martedì 2 gennaio 2024

Oppressione ed emancipazione della donna - Alessandra Ciattini

Da: https://futurasocieta.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma.

Leggi anche: L’INFERIORITÀ DELLA DONNA TRA NATURA E CULTURA - Alessandra Ciattini

L’ingannevole abbaglio della libertà sessuale*- Alessandra Ciattini 

CULTURA O IDEOLOGIA?*- Alessandra Ciattini 

Il rispetto delle differenze culturali: relativismo o antirelativismo?*- Alessandra Ciattini 

LE RADICI STORICO-ANTROPOLOGICHE DELLA NOZIONE DI FETICISMO*- Alessandra Ciattini

Laicità e cultura*- Alessandra Ciattini 

NEOLIBERISMO E POSTMODERNISMO: ALLEATI TRA LORO, MA NOSTRI NEMICI* - Alessandra Ciattini 

Il feticismo da un punto di vista antropologico. - A.Ciattini, S.Garroni


Il recente e tragico fatto di cronaca, che ha visto l’uccisione di un’altra giovane donna da parte del suo fidanzato, un giovane probabilmente depresso e fortemente disorientato – condizione assai diffusa nella società contemporanea –, ha fatto ritornare alla ribalta l’irrisolto problema dell’oppressione della donna e della sua emancipazione, ma a mio parere è stato mal posto e interpretato – come avviene da molto tempo – in maniera strumentale.

In primo luogo, stupiscono le espressioni del tipo: è possibile che nella modernità postindustriale accadano fatti di questo genere che fanno riaffiorare forme primitive di comportamento legate ad un supposto mai scomparso patriarcato? Stupiscono perché non colgono che gli avanzamenti scientifici, tecnologici, sociali, politici avvenuti negli ultimi decenni sono stati dialetticamente accompagnati da forme di profondo imbarbarimento delle relazioni umane, legate soprattutto alla cancellazione di molti diritti conquistati in precedenza dai lavoratori, allo svuotamento dei cosiddetti valori democratici, al drammatico squilibrio tra le varie regioni del mondo, dalla costante violazione dei diritti più elementari, dalla formazione di un’oligarchia internazionale che ci governa e ci plasma a suo piacimento. Insomma da arretramenti sostanziali documentati per esempio dalla volgarità dei falsimedia, dalla perenne presenza della violenza sempre più spietata sia nei prodotti subculturali che nella vita reale, dalla continua riproposizione della mercificazione dell’essere umano e in particolare della donna (si veda l’uso della sessualità nella pubblicità), ai quali questa società offre due sole alternative tra loro collegate: vendere o comprare. E come si sa si vendono e si comprano solo oggetti.

Una prima osservazione: chiamare in causa il patriarcato, che rappresenta solo una forma storica di famiglia, vuol dire eternizzare qualcosa che eterno non è, è decontestualizzare e destorificare, evitando così di mettere in questione la struttura della società attuale. Atteggiamento che caratterizza lo schema esplicativo di tanti altri fenomeni oggi sconvolgenti e rilevanti, come si fa abitualmente nel caso dei conflitti attuali, il cui inizio è stabilito arbitrariamente senza nessuna contestualizzazione storica per assecondare un certo blocco di potere a vantaggio di un altro. Oppure esso segna un ipocrita moralismo, ben espresso dalle parole della Meloni, che attribuisce a tutti indifferentemente la responsabilità dell’accaduto, cadendo quindi nella lapalissiana contraddizione “tutti colpevoli, nessuno colpevole”.

Senza voler ricostruire la complessa storia dell’oppressione della donna, cui ho dedicato un articolo pubblicato e un altro in via di pubblicazione, questa si è fondata su un complesso intreccio tra la differenza biologica tra i sessi e l’uso che di questa differenza hanno fatto i vari sistemi sociali succedutisi nella storia. Nella sostanza, essa non è il risultato della pura materialità né della pura socialità e cultura (non ci sono mai state società in cui gli uomini abbiano partorito), ma dell’incastro tra le due dimensioni; incastro che nelle società capitalistiche avanzate ormai in piena crisi non solo economica, ma anche sociale e culturale, si è fatto sempre più conflittuale e problematico. Le ragioni di questa problematicità sta nel fatto che, da un lato, l’evoluzione dell’Homo sapiens ha voluto che la riproduzione generazionale pesasse – come scrisse Simone de Beauvoir – più sulle donne che sugli uomini, dall’altro, il capitalismo attuale ha sempre bisogno che quest’ultima si realizzi al minimo costo possibile (il lavoro domestico non pagato), per assicurare l’accumulazione; aspetto quest’ultimo in contraddizione poi con la necessità di aumentare la produzione e il numero dei lavoratori. Necessità che nel nostro paese dagli anni ’50 del Novecento ha portato all’immissione delle donne nell’attività produttiva con salari più bassi (non a caso) e alla loro uscita dalla sfera domestica, in cui conciliavano meglio la loro attività produttiva e riproduttiva. Naturalmente questo discorso vale soprattutto per i momenti di crescita, ma anche nei momenti recessivi la famiglia, fondata sulla divisione sessuale del lavoro, si è mostrata e si mostra utile perché rappresenta sempre un’ancora di salvataggio per garantire che siano sempre a disposizione lavoratori sfruttabili.

Nel cosiddetto periodo del miracolo economico la partecipazione delle donne all’attività produttiva è stata in parte sostenuta da istituzioni sociali, che si occupavano dell’accudimento, dell’educazione dei bambini e della cura di coloro che non sono più in grado di lavorare, anche se diversamente da quanto alcuni hanno sostenuto quest’ultime non sono in grado di fornire un accompagnamento personalizzato come dovrebbero fare invece i genitori e di cui ognuno di noi ha estremo bisogno. Tutti sappiamo che da questo punto di vista l’Italia è stata desertificata, che i salari hanno perso il loro potere di acquisto, che le condizioni del lavoro sono peggiorate, che le donne nella loro maggioranza sono state le più penalizzate, perché sempre più sottopagate e marginalizzate.

Qualcuno dirà che oggi ci sono donne presidenti del consiglio o della repubblica, ma questi eventi possono piacere a coloro che si ritengono soddisfatti del successo di qualcuna, permanendo identiche le strutture sociali, che impediscono una reale emancipazione delle donne nella loro totalità. Mi riferisco qui a intellettuali che sono tutti contenti se si usa il femminile invece del generico maschile o quando in un certo contesto le appartenenti al cosiddetto bel sesso, sono ben rappresentate indipendentemente dalle loro capacità e competenze.

La grave crisi, che stiamo vivendo e dalla quale non è immaginabile come usciremo, ha profondamente cambiato la famiglia, innescandone la disgregazione e provocando serie conseguenze a livello sociale e psicologico come l’instabilità emotiva, il senso di precarietà, il disperato bisogno di un qualche punto di riferimento stabile, di essere riconosciuti e non solo usati nella relazione. Si tenga presente che in Italia, il numero delle famiglie formate da una sola persona (quindi non più famiglie nel senso classico) è in costante aumento e rappresenta oggi il 33,3% della totalità.

D’altronde, è stata la stessa politica capitalistica degli ultimi trenta anni che ha favorito questo processo, rendendo instabile la vita lavorativa, anzi presentando “questa flessibilità” come un beneficio per gli stessi lavoratori, diffondendo l’ideologia dell’individualismo asociale, che mette al primo posto qualsiasi desiderio o capriccio del singolo, anche irrealistico, per stimolare il consumismo, che fa del possesso mercificante non patriarcale l’unico strumento adeguato per raggiungere il prestigio e il riconoscimento sociali. Tutti questi elementi hanno riplasmato le relazioni umane, minandone le basi fondamentali, rendendole sempre più precarie, più conflittuali, più superficiali. Tuttavia, pur avendo oggi a disposizione lavoratori belli e pronti (gli immigrati), il capitalismo attuale ha sempre bisogno che qualcuno svolga al più basso costo possibile il ricambio generazionale, sollecitando così due tendenze contraddittorie: necessità della permanenza della famiglia e necessità della sua dissoluzione per dare sempre più spazio a un individuo narcisistico e infantile volto all’effimero consumo e incapace di accettare la frustrazione e sconfitta, la cui colpa è sempre scaricata su chi gli è più vicino e magari psicologicamente sottomesso. E la ferita narcisistica è implacabile, può scatenare la violenza e la vendetta, perché mette in questione l’immagine che ci siamo creati di noi stessi. In un certo senso, assomiglia alla reazione genocida di Israele nei confronti di Hamas che ha svelato al mondo la sua debolezza e fragilità, ed ora sta mostrando a tutti la sua la sua indegnità morale, giacché viola quotidianamente i più elementari principi del diritto internazionale.

Mi rendo conto che sto affrontando argomenti complessi che non è facile schematizzare, ma in questa sede non posso procedere in altro modo né intendo esaminare il fatto di cronaca da cui siamo partiti, non disponendo di adeguate informazioni. Pur tenendo conto del fatto che non siamo tutti uguali (uomini e donne), a causa del suo più che millenario legame con la vita domestica, dell’essere purtroppo più spesso misconosciuta la donna è più disposta ad accettare un diniego, una sconfitta, oppure a causa della conquistata libertà sessuale grazie ai contraccettivi ha acquistato maggiore sicurezza nella scelta dei suoi legami sentimentali. Pertanto, credo – sempre tenendo conto dei diversi contesti – che le donne in genere riescano a riorganizzare meglio la loro vita dinanzi anche a un sofferto abbandono e a trovare in loro stesse maggiori risorse sentimentali per far fronte alle inevitabili difficoltà cui si debbono con fatica confrontare. D’altra parte, è abbastanza noto che in Italia vi siano attualmente più vedove che vedovi; se l’ufficio di statistica ISTAT non mente le prime ammontano a 3.800.000, mentre i secondi sono solo 700.000.

Viceversa, nel contesto prima descritto della disgregazione familiare e dell’imbarbarimento delle relazioni umane, l’uomo, da un lato, tende a vedere l’abbandono come uno scacco che lede il suo prestigio sociale sminuito dalla perdita di “bene”, che documentava il proprio successo alla stregua di altri beni di tutt’altra natura; dall’altro, la rottura di una relazione rappresenta per una personalità debole e fragile la perdita di ogni punto di riferimento, di sostegno psicologico ed emotivo, che non sempre si fonda sulla solidarietà, anzi più spesso si nutre della più aspra conflittualità, coinvolgendo talvolta anche gli eventuali figli. In quest’ultimo caso, per esempio, spesso è la donna ad avvalersi del suo ruolo primario nell’allevamento dei figli per vendicarsi psicologicamente del marito, isolandolo, precludendogli le relazioni affettive più significative per lui.

Se l’analisi qui proposta ha un senso, pensare di inasprire le leggi, di fare corsi di educazione sentimentale (?) nelle scuole, non rappresenta la risoluzione del problema né la messa a fuoco delle sue reali origini. Sono i soliti palliativi strombazzati per apparire convincenti e credibili, per far credere di aver trovato soluzioni definitive.

A questo punto bisognerebbe chiedersi cosa si dovrebbe fare per contrastare questo terribile fenomeno che coinvolge e ha coinvolto molte donne. Naturalmente non è facile rispondere, ma qualcosa si può dire sulla necessità di una profonda trasformazione sociale, che riguardi non solo le relazioni di potere, ma anche la ristrutturazione della vita quotidiana della classe lavoratrice, cui le donne in maggioranza appartengono. In primo luogo, a mio parere, è del tutto indispensabile riconquistare i diritti perduti, che garantiscono a tutti gli individui (uomini e donne) un effettivo ruolo sociale; possedere un ruolo sociale stabile attribuisce agli esseri umani protagonismo, consapevolezza di poter in qualche modo contare, di far valere le proprie esigenze e di combattere le inevitabili frustrazioni non solo sul piano personale. Nella nostra società avere un ruolo sociale vuol dire in primis avere un lavoro che assicuri l’indipendenza e la possibilità di programmare la propria vita. Ora, se torniamo a guardare le statistiche, vediamo che la disoccupazione giovanile in Italia è drammatica e si aggira a circa il 24% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Per alcuni sarebbe molto più significativa. Inoltre, ci sono tutti quelli che non studiano né lavorano e vivono grazie alle famiglie di origine. Infine, contare nella vita sociale vuol dire anche avere un ruolo politico, ma per quanto riguarda la maggioranza della popolazione sia maschile che femminile (giovane e anziana), purtroppo essa deve fare i conti con la dissoluzione di ogni organizzazione che la rappresenti degnamente e che porti avanti le sue rivendicazioni.

In secondo luogo, riprendersi il potere di assegnare in gran parte allo Stato il costo del ricambio generazionale, non pagato dalle donne che possono farsi sostituire nel lavoro domestico, al contempo ristrutturando la famiglia, sulla base di un’ effettiva condivisione dei compiti e di una reale parità tra i sessi, pur rispettando le loro differenze. Ho detto ristrutturare la famiglia e non cancellarla perché, a differenza di quello che pensavano alcune rivoluzionarie sovietiche nei fervidi anni dopo il 1917, ognuno di noi per diventare una persona stabile e equilibrata – quindi anche un agente politico cosciente – ha bisogno di un trattamento personalizzato. Allevare un bambino non significa solo dargli da mangiare, fargli il bagno etc., ma soprattutto fargli capire che tutto quello che si fa, lo si fa esclusivamente per lui. E questo tipo di comprensione può emergere solo in una relazione intima, intensa e profonda che si può stabilire unicamente con chi si ama.

Entrambi i punti qui indicati implicano la necessaria mobilitazione delle masse popolari per riconquistare una condizione lavorativa degna, un reddito stabile e rivalutabile, adeguati servizi sociali capillari, rispetto della differenza femminile; quindi, mettere la donna nelle migliori condizioni sociali e politiche nel momento in cui sta svolgendo quei compiti che solo lei può fare. Trattare nello stesso modo persone diverse produce solo disuguaglianza, ci è stato insegnato. Sono tutti elementi presenti in un accettabile programma minimo o di transizione.

In conclusione, uomini e donne, appartenenti alla classe lavoratrice, sono entrambi interessati al successo di queste rivendicazioni e alla formazione di un organismo collettivo che lavori per imporle; pertanto, debbono lottare uniti per il cambiamento della società e dell’organizzazione familiare, evitando di accettare acriticamente la tesi del conflitto insanabile tra i due sessi, che divide i lavoratori e nasconde le vere cause della violenza sulle donne, sessualizzandole, psicologizzandole e strumentalizzandole.

Questa strategia, che per esempio non fa il parallelo tra le morti di uomini e donne sul lavoro (tre al giorno) e i femminicidi (non meno importanti ma assai meno numerosi), oltre ad occultare i conflitti di classe, innesca risposte gravissime quali la richiesta di ripristinare la pena di morte e di considerare legittima la vendetta, alimentando quel processo di imbarbarimento e di ulteriore rafforzamento del potere, di cui si diceva e che dobbiamo combattere con tutte le nostre forze. Processo già visibile, del resto, nel recente pacchetto sicurezza, presentato dal governo, che inasprisce le misure carcerarie e di polizia, estende i cosiddetti DASPO e riduce le prerogative delle giovani madri detenute. E ciò nonostante che le statistiche segnalino la flessione degli omicidi in Italia.

Nessun commento:

Posta un commento