Da: https://www.girodivite.it - Luca Antonio Cangemi Docente di Filosofia e Storia, dottore di ricerca in Scienze Politiche, fa parte della segreteria nazionale del Partito Comunista Italiano.
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Il discorso di Lenin sull’Oriente è anche il discorso di un nuovo, necessario, rapporto tra il movimento operaio dei paesi capitalistici dell’occidente e i popoli in lotta per la liberazione dal giogo coloniale. La Rivoluzione russa viene vista come il ponte tra queste due realtà. La sconfitta del movimento operaio e del marxismo in occidente pongono ora problemi enormi.
Se la cifra di questi nostri anni convulsi è il tendenziale rovesciamento della ri-colonizzazione (americana) del mondo, più nota sotto il nome di globalizzazione, e persino il tramonto del dominio occidentale sul globo (esito tutt’altro che scontato ma possibile), allora è necessario tornare a studiare l’iniziativa leniniana poi sviluppatisi lungo assai tortuosi sentieri ben oltre la fine del Secolo Breve (che sembra pretendere di diventare molto lungo) che di questi sconvolgimenti è, indiscutibilmente, la matrice. È come se attraverso la faglia leniniana prorompesse una nuova ondata di materiale storico incandescente, che non si può comprendere se non si torna alle caratteristiche originarie di quella frattura.
Che di frattura decisiva si tratti fu chiaro subito ai protagonisti di questa lunga storia. Il carattere “sconvolgente” e “costituente” delle idee di Lenin e degli atti del governo sovietico (sin dai primi giorni) sull’autodeterminazione dei popoli sono rilevati con stupore praticamente da tutti gli esponenti che da posizioni assai diversificate (a volte lontanissime da quelle dei comunisti) si pongono il tema dell’emancipazione delle nazioni costrette dagli europei alla condizione di colonie o semicolonie.
A Canton Sun Yat Sen fece chiudere i teatri per tre giorni alla notizia della morte di Lenin. È notissima la lettera che (siamo già nel 1930) Nehru scrive da una prigione inglese alla figlia Indira Gandhi indicando come memorabile l’anno di nascita della ragazzina (il 1917!) grazie all’opera di “un grande uomo”, ma valutazioni e attenzioni simili le troviamo in nazionalisti turchi, intellettuali persiani persino in qualche principe afghano con volontà di emanciparsi dal controllo inglese. Senza parlare ovviamente di coloro per cui militanza comunista e militanza anticoloniale da subito si identificarono.
Colpiscono per semplicità e forza le parole di Ho Chi Minh: “i popoli coloniali non potevano credere che esistesse un simile uomo e un simile programma”. Mille fili legano questo fascino travolgente alla situazione attuale e ne contribuiscono a spiegare aspetti anche sorprendenti. Del resto basta guardare gli studi storici che sono sempre tra gli indicatori più sensibili del presente: nel primo decennio dopo il 1989 gli studi prevalenti sulla Rivoluzione d’ottobre e sul movimento comunista sono studi di teratologia, cioè, studi su una mostruosità che aveva deviato dall’evoluzione storica “normale” parte consistente dell’umanità, condizionandola tutta. Nel nuovo millennio, archiviata la fine della storia, si sviluppa tra storici di diverso orientamento l’interesse per il movimento comunista come grande attore globale che propone vie alternative di modernizzazione.
Il mondo è, senza alcun dubbio, per Lenin lo scenario vero della sua azione politica, la dimensione necessaria della sua strategia rivoluzionaria. Da questo punto di vista possiamo dire che egli è il primo leader politico globale. Marx ha intravisto chiaramente l’unificazione tendenziale del mondo agita dal capitalismo, Lenin assume questa dimensione come cardine della pratica politica quotidiana.
Questa pratica politica globale tiene in tensione - proponendosi, per la prima volta nella storia del mondo, di unificarle - due aspetti: la lotta del proletariato europeo contro il capitalismo, la lotta dei popoli oppressi delle colonie.
A questa tensione se ne incrocia, quasi fosse una trama esplicativa, un’altra: quella tra dimensione nazionale e internazionale della lotta. Il mondo di Lenin è un mondo di classi, popoli, nazioni e l’internazionalismo deve sempre specificarsi nel radicamento nelle specifiche condizioni nazionali (e prima ancora nello studio di esse). Il cosmopolitismo e le costruzioni astrattamente sovranazionali, come il progetto degli Stati Uniti d’Europa, sono guardate con atteggiamento critico se non sprezzante.
La Rivoluzione d’Ottobre nella visione di Lenin trova la sua ragion d’essere storica nell’essere al centro di queste tensioni. Essa non solo avviene al momento giusto, impedendo di riassorbire nel quadro borghese la crisi dell’Impero zarista, ma avviene anche nel posto giusto, in una formazione territoriale e storica che può connettere il movimento operaio europeo, il marxismo e le lotte dei popoli contro l’imperialismo e il colonialismo.
La rottura non solo politica ma innanzitutto culturale con il pensiero europeo dominante (compreso quello socialista) non potrebbe essere più netta. Per dirla con un’espressione di un intellettuale indiano l’Europa iniziò ad essere provincializzata.
Per questo parliamo di una frattura epistemologica decisiva da cui ogni visione policentrica del mondo non può che partire. E per questo bisogna indagarla a partire dal nome con cui questi nuovi soggetti venivano chiamati, popoli d’Oriente.
Che cos’è l’ Oriente?
Per i bolscevichi la parola “Oriente” designa almeno tre dimensioni politiche.
1) L’Oriente mussulmano e l’India.
Innanzitutto Oriente indica la grande area che va dalla Turchia all’India e che, soprattutto nel Caucaso e in Asia centrale, incrocia grandi masse di popolazione del territorio stesso dell’ex impero zarista. Questo enorme quadrante assai variegato e complesso, anche se in molti luoghi segnato dalle culture islamiche (e mussulmano è aggettivo spesso usato a definire popolazioni di quest’area nei documenti bolscevichi), è molto interno alle dinamiche della guerra civile e all’intervento esterno delle potenze imperialistiche che si scatenano contro il neonato potere sovietico.
L’attenzione principale è qui soprattutto ai processi di costruzione nazionale che si sviluppano nel centro del dissolto Impero Ottomano, la Turchia. La giovane potenza sovietica gioca di sponda con il nazionalismo turco contro le potenze capitalistiche vincitrici (e interventiste contro la Russia sovietica) similarmente a come fa, in qualche fase, con settori nazionalisti tedeschi dopo Versailles. Ma qui il gioco è molto più complesso. Basti pensare ad una vicenda come quella di Enver Pasha che plasticamente intreccia le lotte che presiedono alla costruzione dello spazio sovietico nel Caucaso e in Asia centrale con i conflitti interni alle élite nazionalistiche turche, in una girandola di alleanze e scontri. Alla fine il risultato sarà politicamente ambiguo, da un lato consentendo la stabilizzazione (per nulla scontata in partenza) del potere sovietico in una vastissima area, ma dall’altro registrando l’impermeabilità del nazionalismo turco a ogni istanza rivoluzionaria, anzi la sua precoce postura anticomunista, che avrà conseguenza di lungo periodo, per tutto il corso del XX secolo. Alterni esiti avranno anche i rapporti con i processi di riorganizzazione che attraversano anche l’altro grande continente storico-culturale, quello persiano. Un discorso a parte merita l’India, spazio culturale con caratteristiche assai specifiche rispetto al resto dell’area, perla dell’Impero britannico, in cui l’intervento politico diretto del bolscevismo fu più limitato. Ma enorme fu l’impatto che ebbe sul movimento la Rivoluzione d’ottobre sul variegato mondo di chi si batteva per l’indipendenza dell’India. E la grande ostilità dei governi di sua maestà alla Russia sovietica era motivata soprattutto dalla paura per l’India. Sono paure che si prolungano nei tempi, la letteratura ci aiuta a individuarle. In Italia è uscito da qualche anno il romanzo, scritto negli anni ’80, di Peter Hopkirk dal significativo titolo Setting the East Ablaze: Lenin’s Dream of an Empire in Asia, 1984 (letteralmente: Dare fuoco all’Oriente: il sogno di Lenin di un impero in Asia, assai più significativo del titolo dell’edizione italiana in cui dare fuoco all’Oriente si trasforma in un meno pregnante “Avanzando nell’oriente in Fiamme”). In esso la paura per l’India rappresenta il filo conduttore della trama. Una paura mascherata da allarme per i complotti più improbabili e per fantomatici eserciti sovversivi ma in realtà fondata preoccupazione politica dell’eco sconvolgente che la Rivoluzione russa e l’elaborazione di Lenin hanno avuto su un’ampia platea militante e intellettuale del subcontinente.
2) L’Estremo Oriente e la Cina.
Distinto da questo oriente vicino vi è un altro Oriente nella mente di Lenin, estremo o lontano, anch’esso interno e (assai più) esterno allo spazio dominato dagli Zar.
Questo spazio viene “tematizzato” e soprattutto investito da un’azione politica diretta con un qualche ritardo, in particolare per le vicende della guerra civile e dell’intervento straniero particolarmente aspre nell’Estremo Oriente russo. Ma sarà in questi territori enormi che il discorso leninista sull’oriente getterà radici profondissime capaci di produrre nei decenni successivi sviluppi straordinari e duraturi. Se Oriente significa soprattutto Turchia, Persia, India e il grande antagonista è l’Inghilterra, in Estremo Oriente la Russia sovietica si confronta con l’enorme questione cinese e trova sulla sua strada un imperialismo autoctono particolarmente aggressivo, quello giapponese, primo ad intervenire a fianco delle armate bianche e ultimo a rassegnarsi alla sconfitta (truppe giapponesi rimangono a Vladivostok fino all’ottobre del 1922). La vittoria faticosa e sanguinosa ma netta contro i vari raggruppamenti controrivoluzionari che matura nel 1921 permette di riorganizzare il potere sovietico in vasti territori e di risolvere la questione dell’indipendenza della Mongolia. Nel frattempo, il Comintern lavora alacremente a costruire nuclei che, negli anni successivi, riscuoteranno importanti risultati in Indonesia, Corea, Indocina.
Si impone poi, molto presto, la centralità della questione cinese. Il rapporto tra la Cina, il pensiero di Lenin e la Rivoluzione d’ottobre è tema storico-politico, non a caso recentemente riscoperto, tanto complesso quanto fondamentale. Schematicamente ma in modo pregnante possiamo fissarne il punto di partenza, con la sintonia molto significativa tra la polemica del giovane stato sovietico contro il trattato di Versailles che Lenin definì “indegna pace di violenza, di rapina, di lucro” da un lato, e il movimento cinese cosiddetto del 4 maggio 1919, che è ritenuto ancora oggi il punto di partenza di una nuova Cina, dall’altro. La cifra politica del movimento del 4 maggio, cioè il nesso tra rinnovamento culturale e sociale della Cina e la sua indipendenza e dignità nazionale contro le umiliazioni delle potenze imperialistiche, trova presto un riferimento tanto nelle tesi generali di Lenin quanto negli atti specifici di politica internazionale. Non a caso il marxismo si diffonde in quegli anni in Cina, ma è un marxismo cinese che già nasce “leninista” e che ha originariamente nel suo DNA la centralità della questione nazionale, dell’anticolonialismo e dell’antimperialismo ben diversamente di quanto accade in Europa. E la stessa fondazione del Partito Comunista Cinese, connessa direttamente al movimento del 4 maggio (basta guardare le biografie del suo gruppo dirigente) segue questa strada, ben diversa, dalla fondazione per scissione dal movimento socialista che avviene in occidente. E che sarà un modello diffuso in Asia (ma anche successivamente in Africa) con la significativa eccezione del Giappone. Queste caratteristiche originarie spiegano molto (anche se non tutto) di quello che accadrà negli anni e nei decenni successivi. Spiegano soprattutto due elementi decisivi: da un lato la permeabilità del movimento nazionale cinese al marxismo, il suo collegamento con le posizioni sovietiche (su cui investirono molto, per tutti gli anni Venti, con una presenza costante di consiglieri politici e militari) e dall’altro la propensione del comunismo cinese in più fasi politiche a porsi il problema dell’unità con i nazionalisti, assumendo però l’unità come terreno di sfida egemonica.
3) L’Oriente globale.
Le due dimensioni dell’Oriente che abbiamo descritto si fondono e contemporaneamente si dilatano fino a comprendere territori che solo dopo la morte di Lenin progressivamente saranno investiti concretamente dall’iniziativa articolata del Comintern e dell’Urss, ma che già prima della Rivoluzione sono dentro lo schema nella testa di Lenin e che sono scossi profondamente dal messaggio che viene dall’ottobre sovietico. È un Oriente globale che include anche territori che non sono orientali geograficamente ma lo sono (radicalmente) sotto il profilo politico, oltre a tutta l’Asia esso si estende all’ Africa e all’America Latina. Oriente diventa sinonimo di “questione coloniale” e, anche, di antimperialismo. La connessione con l’attuale discussione sul “Sud globale” appare evidente.
Il tema dello sviluppo ineguale del capitalismo che Lenin studia in modo approfondito, produce già prima negli anni precedenti la Rivoluzione, una definita concezione del processo rivoluzionario su scala mondiale, profondamente innovativa perché basata su dimensioni differenziate ma allo stesso tempo articolate. La rivoluzione sociale, scrive Lenin dall’esilio svizzero, può compiersi soltanto come “un’epoca che associa la guerra civile del proletariato contro la borghesia a tutta una serie di movimenti democratici e rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionale, delle nazioni oppresse”. I tempi e le forme della rivoluzione sono radicalmente molteplici. Non solo la concezione della storia lineare ed evoluzionista della Seconda Internazionale è smontata dalle fondamenta, ma la stessa legittimità e centralità della rivoluzione socialista in Russia (che nel momento in cui queste note vengono scritte non è facilmente prevedibile) viene sancita. La Russia può svolgere un ruolo fondamentale non solo per la sua straordinaria collocazione geografica e storica tra Europa e Asia, tra Oriente e Occidente ma anche perché forme di sviluppo assai diverse convivono nello stesso stato (in “Russia c’è Londra ma anche l’India” secondo la battuta di Trotzki). Quest’intuizione che è fondativa del bolscevismo e che, dopo complesse discussioni unifica l’intero gruppo dirigente, troverà uno sviluppo politico straordinario con la politica estera della giovane Russia rivoluzionaria (grande impatto ebbe la denuncia dei trattati segreti dell’Intesa, in particolare quelli che riguardavano le progettate spartizioni delle terre orientali) e con la fondazione della terza internazionale che già nelle condizioni di ammissione sanciva una posizione nettissima e assegnava compiti precisi ai partiti comunisti dei paesi coloniali.
Un momento di grande discussione teorica e politica avvenne nel secondo congresso del Komintern nel 1920, con un particolare impegno di Lenin che si assunse l’onere di condurre personalmente la discussione delle tesi sulla questione nazionale e coloniale a riprova della centralità che nel pensiero del capo bolscevico rivestiva il problema. Il maggiore interlocutore è il comunista indiano M.N. Roy, un personaggio interessante, che in qualche modo anticipa la figura, su cui hanno riflettuto gli studi postcoloniali, dell’intellettuale diasporico (la sua attività intellettuale e politica attraversò contesti assai diversi dall’India alla Russia Sovietica, dal Messico alla Cina). Egli rappresenta nella discussione dell’Internazionale una forma di radicalismo intellettuale, che più volte si ripresenterà nella storia del movimento operaio e in quella dei suoi rapporti con i movimenti di liberazione che estremizzando alcuni tratti ideologici rischia di separarsi dal movimento reale. Da questo punto di vista la discussione con Roy sulla lotta nei paesi coloniali assomiglia non poco alla precedente discussione di Vladimir Ilic con Rosa Luxemburg sulla questione nazionale. Il confronto con M.N. Roy ci consegna un Lenin particolarmente dialogante e proteso alla sintesi, teso a fare crescere con pazienza un gruppo dirigente di comunisti “orientali”, consapevole di trovarsi in un campo straordinariamente nuovo, in cui la sperimentazione è particolarmente necessaria.
La caratteristica forse più peculiare di Lenin, l’unità strettissima e anzi la circolarità di teoria e pratica politica, trova qui una nelle sue espressioni più alte. I risultati sono storicamente assai rilevanti. In particolare due: la definizione dei rapporti tra movimenti di liberazione nazionale e comunisti, una riconsiderazione del rapporto tra grado di sviluppo e prospettiva socialista.
Sul primo punto viene sancita l’alleanza tra i movimenti nazionali e il movimento comunista come scelta strategica ma senza rinunciare ad entrare nel merito delle caratteristiche politiche dei movimenti di liberazione nazionali, con la consapevolezza dei complessi rapporti tra classi dirigenti autoctone e poteri imperialisti. Si consegna quindi ai nuclei rivoluzionari dei paesi orientali e alla stessa Internazionale la responsabilità di analisi concrete e differenziate sulle realtà dei singoli paesi e dei diversi soggetti politici, che si propongono di guidare i popoli “orientali” alla loro emancipazione dal gioco coloniale o semicoloniale. Se ripercorriamo i complessi rapporti tra Kuomintang e Partito Comunista Cinese per fare solo un esempio (ma di grande rilievo) vediamo quanto, storicamente, questa indicazione sia pesata. Sul secondo punto assistiamo a una vera rottura epistemologica nel campo del socialismo: viene affermata con forza, sia pure anche qui facendo appello alla necessaria sperimentazione, la possibilità di vie alternative di cambiamento delle forme economico-sociali rispetto a quelle dei paesi capitalistici avanzati. La rottura con la tradizione della seconda internazionale ma direi con lo stesso pensiero occidentale, è nettissima.
Una tradizione all’opera
Le tesi sulla questione coloniale approvate dal secondo congresso del Komintern sono l’inizio di una storia e di una cultura che attraversano, tra infinite contraddizioni, tutto il XX secolo, acquistano una centralità nei decenni della decolonizzazione, si inabissano al passaggio del millennio e sembrano tornare, in forme molto diverse e in un contesto profondamente mutato, in questa fase.
Dopo la grande spinta del Congresso internazionale del 1920 e dopo il Congresso dei Popoli d’Oriente, nel settembre dello stesso anno, che ne rappresenta la prima concreta applicazione, si inizia a sedimentare un lavoro culturale (che ha nelle decisioni di Baku il primo impulso) i cui effetti saranno profondi. Stiamo parlando della costruzione di istituzioni formative e di ricerca, di riviste, di associazioni di studiosi, del forte investimento in studi in una pluralità di settori dall’archeologia alla linguistica. Protagonisti di questo sforzo politico e culturale sono uomini come Mikhail Pavlovich (pseudonimo rivoluzionario di Mikhail Lazarovich Vel’tman) protagonista, non molto visibile ma importante, al congresso del Komintern e soprattutto a Baku. Pavlovich fu la figura chiave della costituzione e direzione dell’istituto di studi orientali e dell’influente associazione scientifica sovietica per gli studi orientali, l’esponente più noto e probabilmente più forte teoricamente di un quadro dirigente e intellettuale “specialista” dell’Oriente, che in tempi sorprendentemente rapidi occupa posizioni di responsabilità nel partito Bolscevico, nell’Internazionale, nelle istituzioni sovietiche, nei servizi di sicurezza, nell’Armata Rossa. Un quadro fatto di personalità che vengono da tutte le nazionalità sovietiche ma anche di militanti comunisti internazionali e in cui si saldano una curata preparazione teorica, esperienze politiche (e anche militari), saperi specialistici in un quadro unitario prodotto dalla elaborazione leninista. Attenzione particolare meritano poi le iniziative e le strutture di formazione rivolte a giovani quadri politici dei paesi orientali, provenienti tanto dai partiti comunisti, che si stanno formando, quanto dai movimenti di liberazione nazionale. Troppo lungo sarebbe anche solo accennare alle tante personalità che negli anni 20 frequentarono l’Università Comunista dei Lavoratori d’Oriente o la sua derivazione dedicata alla Cina e intitolata a Sun Yat-sen (a conferma di una precoce e speciale attenzione rivolta alla situazione cinese) o anche iniziative molto meno note come la scuola “Lenin” di Vladivostok, rivolta soprattutto a giovani cinesi e coreani. Basti dire che tra i partecipi di questi corsi vi furono Deng Xiaoping, Ho Chi Minh e persino Yomo Kenyatta.
Ripercorrere il dibattito serrato che attraversò questa cultura “orientale” leninista nella dialettica con le vicende del movimento comunista internazionale e con lo sviluppo delle lotte rivoluzionarie prima in Asia poi in Africa e America Latina sarebbe assai interessante (e parte non piccola di una comprensione adeguata del ‘900) ma esula dai compiti e dalle dimensioni di questo lavoro.
È importante invece rilevare come si struttura, con caratteristiche inevitabilmente assai variegate ma anche con tratti unitari, una vera tradizione culturale, un punto di vista sul mondo. Inevitabilmente una tradizione di forte impatto politico è oggetto di una costante attenzione critica, da più versanti. Ci sembra interessante individuare e discutere due tendenze critiche, significativamente opposte, almeno all’apparenza.
La prima e assai diffusa reazione all’iniziativa di Lenin verso il mondo coloniale è una orientalizzazione dello stesso bolscevismo. Si potrebbe utilizzare a questo proposito (con qualche licenza, certo) la nozione gramsciana di assedio reciproco. Mentre per Lenin la questione orientale (nella sua già indicata identificazione con la questione dell’emancipazione dei popoli delle colonie e delle semicolonie) è un modo per ampliare il fronte di lotta al capitalismo e all’imperialismo, per l’enorme operazione ideologica che tende, dai primi giorni dopo la Rivoluzione d’ottobre ad oggi, a identificare il comunismo come fenomeno orientale, l’obiettivo è quello di circoscriverne la natura nel recinto dell’arretratezza storica. D’altra parte, negli ultimi anni, avanza un fronte critico opposto, quello che parla di Red Orientalism (Orientalismo Rosso!) usando - abbastanza creativamente - il celebre concetto che Edward Said ha usato per descrivere come la cultura europea dell’età coloniale (e quella dei cosiddetti Area Studies statunitensi che ne sono i legittimi eredi) avesse costruito un concetto di Oriente funzionale al proprio dominio. Secondo questi critici la sistematizzazione del pensiero leninista riguardo l’Oriente sarebbe stata funzionale esclusivamente alla politica di potenza dell’Urss, avrebbe recuperato abbondantemente lessico e concetti dell’orientalismo occidentale e di quello russo prerivoluzionario e sarebbe sostanzialmente vettore di una idea di “missione civilizzatrice”. Nel più puro stile orientalista. Questa tipo di ragionamento, che pure pone alcuni punti da indagare (in particolare che cosa e in che forme la conoscenza sovietica dell’Oriente eredita dagli studi orientalisti della Russia prerivoluzionaria) salta alcuni passaggi fondamentali e in particolare l’opzione nettissima dei Bolscevichi per la soggettivazione dei popoli delle colonie ed anche la radicale critica, che viene da Lenin direttamente, ad ogni idea stereotipata e predeterminata dello sviluppo delle società orientali, ad ogni evoluzionismo occidentale universalizzato. Comunque lo si voglia giudicare la tradizione di studi orientali che prenda vita con il pensiero di Lenin e la Rivoluzione d’ottobre e poi si articola enormemente quando se ne appropriano i concreti movimenti rivoluzionari del ‘900 ha una “internità” alle dinamiche complesse dei popoli dei paesi che hanno combattuto il colonialismo e il neocolonialismo, che la rende non accostabile al sapere orientalista come lo hanno definito Said e poi gli studi postcoloniali. Ovviamente non si tratta di rivendicare una qualche “purezza”, la differenza è differenza di collocazione. Ed è differenza radicale.
Molto difficile da affrontare organicamente, in conclusione, è il tema che in più punti del nostro argomento abbiamo incrociato e che riveste un indubbio interesse al punto da essere evocato anche nel dibattito mainstream. Quando una rivista come Limes riconduce l’intrinsichezza alla Russia di classi dirigenti africane che mettono alla porta la Francia ai legami nati in quelle istituzioni formative che abbiamo visto nascere e moltiplicarsi su indicazione del lontano Congresso di Baku, quando solidarietà antimperialiste antiche producono eventi clamorosi come l’iniziativa sudafricana contro Israele, quando tornano centrali (certo in forme assai diverse dal passato) i rapporti tra Russia e Cina, quando le cancellerie occidentali trovano inspiegabile la posizione dell’India sulla crisi ucraina, non c’è dubbio alcuno che la tradizione politica e intellettuale che abbiamo ricostruito viene chiamata in causa.
Un approfondimento particolare meriterebbe la vicenda dei cambiamenti della politica russa negli ultimi trent’anni. Ci limitiamo qui a segnalare una traccia. Non c’è dubbio che la prima (e forse decisiva) rottura dell’eltsnismo, cioè di una collocazione della Federazione Russa completamente subalterna all’occidente, politicamente e culturalmente, è legata ad un nome preciso: Evgenij Maksimovič Primakov. E alla sua politica che una fonte ostile ma attenta come Samuel Huntington definisce precocemente “antiegemonica”. Ma chi è Evgenij Primakov? È indiscutibilmente un prodotto tipico di quella tradizione politica e culturale che abbiamo descritto, anzi nell’ultima fase della vita dell’URSS ne è il rappresentante più autorevole. Laureato nel 1953 in studi orientali, corrispondente dal Medio Oriente per Radio Mosca e per la Pravda, è protagonista per decenni dell’analisi e dell’iniziativa sull’ “Oriente” in alcuni dei gangli decisivi della complessa architettura sovietica: gli istituti di ricerca, l’Accademia delle Scienze e, ambito non certamente secondario, il KGB. Anzi come responsabile della rilanciata, nel 1979, Associazione per gli studi orientali, Primakov è l’erede anche formale di Mikhail Pavlovich, al cui lavoro esplicitamente si ricollega. Con Primakov in epoca post sovietica prima Ministro degli Esteri, poi Presidente del Consiglio la collocazione russa cambia sostanzialmente, e se sotto il profilo simbolico colpì l’interruzione del viaggio a Washington alla notizia dell’inizio del bombardamento del Kosovo, è la “dottrina Primakov” cioè il progetto di costruzione di un asse strategico con Cina e India e l’attenzione al ruolo dell’Iran, che definisce tratti salienti di una nuova collocazione internazionale della Russia in funzione - si direbbe con antico termine - di contrappeso al ruolo degli USA. E ancora una volta un filo rosso tra passato e presente appare evidente.
Ovviamente cautela e attenzione sono d’obbligo: è sbagliata e sterile ogni sovrapposizione che non tenga conto di una situazione del mondo che la storia dell’ultimo secolo ha trasformato profondamente, ma allo stesso tempo è assurdamente miope non vedere le lunghe tendenze che connettono la frattura rivoluzionaria leninista, le lotte anticoloniali della seconda metà del ‘900 (potentemente spinte dalla vittoria sovietica nella seconda guerra mondiale e dalla Rivoluzione Cinese), le resistenze di fine secolo con l’odierna lotta per il mondo multipolare. Il Sud Globale è erede dell’Oriente Globale delineato negli anni Venti e della lotta per la decolonizzazione e - fatto decisivo, perché la soggettività conta - rivendica questa eredità.
Naturalmente questa ricerca sull’Oriente tiene dentro di sé domande anche sull’altro polo, sull’occidente, chiede di fare luce anche sulla nostra parte del mondo. Il discorso di Lenin sull’Oriente è anche il discorso di un nuovo, necessario, rapporto tra il movimento operaio dei paesi capitalistici dell’occidente e i popoli in lotta per la liberazione dal giogo coloniale. La Rivoluzione russa, come si è detto, viene vista come il ponte tra queste due realtà. La sconfitta del movimento operaio e del marxismo in occidente, le cui durissime conseguenze storiche appaiono in questa fase particolarmente evidenti e devastanti, pongono problemi enormi. E di questo bisognerà riparlare.
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