venerdì 2 settembre 2022

GORBACIOV E IL MONDO DI OGGI - Leonardo Masella

 Da: https://www.marx21.it - Leonardo Masella (https://www.facebook.com/leonardo.masella1), già della Redazione Nazionale di “Interstampa” e già della Direzione Nazionale del PRC.

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È morto Gorbaciov. Io non condivido per niente le manifestazioni di apprezzamento per l’azione di Gorbaciov che, anche alla luce di ciò che successo dopo, aiutarono alla fine del l’Urss e del patto di Varsavia. 

La controrivoluzione imperialista vinse provocando la cancellazione di tutte le conquiste sociali della Rivoluzione d’Ottobre, anni di privatizzazioni, di disoccupazione e di povertà di massa, il crollo dell’età media di vita, un milione di morti solo all’est, senza calcolare quelli all’ovest e nel terzo mondo, cinque guerre imperialiste (la prima guerra del Golfo, la guerra contro la ex-Yugoslavia, la guerra in Afghanistan, la guerra all’Iraq e quella alla Libia), oltre all’aggressione ai palestinesi, alla Siria e allo Yemen.

La fine del l’Urss indebolì anche il movimento operaio dei paesi capitalisti europei, contribuendo a portare alla fine di tante conquiste ottenute anche per la presenza stessa dell’Urss. 

D’altra parte non condivido i festeggiamenti di alcuni esponenti comunisti per la morte di Gorbaciov. 

Questo è un altro modo per liquidare tutta l’esperienza comunista, perché riconduce il crollo dell’89 al solo Gorbaciov, alle solite categorie del tradimento, del rinnegamento, del revisionismo, che servono solo a consolarsi psicologicamente e a non riflettere sulle cause politiche e teoriche vere di lunga lena che hanno causato quella catastrofe sociale, politica e geopolitica. 

E impediscono di interrogarsi sul perché è potuto accadere, sul perché l’azione controrivoluzionaria dell’imperialismo è potuta passare senza quasi nessuna resistenza popolare.

Gorbaciov non viene dalla luna e un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo. 

Quando la Rivoluzione d’Ottobre non fu seguita dalla rivoluzione negli altri paesi europei a capitalismo sviluppato, come nelle previsioni di Lenin e del movimento comunista di allora, i comunisti dell’epoca dovettero decidere se capitolare e abbandonare il potere o suicidarsi esportando militarmente la rivoluzione russa in tutta Europa, oppure se mantenere in qualche modo e con gli aggiustamenti necessari (anche nella teoria) il potere in Urss. Il “socialismo in un paese solo” fu quindi un ripiegamento, fu la conseguenza negativa della sconfitta della rivoluzione in Occidente a cui fu costretto il potere comunista e sovietico. La non comprensione di ciò è l’errore più grave che hanno fatto e fanno le correnti trozkiste più dogmatiche. Tuttavia questa sconfitta e il conseguente isolamento e ripiegamento in cui fu costretta la rivoluzione condizionarono tutto il processo di costruzione del “socialismo in un solo paese”. E favorirono non solo i processi degenerativi che vi furono dopo Lenin, ma anche e soprattutto l’affermarsi di un “modello” economico (la statalizzazione integrale) e politico-istituzionale burocratico  (partito unico e partito-Stato) che poi sostanzialmente si estese anche alle successive esperienze del cosiddetto “socialismo reale”, anche se è un errore generalizzare ciò che è successo alla fine degli anni ’80 con la formula superficiale e propagandistica di “fallimento del socialismo reale”, visto che anche Cuba, il Vietnam e la Cina sono paesi del “socialismo reale” ma – diversamente dall’Urss e dagli altri paesi del Patto di Varsavia (e dalla Yugoslavia e Albania che non ne facevano parte) – non sono crollati bensì hanno resistito ed oggi sono più vivi e vegeti, e semmai bisognerebbe chiedersi perché.

I lunghi decenni di guerra (calda e fredda) che l’URSS ha dovuto reggere nei confronti del mondo capitalistico-imperialistico (accerchiamento, seconda guerra mondiale, minaccia nucleare, corsa agli armamenti), hanno indotto una centralizzazione autoritaria della vita economica e politica e una sorta di “militarizzazione” del pensiero che, una volta cristallizzatisi in un sistema burocratico di potere, sono sopravvissuti ben al di là delle circostanze che ne avevano favorito l’affermazione e hanno impedito l’affermazione anche sperimentale di una democrazia proletaria e socialista diversa e alternativa alla democrazia borghese e liberale. Assieme a ciò si è costruito un modello economico dimostratosi inadeguato a reggere la competizione col capitalismo imperialistico. Un modello economico i cui assi portanti erano:

– la statalizzazione pressoché integrale della vita economica e sociale e la svalorizzazione totale del ruolo del mercato e del settore privato, errore tanto più grave in paesi che erano ancora alle prese con problemi primordiali di sviluppo a causa della loro arretratezza economica e produttiva;

– una pianificazione rigidamente centralizzata e gerarchica e un dirigismo aziendale che hanno sostanzialmente escluso i lavoratori dalla partecipazione alla gestione delle aziende e alla elaborazione democratica della pianificazione, favorendo fenomeni di corruzione e determinando una oggettiva separazione dei produttori dai mezzi di produzione (statalizzazione senza socializzazione);

– l’inesistenza di un sistema di incentivi (per i singoli e per le imprese), capace di premiare quantità, qualità e spirito di iniziativa individuale e collettiva del lavoro umano, nella sottovalutazione del fatto che il volontarismo stakanovista può realisticamente esistere solo in momenti particolarissimi e limitati nel tempo.

Queste problematiche sono in ultima istanza riconducibili alla grande questione del rapporto tra Stato e mercato, tra economia pubblica e privata, con una presenza del settore pubblico e dello Stato che sia sufficiente, per forza, qualità ed efficienza, a dirigere le scelte strategiche dell’economia pur in presenza di un vasto mercato e di una competizione economica fra imprese private, e non viceversa come avviene nei paesi del capitalismo imperialistico dove sono i monopoli privati a dirigere lo Stato. Si tratta cioè di riconoscere, in questo quadro, il ruolo di strumenti e meccanismi di mercato, sul piano interno e su quello internazionale, nel passaggio per una lunga fase di transizione a forme di socializzazione dei mezzi di produzione e di democrazia socialista (socializzazione e democrazia socialista mai ancora realizzate in nessun paese del mondo), oggi non prefigurabili.

La Cina, anche sulla base di un bilancio marxista dell’esperienza sovietica, ha cambiato radicalmente per tempo modello economico con risultati oggi sotto gli occhi di tutti. La linea che si affermò nel Partito Comunista Cinese alla fine degli anni ‘70, dopo la morte di Mao e la sconfitta delle posizioni marxiste-leniniste dogmatiche della “banda dei quattro” e del “soggettivismo” e del “volontarismo” economico della Rivoluzione Culturale, sta proprio nella ripresa dei temi sollevati da Lenin nella NEP e anche nella loro trasformazione da una fase tattica e breve di convivenza fra Stato e mercato, in un cambiamento strategico di lunga durata necessario anche per una nuova concezione di socialismo molto diversa dalla statalizzazione dei mezzi di produzione. Peraltro, il socialismo anche nelle concezioni di Marx non è mai stato inteso come “statalizzazione” ma semmai come “socializzazione” dei mezzi di produzione, socializzazione mai esistita finora nè in Urss nè in altri altri paesi a potere comunista e rivoluzionario.

L’altro limite fondamentale del “socialismo reale” che, mixato assieme alla stagnazione economica, ha portato al crollo di alcuni paesi del socialismo reale fra cui l’Urss, risiede – come dicevo – in un modello politico-istituzionale autoritario che ha frenato lo sviluppo di una democrazia socialista e proletaria, nella cornice di uno Stato di diritto, con solide radici nella società. Questo spiega, tra l’altro, la facilità con cui (venuto meno il protettorato politico-militare dell’URSS) i sistemi politici dell’Est europeo sono crollati. La mancanza di un’autentica democrazia popolare, a partire dalla abolizione dei Soviet dopo la morte di Lenin, il venir meno di una dialettica democratica nel partito e nello Stato, l’identificazione del partito con l’apparato statale, il distacco tra potere e masse lavoratrici e popolari, il monolitismo verticistico e burocratico del potere politico, hanno prodotto in molti casi la stagnazione e la sclerosi del pensiero teorico, trasformando il marxismo in ideologia di Stato, sempre meno attrattiva agli occhi delle masse, in un faro spirituale e quasi religioso invece che in una analisi scientifica della realtà e in una bussola per l’azione. E hanno privato la società e il partito stesso di quegli strumenti critici auto-correttivi capaci di far capire per tempo le modificazioni della realtà e le riforme che si rendevano necessarie per rafforzare e rilanciare le basi della rivoluzione e del socialismo.

Oggi, dopo 32 anni, possiamo dire che quella controrivoluzione è fallita. Il gruppo dirigente russo attorno a Putin e quello cinese guidato dal partito comunista, con le radicali innovazioni economiche che hanno evitato la crisi e il crollo dell’Urss, hanno modificato radicalmente la situazione, non solo hanno impedito che Russia e Cina diventassero colonie americane (come sono in gran parte i paesi europei), ma hanno portato la Russia e la Cina ad essere Stati prestigiosi di riferimento per tutto il mondo e ad aprire la strada ad un mondo multipolare, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per riaprire il processo storico di transizione del mondo verso il socialismo. 

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