglio si riunì a Ginevra nel settembre 1866, due anni dopo la
fondazione dell'associazione; gli atti furono pubblicati in The
international courier,
organo dell'Ail,
Londra 20 febbraio 1867]. La proposta originaria di una "inchiesta
statistica sulla situazione delle classi lavoratrici" si trova
lì formulata per la prima volta da Marx stesso, e articolata in uno
schema generale di 11 punti. Abbiamo ritenuto importante pubblicare -
unitamente a quella proposta che si trova in un paragrafo iniziale
sul "coordinamento internazionale" - anche i successivi
paragrafi delle medesime "istruzioni", in quanto
riguardanti temi centrali della condizione operaia e delle
rivendicazioni minime dei lavoratori della I internazionale. Non è
senza significato che codesti temi - strettamente connessi e
contestuali alla proposta dell'inchiesta - siano quelli
della riduzione
del tempo di lavoro,
della regolamentazione del lavoro
minorile,
dell'istruzione
di massa,
del lavoro
cooperativo,
del processo di emancipazione dei sindacati,
della questione dell'imposizione
diretta progressiva,
e della non professionalità degli eserciti.
Prima
di giungere all'anno della pubblicazione dell'inchiesta, cioè il
1880, è bene notare come le tematiche dell'inchiesta siano presenti
e sviluppate da Marx nella sua critica
dell'economia politica,
culminata nella pubblicazione del Capitale nello
stesso 1867. Per gli altri materiali di riferimento - rammentando che
tutti i successivi congressi dell'Internazionale, fino al 1871,
rinnovarono senza grande fortuna l'indicazione di promuovere
l'inchiesta statistica - passiamo dunque direttamente a quell'anno
1880. Stralci di una lettera
di Marx a Friedrich Adolph Sorge,
scritta da Londra il 5 novembre 1880, spiegano autenticamente le
ragioni dell'inchiesta in quella particolare fase di lotta politica
in Francia, in cui l'esigenza di un rafforzamento
dell'internazionalismo si collocava in un momento di ricerca di
alleanze interne in vista della ravvicinata scadenza elettorale. È
in quel contesto, come si legge nella medesima lettera, che Marx
scrisse le considerazioni
preliminari del
programma del partito operaio francese [pubblicato originariamente
in L'égalité,
organo collettivista rivoluzionario, Parigi, 30 giugno 1880]. Al
proposito così si espresse Engels: “di questo programma Marx, in
presenza mia e di Lafargue, nella mia stanza, ha dettato a Guesde,
che scriveva, le considerazioni
preliminari,
un capolavoro di ragionamento, convincente come non ne ho quasi mai
sentiti, da esporre alle masse in poche parole chiare, e che ha
stupito anche me per la sua concisione”.
Il
documento politico del Pof rientrava
in quell'ottica di programma
minimo che
già Marx, in passato fin da quando stava ancora in Germania,
riteneva come criterio d'azione rivoluzionaria in fasi e circostanze
non rivoluzionarie (e le elezioni politiche generali erano appunto
una di quelle circostanze). Abbiamo ritenuto significativo, come mera
documentazione storica, pubblicare anche il testo (non di Marx) di
quel programma
minimo del Pof,
apprezzato da Marx proprio per essere costituito da "rivendicazioni
nate realmente in modo spontaneo dallo stesso movimento dei
lavorator", contro tutti gli impostori, i settarî e i borghesi
radicali che, imponendosi come capi, ingannavano i lavoratori stessi.
Dalla lettera a Sorge - di più di un secolo fa! - si noti, come
curiosità a futura memoria, quale fosse la sola critica di Marx al
programma: egli rigettava, già allora e non senza derisione e
insofferenza, la richiesta intellettualistica (approvata su proposta
di Jules Guesde, solo da poco passato al marxismo) di salario
minimo garantito,
che definiva "lusinga infantile" al punto da vanificare
qualsiasi programma!
Si ringraziano i compagni de La Contraddizione
lunedì 14 agosto 2017
La colono-evangelizzazione dell’America Latina e i suoi risultati*- Alessandra Ciattini**
*Da: https://www.lacittafutura.it **Insegna Antropologia culturale alla Sapienza.

Un olocausto quasi mai menzionato come tale.
Per dar conto della seconda lezione del corso da me tenuto per l’Unigramsci (Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe) mi sembra calzante questo termine. Riprendo questa espressione dal teologo della liberazione latinoamericano Enrique Dussel, il quale – correttamente dal mio punto di vista – ha sempre sostenuto che non è possibile distinguere tra processo coloniale ed evangelizzazione, in quanto si tratta di due aspetti simultanei che si sviluppano di pari passo e si sostengono a vicenda. Del resto, gli stessi elogiatori dell’opera dei missionari, vedono in questi ultimi i veri apportatori della civiltà cristiana al Nuovo Mondo, con i suoi addentellati politici, sociali e culturali.
Sottolineato questo primo punto, che successivamente illustreremo più nel dettaglio, passiamo ad interrogarci sull’origine dell’espressione America Latina, perché ovviamente non si tratta di un’espressione neutra, ma nata all’interno di una determinata prospettiva politica e culturale. In particolare, fu il viaggiatore e intellettuale francese, Michel Chevalier che utilizzò nel 1836 l’espressione “latino-americanismo” per distinguere tra l’America anglosassone e protestante dall’America cattolica e latina (geograficamente il Messico appartiene al Nord America). In tali parole era condensata la volontà di espansione francese in quel subcontinente, giacché a quell’epoca era la Francia l’unica potenza internazionale e latina in grado di competere sia con l’espansionismo britannico che statunitense (dottrina Monroe 1824). Infatti, approfittando della guerra di secessione statunitense, Napoleone III aveva inviato in Messico il suo esercito, dove con un plebiscito era stato abbattuto il presidente Benito Juárez e proclamato l’impero. La corona del Messico venne offerta a Massimiliano di Asburgo nel 1864, il quale regnò per pochi anni incontrando l’opposizione dei liberali messicani capeggiati da Juárez e sostenuti dagli Stati Uniti. Inoltre, alla fine della guerra di secessione, fu abbandonato anche da Napoleone III, che ritirò l’esercito, e finì fucilato nel 1867 a Queretaro.
L’espressione “America Latina” era usata anche da alcuni intellettuali del subcontinente, ma allo scopo di sottolineare la specificità della regione e di respingere ogni forma di ingerenza esterna di fatto già operante. Infatti, l’America Latina si era resa indipendente dalla Spagna grazie all’aiuto della Inghilterra, assai interessata alle sue risorse materiali e al commercio con i nuovi paesi indipendenti E si stava già profilando l’ombra oscura dell’imperialismo statunitense, sotto forma di panamericanismo (America unita sotto l’egida degli Stati Uniti), prefigurato da José Martí e ribadito da vari documenti, tra cui menziono il corollario Roosvelt del 1904.

Un olocausto quasi mai menzionato come tale.
Per dar conto della seconda lezione del corso da me tenuto per l’Unigramsci (Storia religiosa dell’America Latina e del Caribe) mi sembra calzante questo termine. Riprendo questa espressione dal teologo della liberazione latinoamericano Enrique Dussel, il quale – correttamente dal mio punto di vista – ha sempre sostenuto che non è possibile distinguere tra processo coloniale ed evangelizzazione, in quanto si tratta di due aspetti simultanei che si sviluppano di pari passo e si sostengono a vicenda. Del resto, gli stessi elogiatori dell’opera dei missionari, vedono in questi ultimi i veri apportatori della civiltà cristiana al Nuovo Mondo, con i suoi addentellati politici, sociali e culturali.
Sottolineato questo primo punto, che successivamente illustreremo più nel dettaglio, passiamo ad interrogarci sull’origine dell’espressione America Latina, perché ovviamente non si tratta di un’espressione neutra, ma nata all’interno di una determinata prospettiva politica e culturale. In particolare, fu il viaggiatore e intellettuale francese, Michel Chevalier che utilizzò nel 1836 l’espressione “latino-americanismo” per distinguere tra l’America anglosassone e protestante dall’America cattolica e latina (geograficamente il Messico appartiene al Nord America). In tali parole era condensata la volontà di espansione francese in quel subcontinente, giacché a quell’epoca era la Francia l’unica potenza internazionale e latina in grado di competere sia con l’espansionismo britannico che statunitense (dottrina Monroe 1824). Infatti, approfittando della guerra di secessione statunitense, Napoleone III aveva inviato in Messico il suo esercito, dove con un plebiscito era stato abbattuto il presidente Benito Juárez e proclamato l’impero. La corona del Messico venne offerta a Massimiliano di Asburgo nel 1864, il quale regnò per pochi anni incontrando l’opposizione dei liberali messicani capeggiati da Juárez e sostenuti dagli Stati Uniti. Inoltre, alla fine della guerra di secessione, fu abbandonato anche da Napoleone III, che ritirò l’esercito, e finì fucilato nel 1867 a Queretaro.
L’espressione “America Latina” era usata anche da alcuni intellettuali del subcontinente, ma allo scopo di sottolineare la specificità della regione e di respingere ogni forma di ingerenza esterna di fatto già operante. Infatti, l’America Latina si era resa indipendente dalla Spagna grazie all’aiuto della Inghilterra, assai interessata alle sue risorse materiali e al commercio con i nuovi paesi indipendenti E si stava già profilando l’ombra oscura dell’imperialismo statunitense, sotto forma di panamericanismo (America unita sotto l’egida degli Stati Uniti), prefigurato da José Martí e ribadito da vari documenti, tra cui menziono il corollario Roosvelt del 1904.
domenica 13 agosto 2017
Tragedia come Paideia*- Eva Cantarella**
*Da: Teatro
Franco Parenti
** Eva_Cantarella ha insegnato Diritto romano e Diritto greco all’Università di Milano ed è global visiting professor alla New York University Law School.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/medea-migrante-eva-cantarella_15.html
** Eva_Cantarella ha insegnato Diritto romano e Diritto greco all’Università di Milano ed è global visiting professor alla New York University Law School.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/09/medea-migrante-eva-cantarella_15.html
La paideia era la formazione dell’ uomo greco cittadino, intesa come socializzazione a un insieme di valori e di precetti la cui trasmissione di generazione in generazione era considerata compito del cittadino. Il teatro era una delle istituzioni, se non la più importante tra le istituzioni, alle quali era affidata questa funzione.
Alcuni esempi tratti dall’analisi del Prometeo incatenato, dell’Antigone, dell’ Edipo re e dell’ Edipo a Colono.
Alcuni esempi tratti dall’analisi del Prometeo incatenato, dell’Antigone, dell’ Edipo re e dell’ Edipo a Colono.
venerdì 11 agosto 2017
G. W. F. Hegel: La fenomenologia dello Spirito*- Lucio Cortella**
*Micromega.Grandi opere filosofiche
**Professore ordinario Storia della Filosofia dell'Università di Venezia Cà Foscari
Prima parte:
Seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=6MSnBJXTVBo
**Professore ordinario Storia della Filosofia dell'Università di Venezia Cà Foscari
Prima parte:
Seconda parte: https://www.youtube.com/watch?v=6MSnBJXTVBo
mercoledì 9 agosto 2017
Siamo davvero in troppi?*- Manali Chakrabarti
*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com Link all’articolo originale in inglese Aspects of India’s Economy
La sovrappopolazione è la più grave crisi del pianeta?
Le
molteplici pressioni derivanti da una crescita senza vincoli della
popolazione impongono al mondo naturale pretese che possono
sopraffare ogni sforzo per giungere ad un futuro sostenibile. Se
vogliamo fermare la distruzione del nostro ambiente, dobbiamo
accettare dei limiti a tale crescita.
—World
Scientists’ Warning to Humanity, firmato da 1.600 scienziati di 70
paesi, inclusi 102 Premi Nobel, 1992 [1]
Introduzione
Il
mondo che ci circonda sembra in procinto di attraversare una crisi
senza precedenti – apparente scarsità di tutte le risorse
essenziali, incluse acqua, terra e cibo, crescente disoccupazione e
surriscaldamento globale. Il futuro del pianeta, probabilmente, non è
mai sembrato più nero. E a detta di un ampio numero di influenti
personalità – scienziati, accademici, politici, miliardari,
esperti appartenenti ad istituzioni internazionali – uno dei
motivi principali, quando non addirittura il motivo
principale, di questo vero e proprio disastro risiede nel continuo
incremento della popolazione.
La
popolazione mondiale ha superato i 7 miliardi e continua a crescere.
Istituzioni governative e non in tutto il mondo stanno spendendo
miliardi di dollari al fine di affrontare questa sempre più vasta
“crisi”. La popolazione del subcontinente indiano (India 1,23
miliardi, Bangladesh intorno ai 161 milioni e Pakistan 199 milioni) è
di circa 1,6 miliardi di abitanti; ovvero una persona ogni cinque
risiede in quest’area. Dunque, gran parte degli sforzi globali si
concentra sui poveri del subcontinente. L’India viene ripetutamente
comparata alla Cina, la quale, contrariamente alla prima, sembrerebbe
aver avuto successo nel prevenire le proprie masse da una
procreazione incontrollata.
Alcuni
cercano di ammorbidire la loro posizione ricorrendo a termini
eufemistici nel definire i propri obiettivi – come assicurare la
“salute riproduttiva” o elaborare “strategie di sviluppo e
della popolazione” [2]. Alcuni altri sono assai più bruschi.
L’eminente economista Jeffrey Sachs afferma: “il raggiungimento
dei 7 miliardi di abitanti è motivo di profonda preoccupazione a
livello globale… In breve, come possiamo godere di uno ‘sviluppo
sostenibile’ su di un pianeta così affollato?… La riduzione dei
tassi di fertilità andrebbe incoraggiata anche nei paesi più
poveri” [3]. Il noto editorialista Tom Friedman sostiene
semplicemente che “la Terra è SATURA” [4]. Comunque si
esprimano, il messaggio suona forte e chiaro: dobbiamo prevenire i
poveri da una riproduzione senza limiti che minaccia il futuro della
specie ed il pianeta nel suo complesso.
Considerato
che così tanti tra i “migliori e più brillanti” ritengono
essere la sovrappopolazione alla base i tutti i mali del pianeta, è
opportuno esaminare a fondo la questione.
martedì 8 agosto 2017
domenica 6 agosto 2017
Primo maggio*- Gianfranco Pala
*Da: http://www.webalice.it/gianfrancopala40/ http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
“...
però a quelli in malafede, sempre a caccia delle streghe, dico: no!
non è una cosa seria! non mettetemi alle strette, o, con quanto
fiato ho in gola, vi urlerò: non c’è paura! ma che politica, che
cultura, sono solo canzonette!...”.
Allorché il giovane Edoardo Bennato irrideva così al potere, nella
sua celebrazione di Peter
Pan, forse non pensava
di finire anche lui sul palco del “concertone” sindacale del
primo maggio, dove la tragica ricorrenza di una giornata di dura
lotta sindacale è finita – una seconda, una terza, un’ennesima
volta – nella farsa delle “canzonette”: ma che politica, che
cultura!E pensare che il 1° maggio – al pari dell’8 marzo – è nata come giornata di lotta, in ricorrenza di una tragedia proletaria. Ma si sa: il tempo sana le ferite (della borghesia!).
Otto ore: di lavoro, di svago, di riposo – questo fu lo slogan lanciato dai lavoratori australiani nel 1855, e fatto proprio dalla I internazionale (Ail) come “limite legale della giornata lavorativa” nel 1866 a Ginevra. Già il primo maggio dell’anno successivo, a Chicago, allora principale città industriale degli Usa, vi fu una manifestazione di massa. Senonché, nel 1877, ancora a Chicago, la locale confindustria organizzò un comitato cittadino di “giustizieri” per la “lotta armata contro le organizzazioni operaie”, dopo aver compilato “liste nere” degli scioperanti, i primi a dover essere almeno licenziati se non addirittura soppressi. Parallelamente invalse il principio padronale che vietava l’appartenenza dei lavoratori a qualsiasi sindacato operaio. Ciononostante le organizzazioni sindacali sorgevano spontaneamente e crescevano. La stampa già scriveva che ciò rappresentava “da parte del comunismo, una minaccia per tutta la società americana”, spingendo il potere a regolare definitivamente i conti con quei “nemici”.
sabato 5 agosto 2017
Le ipocrisie dell’ideologia liberale e il cosiddetto odio di classe*- Gianni Fresu**
*Da: http://www.giannifresu.it http://www.marx21.it **Università di Urbino. Universidade Federal de Uberlandia (MG/Brasil).
Nel parlamento brasiliano (ma la stessa discussione si sta insinuando anche in Europa) è stata presentata in questi giorni una proposta di legge finalizzata a punire penalmente l’apologia di comunismo, con la seguente argomentazione: “il comunismo avrebbe fatto un centinaio di milioni di morti”. Tralasciamo le considerazioni sulla natura grossolana di questa operazione, perché i simboli che si vorrebbero proibire (la falce e martello e i richiami alla tradizione teorica del socialismo) rappresentano un panorama incredibilmente variegato, non riducibile a una unica esperienza, all’interno del quale si situa con tutte le sue articolazioni la storia della lotta per l’emancipazione del mondo del lavoro. Nelle argomentazioni utilizzate si dice, “è necessario impedire l’istigazione all’odio e alla guerra di classe!” Farebbe sorridere, se non fosse tragica, un’affermazione simile, perché l’odio di classe è non solo istigato sul piano teorico ma concretamente praticato nelle nostre società occidentali, dall’alto verso il basso però. Come definire diversamente almeno quattro decenni di assedio ai diritti sociali e a quelli del mondo del lavoro tesi a favorire l’accumulazione dei capitali e la speculazione finanziaria? Come chiamare il vertiginoso aumento negli ultimi quaranta anni della forbice tra chi ha tanto (sempre sfacciatamente di più e in forme indecorosamente concentrate) e chi non ha nulla? Come classificare la sistematica spoliazione delle ricchezze dei cosiddetti Paesi “sottosviluppati” da parte di quelli ricchi, cui si aggiunge la beffa della limitazione della libera circolazione dei loro cittadini? Noi abbiamo avuto per secoli (e conserviamo ancora) il diritto di invaderli, sfruttarli e rapinarli, però non ai poveri del Sud del mondo non è concesso spostarsi dal deserto che abbiamo creato intorno a loro. Cosa sarebbe tutto questo se non odio e guerra di classe?
Si parla spesso in termini puramente retorici di libertà fondamentali, ma la prima di queste consiste nel diritto a non morire di fame, ignoranza e per assenza di cure sanitarie, dunque, se guardiamo alla realtà con una prospettiva meno edulcorata, possiamo tranquillamente affermare che queste sono negate alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale.
Oramai è diventato un luogo comune citare la discutibile contabilità dei lutti fatta (all’ingrosso) nel famigerato “Libro nero del comunismo”, nel quale vengono compresi anche i morti per guerre e carestie in gran parte dei casi indotte dall’esterno. Sarebbe ora, credo, di scrivere pure un “Libro nero del liberalismo”, Domenico Losurdo ha fatto nei decenni questo lavoro attraverso una puntuale critica storica e filosofica, manca però un banale libro in cifre, di semplice ragioneria politica del capitalismo. Se, infatti, usassimo gli stessi parametri adottati da Stéphane Courtois &Co., quante centinaia di milioni di morti dovremmo imputare all’espansione mondiale delle nostre relazioni sociali borghesi? Proviamo solo a pensare: le conseguenze storiche dell’accumulazione originale del capitale sulle sterminate masse rurali cacciate dalle campagne trasfromate in moltitudini mendicanti nelle grandi periferie urbane; lo sterminio dei popoli nativi nel Nord e Sud America, Asia e Oceania; i morti dovuti alla miseria e allo sfruttamento coloniale occidentale in Africa, schiavismo compreso; le infinite guerre imperialiste condotte negli ultimi due secoli in ogni angolo del pianeta per rapinare le risorse dei “popoli incivili”. Un’ecatombe, ben occultata nei libri o nelle trattazioni divulgative sulla storia dell’umanità. Anche questo conferma un punto già colto da Marx e Engels nella metà dell’800: è proprio nel terreno delle ideologie il vero successo della società borghese, così l’aver trasformato il mondo in un grande cimitero è presentato come affermazione dei principi di libertà e civiltà sulla barbarie. Il paradosso storico è che, pur essendo maestri di ideologia, i grandi e piccoli teorici del liberalismo fanno della critica alle ideologie la propria battaglia più caratterizzante. La conferma della loro capacità egemonica è che la maggioranza delle persone, dotata anche di una buona cultura, ci crede e la riproduce più o meno consapevolmente.
“Nell’economia politica la cosiddetta accumulazione originaria del capitale svolge la stessa funzione del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite dirigente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano gli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche di più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare[1]”
[1] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Editori riuniti, Roma, 1997, pag. 777.
venerdì 4 agosto 2017
Introduzione al Manifesto del Partito Comunista*- David Harvey**
*Da: http://www.controlacrisi.org - Introduzione al Manifesto del Partito Comunista, Pluto Press, 2008. Di David Harvey consigliamo caldamente l'ultimo libro L'enigma del capitale edito in Italia da Feltrinelli.
**David_Harvey è un geografo, sociologo e politologo britannico.

Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?
Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”. Ci troviamo certamente, come nel 2008, nel mezzo di uno di quelle periodiche crisi commerciali “che sottopongono a processo”, come nota ilManifesto, “ogni volta più minacciosamente l’esistenza dell’intera società borghese”. E le rivolte del cibo scoppiano dappertutto, in particolare in molte nazioni povere, con l’innalzamento incontrollato dei prezzi del cibo. Dunque le condizioni sembrano propizie per una rivalutazione della pertinenza del Manifesto. E’ interessante come una sua modesta proposta di riforma – la centralizzazione del credito nelle mani dello stato – sembra essere sulla buona strada per la sua realizzazione, grazie alle azioni collettive della Riserva Federale statunitense (FED), della Banca Centrale Europea (BCE), e delle banche centrali delle altre principali potenze capitaliste, nel salvataggio del sistema finanziario mondiale (i britannici finirono col nazionalizzare la loro principale banca in difficoltà, la Northern Rock). Dunque perché non impegnare altre proposte ugualmente modeste ma del tutto ragionevoli – come l’educazione gratuita (e di qualità) per tutti i bambini nelle scuole pubbliche, la parità di diritti e doveri per tutti i lavori, e una pesante e progressiva o graduata imposta sul reddito per sbarazzarci delle spaventose diseguaglianze sociali ed economiche che oggi ci circondano? E forse, se seguissimo la proposta di frenare l’eredità della ricchezza personale, allora potremmo prestare molta più attenzione all’eredità collettiva che trasmettiamo ai nostri figli in un’esistenza e un ambiente di lavoro decente così come una natura che mantenga sia la sua fecondità sia il suo fascino.
**David_Harvey è un geografo, sociologo e politologo britannico.

Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo. Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe ancora senso?
Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente, come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà, come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”. Ci troviamo certamente, come nel 2008, nel mezzo di uno di quelle periodiche crisi commerciali “che sottopongono a processo”, come nota ilManifesto, “ogni volta più minacciosamente l’esistenza dell’intera società borghese”. E le rivolte del cibo scoppiano dappertutto, in particolare in molte nazioni povere, con l’innalzamento incontrollato dei prezzi del cibo. Dunque le condizioni sembrano propizie per una rivalutazione della pertinenza del Manifesto. E’ interessante come una sua modesta proposta di riforma – la centralizzazione del credito nelle mani dello stato – sembra essere sulla buona strada per la sua realizzazione, grazie alle azioni collettive della Riserva Federale statunitense (FED), della Banca Centrale Europea (BCE), e delle banche centrali delle altre principali potenze capitaliste, nel salvataggio del sistema finanziario mondiale (i britannici finirono col nazionalizzare la loro principale banca in difficoltà, la Northern Rock). Dunque perché non impegnare altre proposte ugualmente modeste ma del tutto ragionevoli – come l’educazione gratuita (e di qualità) per tutti i bambini nelle scuole pubbliche, la parità di diritti e doveri per tutti i lavori, e una pesante e progressiva o graduata imposta sul reddito per sbarazzarci delle spaventose diseguaglianze sociali ed economiche che oggi ci circondano? E forse, se seguissimo la proposta di frenare l’eredità della ricchezza personale, allora potremmo prestare molta più attenzione all’eredità collettiva che trasmettiamo ai nostri figli in un’esistenza e un ambiente di lavoro decente così come una natura che mantenga sia la sua fecondità sia il suo fascino.
giovedì 3 agosto 2017
Augusto Graziani e la Teoria Monetaria della Produzione*- Giorgio Gattei**
*Da: M Epici **Professore Associato di Storia del Pensiero Economico presso la Scuola di Economia, Management e Statistica dell'Università di Bologna.
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/08/lo-sme-augusto-graziani-9111994.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2014/08/lo-sme-augusto-graziani-9111994.html
mercoledì 2 agosto 2017
Perché studiare il latino e il greco?*- Antonio Gramsci
*[Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55] - Da: http://appelloalpopolo.it/ https://www.sinistrainrete.info

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.

Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
martedì 1 agosto 2017
Noi tutti, comunisti compresi, ci siamo abituati a vivere nel capitalismo... - Aristide Bellacicco*-(1/08/2012)-
*(Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni")
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/12/contributo-una-discussione-aristide.html
Insomma, è vero o no che il capitale non riesce più a valorizzarsi attraverso la vendita delle merci? E che questo è il primum movens della crisi che colpisce la maggioranza di noi tutti? E' vero o no, in altri termini, che la cosiddetta "crisi finanziaria" è in realtà l'effetto di una crisi di sovrapproduzione? Sì, è vero: e non tanto e non solo perchè "ce lo insegna Marx" ma perchè chiunque si sottoponga allo sforzo di un minimo approfondimento della letteratura economica internazionale (un fiume di parole) può constatare che tale consapevolezza giace nell'inconscio del capitale allo stesso modo di un ricordo o di una scena primaria vittima della rimozione nell'inconscio freudiano.
Dunque, il capitale "sa" - ma nella maniera vile e ipocrita che gli è solita - che l'economia da esso generata poggia sulla sabbia. Spesso, nei periodi di crisi, tale consapevolezza è affiorata: la soluzione roosveltiana del '29 e il pensiero economico di Keynes ne costituiscono, credo, due delle maggiori testimonianze nel ventesimo secolo.Ma il capitale è il capitale: non ci si può aspettare che si superi o si neghi da sè, così come non si può chiedere a un nevrotico di prendere coscienza, senza, appunto, l'intervento di un altra "coscienza", dei problemi che lo affliggono.Allora viene la tentazione di prendere per buona la seguente domanda: chi è, o chi può essere, "l'analista" del capitale? Chi può "aiutarlo"?Ma è una domanda sbagliata e, dunque, non prevede risposte. Tutti coloro, PD in testa, che hanno votato le norme sulla stabilizzazione del bilancio pubblico (orribilmente denominate fiscal compact) sono caduti, consapevolmente o meno, in una sorta di trappola logica o psicologica. Qualsiasi tentativo, infatti, di ripristinare condizioni favorevoli alla ripresa della vendita di merci non farebbe altro che riprodurre, nel caso improbabile di un esito positivo, lo stesso meccansimo che genera le crisi.
So perfettamente che si tratta di un'analisi estremamente semplificata e addirittura rozza: ma non più rozza e superficiale della maniera in cui il capitale pensa se stesso - ammesso che lo faccia. Non si può aiutare il capitalismo: l'unica via è abbatterlo. E' il compito principale che il genere umano si trova davanti. Ma è qui e ora, in modo determinato, che questo problema si pone, non in astratto o in generale. E' "questo" capitalismo che deve essere abbattuto; siamo nel punto più basso di uno dei cicli periodici di cui parlava Trockij, e la determinatezza della situazione storica richiede risposte altrettanto determinate. La classe operaia (Italia, Spagna, Grecia) è in condizioni di estrema difficoltà: quando scende in campo, come nel caso dell'Illva è solo per difendersi, per salvare posti di lavoro e salari.E anche le forme più di "sinistra" del sindacalismo italiano (FIOM) giocano partite in difesa.Sul fronte dell' intellighenzia ufficiale c'è il più assoluto silenzio o il puro e semplice servaggio ideologico.E'come in uno di quei sogni dove ti sembra di non poterti muovere benchè il mostro sia lì a due passi e stia per sbranarti: ma tu sei fermo e provi solo angoscia.
Se le persone - tutte - non impareranno nulla da questa crisi - e tutto ciò che c'è da imparare è che il capitalismo deve essere rovesciato - allora sarà il capitale a prevalere: e la sua vittoria di Pirro trascinerà tutti con sé nella sconfitta, le cui dimensioni sono difficilmente immaginabili.E' necessario che i comunisti abbandonino slogan e parole d'ordine che oscillano fra la nostalgia e il velleitarismo e che si dedichino seriamente allo studio e al'analisi del reale. I comunisti non possono fare tutto da soli, è evidente: ma appare sempre più chiaro che l'assenza di un Partito Comunista degno di questo nome è, insieme, una delle cause e uno degli effetti della situazione che si sta attraversando.Mai come oggi il socialismo è all'ordine del giorno come unica soluzione razionale e ragionevole: mai come oggi sembra lontano il momento di una ripresa di un pensiero critico che sappia farsi largo fra le masse.
E una delle ragioni di ciò, a mio avviso sta in questo:noi tutti, comunisti compresi, ci siamo abituati a vivere nel capitalismo e per tanti anni la deriva riformistica del PCI - pur riconoscendo l'importanza di quell'esperienza - ha contribuito a questo processo. Bisogna uscire dal sogno e dall'incubo. E' vero che le teorie da sole non cambiano magicamente la storia, ma è altrettanto vero che le teorie fanno parte integrante della storia. La ricostituzione di un'avanguardia politica e culturale è il primo dei nostri compiti: la frase di Marx che dice "le società si pongono solo i problemi che hanno la capacità di risolvere" non è una profezia ma un'indicazione di lavoro.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2013/12/contributo-una-discussione-aristide.html
Insomma, è vero o no che il capitale non riesce più a valorizzarsi attraverso la vendita delle merci? E che questo è il primum movens della crisi che colpisce la maggioranza di noi tutti? E' vero o no, in altri termini, che la cosiddetta "crisi finanziaria" è in realtà l'effetto di una crisi di sovrapproduzione? Sì, è vero: e non tanto e non solo perchè "ce lo insegna Marx" ma perchè chiunque si sottoponga allo sforzo di un minimo approfondimento della letteratura economica internazionale (un fiume di parole) può constatare che tale consapevolezza giace nell'inconscio del capitale allo stesso modo di un ricordo o di una scena primaria vittima della rimozione nell'inconscio freudiano.Dunque, il capitale "sa" - ma nella maniera vile e ipocrita che gli è solita - che l'economia da esso generata poggia sulla sabbia. Spesso, nei periodi di crisi, tale consapevolezza è affiorata: la soluzione roosveltiana del '29 e il pensiero economico di Keynes ne costituiscono, credo, due delle maggiori testimonianze nel ventesimo secolo.Ma il capitale è il capitale: non ci si può aspettare che si superi o si neghi da sè, così come non si può chiedere a un nevrotico di prendere coscienza, senza, appunto, l'intervento di un altra "coscienza", dei problemi che lo affliggono.Allora viene la tentazione di prendere per buona la seguente domanda: chi è, o chi può essere, "l'analista" del capitale? Chi può "aiutarlo"?Ma è una domanda sbagliata e, dunque, non prevede risposte. Tutti coloro, PD in testa, che hanno votato le norme sulla stabilizzazione del bilancio pubblico (orribilmente denominate fiscal compact) sono caduti, consapevolmente o meno, in una sorta di trappola logica o psicologica. Qualsiasi tentativo, infatti, di ripristinare condizioni favorevoli alla ripresa della vendita di merci non farebbe altro che riprodurre, nel caso improbabile di un esito positivo, lo stesso meccansimo che genera le crisi.
So perfettamente che si tratta di un'analisi estremamente semplificata e addirittura rozza: ma non più rozza e superficiale della maniera in cui il capitale pensa se stesso - ammesso che lo faccia. Non si può aiutare il capitalismo: l'unica via è abbatterlo. E' il compito principale che il genere umano si trova davanti. Ma è qui e ora, in modo determinato, che questo problema si pone, non in astratto o in generale. E' "questo" capitalismo che deve essere abbattuto; siamo nel punto più basso di uno dei cicli periodici di cui parlava Trockij, e la determinatezza della situazione storica richiede risposte altrettanto determinate. La classe operaia (Italia, Spagna, Grecia) è in condizioni di estrema difficoltà: quando scende in campo, come nel caso dell'Illva è solo per difendersi, per salvare posti di lavoro e salari.E anche le forme più di "sinistra" del sindacalismo italiano (FIOM) giocano partite in difesa.Sul fronte dell' intellighenzia ufficiale c'è il più assoluto silenzio o il puro e semplice servaggio ideologico.E'come in uno di quei sogni dove ti sembra di non poterti muovere benchè il mostro sia lì a due passi e stia per sbranarti: ma tu sei fermo e provi solo angoscia.
Se le persone - tutte - non impareranno nulla da questa crisi - e tutto ciò che c'è da imparare è che il capitalismo deve essere rovesciato - allora sarà il capitale a prevalere: e la sua vittoria di Pirro trascinerà tutti con sé nella sconfitta, le cui dimensioni sono difficilmente immaginabili.E' necessario che i comunisti abbandonino slogan e parole d'ordine che oscillano fra la nostalgia e il velleitarismo e che si dedichino seriamente allo studio e al'analisi del reale. I comunisti non possono fare tutto da soli, è evidente: ma appare sempre più chiaro che l'assenza di un Partito Comunista degno di questo nome è, insieme, una delle cause e uno degli effetti della situazione che si sta attraversando.Mai come oggi il socialismo è all'ordine del giorno come unica soluzione razionale e ragionevole: mai come oggi sembra lontano il momento di una ripresa di un pensiero critico che sappia farsi largo fra le masse.
E una delle ragioni di ciò, a mio avviso sta in questo:noi tutti, comunisti compresi, ci siamo abituati a vivere nel capitalismo e per tanti anni la deriva riformistica del PCI - pur riconoscendo l'importanza di quell'esperienza - ha contribuito a questo processo. Bisogna uscire dal sogno e dall'incubo. E' vero che le teorie da sole non cambiano magicamente la storia, ma è altrettanto vero che le teorie fanno parte integrante della storia. La ricostituzione di un'avanguardia politica e culturale è il primo dei nostri compiti: la frase di Marx che dice "le società si pongono solo i problemi che hanno la capacità di risolvere" non è una profezia ma un'indicazione di lavoro.
lunedì 31 luglio 2017
La lotta di classe nell’antichità greca e romana*- Geoffrey de Ste. Croix**
*Da: https://traduzionimarxiste.wordpress.com L’articolo è apparso inizialmente sotto il titolo «Class in Marx’s conception of history, ancient and modern» in New Left Review I/146, luglio-agosto 1984. La traduzione francese, sulla base della quale è stata effettuata quella italiana, si trova in Période.
**Un breve ritratto biografico di de Ste. Croix, insieme ad un riassunto delle tesi sostenute nella sua opera principale, The Class Struggle in the Ancient Greek World (purtroppo mai tradotta in italiano), sono reperibili in questo stesso blog, Traduzioni marxiste.
Lo statuto teorico delle classi sociali nel pensiero di Marx ha suscitato numerose interpretazioni. Al fine di comprenderne il senso, G. E. M. de Ste. Croix propone di ritornare sulle difficoltà specifiche della sua pratica di storico, nonché dell’oggetto fortemente problematico di quest’ultima: le lotte di classe nell’antichità. Gli schiavi costituivano una classe nell’antica Grecia? A detta di altri storici marxisti come Vidal-Naquet e Vernant, la risposta non può che essere negativa. Di fronte a tali società, così lontane dal capitalismo contemporaneo, il solo modo per restituire senso al corso della storia, per de Ste. Croix, consiste nel ristabilire la prospettiva marxiana nella sua forma più rigorosa e coerente: le classi sono l’altra faccia del rapporto sociale di sfruttamento. L’intervento dello storico dell’antichità mostra dunque come un decentramento radicale, uno sguardo rivolto al lontano passato, possa chiarire la complessità dei rapporti sociali odierni.
È allo stesso tempo un onore ed un piacere prendere la parola qui oggi (1). È un onore che mi sia stato chiesto di tenere la conferenza annuale in memoria di Isaac Deutscher, un uomo che ha sempre seguito il proprio pensiero con grande coraggio, il quale ha cercato per tutta la vita di dire la verità, così come egli la vedeva, senza lasciarsi intimidire dagli attacchi, da qualsiasi parte provenissero. (Non posso che rimpiangere vivamente di non aver avuto occasione di conoscerlo personalmente). Ed è un piacere tenere questa conferenza alla London School of Econmics [d’ora in poi abbreviato come LSE, n.dt.]. Infatti, e la cosa potrebbe forse sorprendervi, è proprio qui che ebbi il mio primo incarico accademico, insegnandovi per tre anni all’inizio degli anni Cinquanta. «Insegnato», tuttavia, è probabilmente un termine eufemistico, poiché i miei interessi, in quanto assistente in Storia economica dell’antichità, erano assai lontani da quanto previsto dal programma del corso; e in effetti, alcuni dei miei colleghi del Dipartimento di storia economica mi hanno talvolta fatto capire – molto educatamente, sia ben chiaro – di essere un po’ infastiditi dal mio occupare un posto che, altrimenti, sarebbe stato appannaggi di qualcuno realmente utile, capace, a differenza di me, di farsi carico di parte del programma. Allora iniziai a far del mio meglio per trovar qualcuno interessato a quanto avevo da offrire; ma quando facevo il giro dei dipartimenti, chiedendo se potevo tenere delle conferenze suscettibili di riscuotere un qualche interesse fra i loro studenti, le mie proposte venivano prudentemente rifiutate. Poi, improvvisamente, con mia grande gioia, venni inserito nel programma, per quanto ad un livello marginale. Ricevetti una lettera del professore di contabilità, Will Baxter (un’autorità riconosciuta in materia nel mondo anglofono), il quale mi chiedeva di tenere dei corsi nel suo dipartimento. «Sarebbe un grande piacere per noi, era scritto nella lettera, sapere di più a proposito della contabilità dei greci e dei romani, in particolare se conoscevano il sistema della partita doppia – insomma, cose del genere». Ovviamente, io non sapevo niente in merito alla contabilità antica, non più della maggior parte degli altri antichisti, ma mi sono immerso nello studio della questione. Si rendeva necessario un enorme lavoro sulle fonti originali, poiché mi ero reso conto che non vi era praticamente niente di buono nei libri moderni. Viceversa, trovai una quantità sorprendente di testimonianze di prima mano, non solo nelle fonti letterarie e giuridiche, ma anche nelle iscrizioni e sopratutto nei papiri. Quello che scrissi rappresenta, che io sappia, l’unico studio generale sull’argomento ad aver impiegato tutte le differenti tipologie di fonte (2). (Credo venga ancora citato come riferimento). Tenni anche alcuni corsi alla LSE, tanto sulla contabilità antica quanto su argomenti correlati, come il prestito a cambio marittimo (un precursore dell’assicurazione marittima) (3): l’uditorio era costituito dal professore, dalla sua squadra e da storici dell’antichità provenienti da altre facoltà, ma non, per quanto mi era dato sapere, da studenti della LSE stessa. E persino dopo aver lasciato Londra per Oxford, ormai trent’anni fa, sono stato invitato ogni anno a ritornarvi per tenere una conferenza sulla contabilità antica e medioevale, sino alla fine degli anni Settanta.
domenica 30 luglio 2017
1867: Buon compleanno "Das Kapital"!*- Roberto Fineschi**
*Da: Maggio Filosofico **Roberto_Fineschi è un filosofo italiano
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/epoca-fasi-storiche-capitalismi-forme-e.html
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/epoca-fasi-storiche-capitalismi-forme-e.html
sabato 29 luglio 2017
Quando le latrine saranno d’oro*- Luca Cangianti
*Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di Vladimiro Giacché, il Saggiatore, 2017, pp. 521, € 29,00. https://www.carmillaonline.com/
Vladimiro Giacché limita il suo lavoro di selezione agli scritti economici posteriori alla Rivoluzione d’Ottobre suddividendoli in tre periodi: quello riguardante i primi sei mesi di potere sovietico, il comunismo di guerra e la Nuova politica economica (Nep). Il pensiero di Lenin nel corso di queste tre fasi subisce evoluzioni, sia a causa delle emergenze del momento che per gli esiti delle sperimentazioni cui i singoli provvedimenti economici venivano sottoposti. Nei primi scritti si affrontano: i problemi sollevati dalla legge sulla socializzazione della terra che aboliva il latifondo distribuendo i campi ai contadini; il decreto sul controllo operaio che non intaccava né il diritto di proprietà né la funzione direttiva del capitalista; la nazionalizzazione del settore bancario. Gli scritti del periodo della guerra civile si focalizzano invece sulla crisi alimentare e sulle requisizioni delle eccedenze cerealicole. Nella primavera del 1918 fu infatti vietato il commercio privato del grano e istituito il monopolio statale con acquisto a prezzo fisso. Infine i contributi che vanno dal marzo 1921 allo stesso mese del 1923 sono dedicati alla Nep che sostituì le requisizioni emergenziali – volte al sostentamento degli operai e dei soldati a danno dei contadini – con un’imposta in natura, pagata la quale si riacquistava la libertà di vendere localmente i cereali.
L’intera periodizzazione è tuttavia attraversata da un filo rosso ben definito: secondo Lenin senza lo sviluppo delle forze produttive e la conseguente crescita culturale delle masse il comunismo è impossibile.
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