Da: http://www.bottegaeditoriale.it -
Leggi anche: COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA MASSONICA P2 - RELAZIONE DI MAGGIORANZA dell'onorevole TINA ANSELMIQuella di Bologna fu strage fascista e di Stato, come le altre - Sergio Cararo
Per Pellegrini editore una sorta di provocatorio “Quarto grado di giudizio”. Fra i tristi protagonisti, Andreotti, Gelli, Maletti…
Nel
saggio Il
Golpe Borghese. Quarto grado di giudizio. La leadership di
Gelli, il “golpista” Andreotti, i depistaggi della “Dottrina
Maletti” (Pellegrini
editore, pp. 272, € 16,00) viene affrontato, con grintoso spirito
giornalistico, un argomento particolarmente delicato e spinoso: la
ricostruzione di quanto accadde nella notte fra il 7 e l’8 dicembre
1970, quando le istituzioni democratiche del nostro paese rischiarono
di essere violentemente sovvertite dai neofascisti guidati dall’ex
comandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, e manovrati
nell’ombra dal “Gran Maestro” della loggia massonica deviata P2
Licio Gelli. Il tutto con la probabile (la documentazione è
credibile, ma non è sufficiente per dare una parola definitiva)
complicità di Giulio Andreotti.
L’autore è il nostro
direttore Fulvio Mazza, che non avrebbe bisogno di ulteriori
presentazioni, ma del quale evidenziamo comunque come sia un
affermato storico contemporaneista, con, al suo attivo, numerosi
saggi editi, fra gli altri, da: Esi, Franco Angeli, Istituto della
Enciclopedia italiana (“Treccani”), Laterza, Pellegrini,
Rubbettino.
Il
saggio nasce e si verifica anche e soprattutto tramite la
documentazione, spesso inedita, proveniente da varie fonti:
innanzitutto il Sid, la Commissione parlamentare P2 e la Commissione
parlamentare stragi. Una documentazione che viene anche riportata per
alcuni atti più qualificanti. (Bottega editoriale)
La
demonizzazione dei “rossi” come “Antefatto” e pretesto del
“Golpe”
Il primo capitolo si occupa di esaminare i fatti, la cui trattazione è approfondita in dieci paragrafi. Nel primo paragrafo, Il contesto politico: per le Forze armate il Pci e la sinistra sono i nemici e la Dc non riesce più a garantire l’ordine costituito. L’influenza delle vicine dittature, l’autore analizza i presupposti della cospirazione: la pulsione golpista fermenta all’interno di una «classe arrogante che avvertiva come prossimo il termine del proprio potere di casta». Il teorema è suggestivo quanto verosimile: il “Golpe Borghese” come ultimo colpo di coda di un’oligarchia agonizzante, che, non potendo più contare sulla prevalenza degli elementi più conservatori all’interno della Democrazia cristiana dopo la caduta del governo Tambroni, punta a riprodurre in Italia una situazione analoga a quella della Grecia dei colonnelli, dove tre anni prima, con il pretesto di una (inesistente) minaccia comunista, una cricca di militari corrotti (finanziati dietro le quinte dai ricchi armatori come Onassis e Niarchos: i corrispettivi dei nostri Calvi e Sindona) si era impadronita dello Stato, gettando in carcere migliaia di oppositori. Mazza sottolinea come nel corso degli anni ’60, dopo la prima esperienza del centrosinistra, la Dc sia diventata un «marasma correntizio sempre più oscillante fra il conservatorismo, che la permeava fortemente, e le nuove istanze progressiste che vedevano crescere i consensi tra le sue fasce giovanili, intellettuali e fra quelle legate al mondo del solidarismo cattolico e del sindacalismo cislino». Dal canto suo, l’opposizione di sinistra, egemonizzata dal Pci ancora legato ideologicamente all’Urss, è maggioritaria all’interno del sindacato più rappresentativo, la Cgil, e l’“Autunno caldo” ha dimostrato come le istanze della classe lavoratrice siano state in grado di ottenere una conquista fondamentale come lo Statuto dei lavoratori, che ha eroso notevolmente lo strapotere dei “padroni delle ferriere” italiani.
Una sentenza di assoluzione che rimette in circolo le tossine eversiveNel
secondo paragrafo, Un
“Quarto grado di giudizio” che fissa la “verità storica”: i
golpisti vengono assolti solo grazie ai depistaggi dei vertici del
Sid e di quelli dello Stato,
l’autore puntualizza la differenza fra “verità storica” e
“verità giudiziaria”: tre mesi dopo il fallito “Golpe”,
uno scoop di Paese
Sera scoperchia
il vaso di Pandora ma il processo celebrato tre anni dopo si conclude
con una generale assoluzione. Mazza elabora così un immaginario
“Quarto grado di giudizio” ed emette un’ipotetica “sentenza
storica”. L’espediente letterario escogitato dall’autore
scavalca lo steccato della pura e semplice indagine documentale, e si
spinge oltre, entrando in una dimensione per così dire “metafisica”
del Potere: Mazza si addentra in un labirinto di intrighi, depistaggi
e complotti, si districa in una ragnatela di silenzi e di complicità,
ma il volto del Tessitore resta sempre nascosto in qualche cono
d’ombra, in qualche nicchia segreta, negli scantinati più sordidi
della politica di casa nostra. Un’atmosfera che ricorda la
machiavellica e malsana atmosfera di Todo
modo,
il romanzo di Leonardo Sciascia portato sullo schermo da Elio Petri:
mandanti occulti, strategie ricattatorie, misteri
irrisolti.
“Malloppo
originario”, “Malloppone/Malloppastro” e “Malloppini”
Nel
terzo paragrafo, Gli
importanti elementi innovativi: la doppia censura ai tre (e non due)
“Malloppi”, l’isolamento all’interno del Sid, del capitano
Labruna, la “Dottrina Maletti”,
Mazza architetta il dispositivo del suo “Quarto grado di giudizio”:
il “Malloppo originario” è la cospicua stesura, appunto
originaria, delle indagini condotte dal capitano Antonio Labruna; il
“Malloppastro” (termine introdotto proprio dall’autore per
evidenziare le clamorose manipolazioni effettuate dal superiore
diretto di Labruna, generale Gian Adelio Maletti, anche su
suggerimento dell’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti) è
la versione epurata; i “Malloppini” sono quanto resta dopo due
successive ondate di tagli e censure. In altri termini, i
“Malloppini” sono paragonabili a una costata alla fiorentina più
volte mordicchiata finché non rimane qualche brandello di carne
ancora attaccata all’osso. Le identità dei partecipanti a questo
banchetto restano oscure nella maggior parte dei casi, immerse in una
foschia torbida su cui si tenta faticosamente di proiettare un fascio
di luce: «Il confine fra il lecito e l’illecito era assai labile e
spesso fu infranto per ragioni assai poco nobili», così sintetizza
l’autore per quanto riguarda l’operato del Sid, il Servizio
informazioni della difesa. Dall’indagine di Labruna scaturisce un
complesso mosaico sulla cosiddetta “Strategia della tensione”,
inaugurata dalla bomba di piazza Fontana (che, nel piano originario
dei golpisti, pare dovesse sincronizzarsi con il “Golpe
dell’Immacolata Concezione”) e culminata con l’occupazione,
anche se non integrale, del Viminale; ma, lungo l’itinerario che
porterà al processo, Maletti e Andreotti si dedicano a una
sistematica sottrazione di tasselli, vanificando il paziente lavoro
del loro subordinato, anzi, spingendosi fino a un vero e proprio
scempio della sua opera. Maletti, in particolare, è fautore di una
strategia occultatrice che l’autore battezza come “Dottrina
Maletti”. Il teorema machiavellico elaborato da Maletti giustifica
la copertura offerta ai neofascisti con l’esigenza di non infangare
la reputazione degli apparati di sicurezza nazionali. Un cinismo che
mette i brividi al pensiero che il Sid è comunque un organismo
finanziato dai contribuenti…
Macchinazioni
massoniche, connivenze nixoniane, triangolazioni repressive
Il
quarto paragrafo, Le
undici ipotesi riformate e confermate: dal sostegno degli Usa con
Giulio Andreotti capo del governo, al ruolo di Licio Gelli, al “Piano
antinsurrezionale”,
mette in rilievo gli ambigui intrecci fra funzionari ministeriali,
esponenti della destra eversiva e “amici degli amici” in odore di
mafia. Aspetti sui quali Labruna aveva indagato a fondo, ma delle sue
deduzioni nei “Malloppini” non è rimasta traccia: notte e
nebbia. Il tramite delle connessioni fra cospiratori, neofascisti e
mafiosi è ampiamente ipotizzabile nella massoneria deviata, vale a
dire la famigerata loggia Propaganda 2 creata dalla “primula nera”
Licio Gelli: va sottolineato anche l’atteggiamento fortemente
ambiguo dell’ambasciata statunitense, che durante gli anni fangosi
dell’amministrazione Nixon non mancava mai di esercitare pressioni
anticomuniste. Inoltre vi è qualche sospetto che all’interno sia
dell’Arma dei Carabinieri che dei vertici dell’Esercito si
annidasse qualche fautore di una esasperazione in senso repressivo
(leggi: antimarxista) di un certo “Piano antinsurrezionale” (già
ampiamente collaudato all’epoca dell’attentato a Togliatti e
sporadicamente durante i moti di piazza contro il governo Tambroni)
denominato “Esigenza Triangolo”.
Dall’analisi
di documenti riservati emerge la mefistofelica ambiguità del “Divo
Belzebù”
Da due fonti significative (più attendibile quella proveniente dagli archivi diplomatico-militari Usa, discussa l’altra estratta dal “Testamento politico” di Borghese) emerge un particolare alquanto inquietante della cospirazione golpista: il ruolo assegnato a Giulio Andreotti come premier dell’esecutivo “di salute pubblica” consequenziale alla svolta autoritaria (ed è questo il comune denominatore di entrambi i documenti). Nel “Testamento” di Borghese compare anche il nome di un elemento di raccordo fra Andreotti e i golpisti: un fido collaboratore di Andreotti, Gilberto Bernabei. Secondo Borghese, il vero autore della telefonata che lo indusse a mandare all’aria il “Golpe” sarebbe stato proprio Bernabei su ordine di Andreotti, e non di Gelli. Sottolinea l’autore che comunque, al di là della paternità della telefonata, sia Andreotti che Gelli «avevano in quel frangente (come in altri…) una visione comune», e che inoltre, «Dalle carte Usa emerge un atteggiamento dell’amministrazione Nixon perplesso ma sostanzialmente disposto ad appoggiare il “Golpe”». In definitiva, si può tranquillamente congetturare (dato che prove certe, purtroppo, non ne esistono, e se mai ne fossero esistite sono state abilmente fatte sparire) che personaggi di grosso calibro come l’ambasciatore statunitense a Roma Graham Martin, il responsabile della Cia in Italia Hugh Fendwich e, dulcis in fundo, addirittura l’ex ufficiale nazista Otto Skorzeny, il sedicente liberatore di Mussolini, fossero tendenzialmente favorevoli al complotto ma solo nel caso in cui questo fosse andato in porto grazie all’appoggio determinante dell’Arma dei Carabinieri, elevando alla guida del governo un democristiano conservatore gradito all’amministrazione nixoniana come Andreotti, in funzione anticomunista, antisovietica e filoatlantista. Un atteggiamento analogo a quello dell’amministrazione Johnson che, tre anni prima, aveva avallato il brutale colpo di Stato dei colonnelli in Grecia senza mai stigmatizzare le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dalla giunta militare di Papadopoulos.
Nel quinto paragrafo, Le altre conferme: le relazioni con il conservatorismo politico e sociale, da Pacciardi a Sogno. I rapporti con massoneria e Msi; la “Strategia della tensione”, l’autore, preso atto della sostanziale estraneità della massoneria al progettato “Golpe” (solo la loggia P2 di Gelli ne era al corrente), sottolinea il ruolo sostanzialmente marginale del Msi di Almirante, sicuramente ben disposto verso un’eventuale svolta autoritaria ma titubante nel procedere decisamente alla mobilitazione dei suoi militanti in appoggio al “Golpe”. Come l’ambasciata Usa, la Confindustria e il Vaticano, anche gli eredi del fascismo non si espongono più di tanto, timorosi di finire intrappolati da un eventuale fallimento del “Golpe”. Anche esponenti conservatori con un passato antifascista come Edgardo Sogno e Randolfo Pacciardi (la Resistenza per il primo, la Guerra di Spagna per il secondo) risultano invischiati nelle trame golpiste più che altro per l’ingenua aspirazione di rivestire ruoli di primo piano in un eventuale esecutivo a guida Andreotti.
Gli
uomini che sapevano troppo: una scomparsa irrisolta e una morte
sospetta
Nel
sesto paragrafo, I
sette punti oscuri: il sospetto assassinio di Borghese,
il Dossier sulle
Forze armate, la scomparsa di De Mauro, il falso sul terzo
“Malloppino”, il “contrordine”,
l’autore riflette sulla scomparsa del giornalista De Mauro,
notoriamente di sinistra ma con radici nell’estrema destra: fu
decisa perché avrebbe potuto sprigionare rivelazioni scottanti sui
rapporti fra mafia e golpisti? Potrebbe fare il paio con la morte
improvvisa in circostanze mai chiarite del tutto – Mazza adombra
esplicitamente l’assassinio – dello stesso Borghese in Spagna? Il
provvidenziale attacco di pancreatite che uccide Borghese a Cadice
nell’estate del 1974 avviene in compagnia di una donna: secondo la
testimonianza di un noto terrorista nero, Vincenzo Vinciguerra,
la partner sessuale
del principe al momento del decesso non era altro che una agente del
Sid… Tutto da dimostrare, ma che i servizi segreti di ogni paese si
servano spesso e volentieri di avvenenti quanto letali creature
femminili non è una novità… Ancora più inquietante e intricata
la vicenda della scomparsa di De Mauro, ex legionario della X Mas di
Borghese (al quale era talmente devoto da battezzare sua figlia con
il nome Junia), rapito e sicuramente eliminato dalla mafia tre mesi
prima del “Golpe”: cosa sapeva? E chi decise di commissionare la
sua eliminazione alla mafia?
Quanto a due poteri forti che in
Italia contavano parecchio, la Confindustria e il Vaticano, l’autore
sottolinea che pare assai improbabile una loro totale estraneità
alla vicenda golpista. Non va dimenticato che gli industriali
italiani (destinatari fra il 1940 e il 1943 di sostanziose commesse
belliche) iniziarono a sganciarsi da Mussolini solo quando
cominciarono a piovere le bombe angloamericane sulle loro fabbriche.
Altrettanto ambiguo l’atteggiamento di un papa storicamente
importante come Pio XII: non solo salutò con esultanza l’ingresso
del generalissimo Franco a Madrid ma durante l’ultimo conflitto,
pur di evitare rappresaglie anticattoliche da parte di Hitler, tacque
per anni prima sulla politica antisemita del Terzo Reich e poi
sull’Olocausto. Un silenzio rimasto impenetrabile nonostante
numerose informative riservate in proposito anche da parte di
esponenti antinazisti del clero polacco. Un dettaglio, quello della
triade ambasciata Usa-Confindustria-Vaticano che, più o meno
tacitamente, sta alla finestra in attesa degli eventi (per poi magari
saltare repentinamente sul carro del vincitore) scarsamente preso in
considerazione dalla memorialistica sul “Golpe Borghese”, e che
invece varrebbe assolutamente la pena di approfondire.
In questo
stesso paragrafo si parla del falso giudiziario che caratterizzò il
terzo “Malloppino”. Questo fu consegnato da Andreotti al
procuratore della Repubblica di Roma, Elio Siotto, il 15 settembre
1974. E, fin qui, nessun problema. Il fatto è – evidenzia Mazza –
che «nel documento si descrive anche l’avvenuto svolgimento di due
riunioni che “si terranno/si tennero” il 23 e il 29 settembre
1974. Una vera e propria preveggenza! Come è stato possibile che un
documento potesse contenere informazioni afferenti a fatti accaduti
dieci giorni dopo la sua consegna? La gravità dell’episodio –
conclude Mazza – è acuita dal fatto che, mentre gli altri
documenti che abbiamo visto erano “solo” atti del Sid, i
“Malloppini” erano anche e soprattutto atti
giudiziari».
Qualcuno
molto in alto allunga il piede per far inciampare Labruna…
Il
settimo paragrafo, Le
indagini di Labruna colgono nel segno. I neogolpisti organizzano la
vendetta e vengono baciati dalla fortuna. Riemerge prepotentemente la
“Dottrina Maletti”,
esplora le inquietanti connivenze fra apparati di intelligence e
vere e proprie mine vaganti neofasciste. Secondo l’autore, che cita
il presidente della Commissione stragi, Giovanni Pellegrino (che, a
sua volta, cita lo stesso Maletti), appare chiaro che i vertici del
Sid abbiano deliberatamente offerto copertura al terrorismo
neofascista in cambio di un sostanziale appoggio in quella che viene
definita come “Guerra fredda interna”. Il discredito vendicativo
gettato dagli ex golpisti sulla figura di Labruna, che viene
addirittura accusato di connivenza con l’eversione neofascista che
lui tentava di smascherare, annichilisce definitivamente il suo
sforzo investigativo, e sul fallito “Golpe Borghese” cala una
saracinesca di impenetrabile omertà.
Un
dossier incandescente raffreddato e sterilizzato per renderlo
innocuo
L’ottavo
paragrafo, I
documenti vengono finalmente mandati alla Procura. Ma prima si
epurano i nomi imbarazzanti e quelli degli “amici”: Cangioli,
Gelli, Paglia e Torrisi, per esempio,
esamina l’epurazione del “Malloppone” e la sua metamorfosi nel
“Malloppastro”, poi ulteriormente spezzettato nei tre
“Malloppini”. Sembra una gara a eliminazione in stile “Grande
Fratello” televisivo: uno dopo l’altro i partecipanti svaniscono
come spettri dal Dossier originario
di Labruna. In primo luogo il “Gran Maestro” Gelli, poi
l’ammiraglio Torrisi seguiti da vari esponenti della destra
eversiva coinvolti nelle “trame nere”. Una volta sottoposto
all’attenzione del ministro Andreotti, lo scarnificato
“Malloppastro” subisce ulteriori mutilazioni; voraci come squali,
i suoi manipolatori continuano a sbranarlo, pezzo dopo pezzo.
Evaporano così altri dettagli fondamentali: la mappa della capillare
rete territoriale della pericolosa organizzazione paramilitare
neofascista denominata Fronte nazionale, i suoi inquietanti legami
internazionali con la Cia nixoniana, il ruolo cospirativo dell’ex
capo partigiano monarchico Edgardo Sogno. Insomma, una sciarada che
fa impallidire la memoria storica delle mistificazioni eseguite sulle
prove accusatorie da parte dei vertici militari francesi all’epoca
del caso Dreyfus, con Labruna costretto suo malgrado a recitare un
secolo dopo un ruolo analogo a quello dell’onesto maggiore
Picquart…
La
sconcertante indulgenza della magistratura nei confronti dei
golpisti
Nel
nono paragrafo, Il flop del
processo: l’accusa minimizza, le prove vere sono state tagliate e
quando riemergono è troppo tardi! La Cassazione sentenzia: il
“Golpe” non è mai avvenuto,
emerge la pesante ingerenza di Andreotti sui già epurati
“Malloppini” allo scopo di sminuirli e disinnescarli
ulteriormente. In soccorso del presunto “Divo Belzebù”
interviene anche la Cassazione, che amalgama le tre indagini in un
unico pastone, dirottato a Roma dove all’epoca il rapporto fra il
pubblico ministero Claudio Vitalone e Andreotti era paragonabile a
quello fra l’unghia e il dito: il processo si conclude con una
generale assoluzione. «Se l’unico vero investigatore era stato
ostacolato, isolato e screditato; se l’accusa era sostenuta da chi
era in stretta sintonia con Andreotti che, in ogni occasione,
minimizzava e screditava l’inchiesta stessa, cosa ci si poteva
attendere di più?» conclude l’autore. Lo strascico finale risale
al 1991, quando Labruna, dopo un «acuto e lungo travaglio
interiore», decide consapevolmente di infrangere il segreto
d’ufficio e consegna al giudice Salvini la copia originale
dell’intera documentazione investigativa sul “Golpe Borghese”:
la magistratura potrà quindi vedere anche i numerosi atti censurati
da Andreotti e Maletti, ma l’oblio della prescrizione impedisce
ogni ulteriore procedimento penale.
L’ombra
inquietante del grande Burattinaio
Il decimo paragrafo, Il ruolo centrale di Gelli nel “Golpe” è acclarato. Fu sempre lui a indurre Borghese al “contrordine”? O fu Andreotti, capo designato del governo golpista?, affronta quello che potremmo definire, come scriverebbe Jorge Luis Borges, «un enigma che racchiude un mistero in cui è nascosto un segreto». L’enigma è il seguente: Licio Gelli era oppure no l’eminenza grigia del “Golpe Borghese”, vale a dire l’artefice occulto della cospirazione? Un punto è certo: un commando golpista capitanato da Gelli stesso aveva fatto irruzione nel Quirinale per rapire il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Infine, il segreto: fu Gelli a emanare il “contrordine” che arrestò il meccanismo già avviato del “Golpe”, oppure fu Bernabei per conto di Andreotti? Ed ecco le tre ipotesi più attendibili. Primo, Gelli era effettivamente il numero uno del complotto, dato che godeva di libero accesso al Quirinale grazie a un lasciapassare fornitogli (sembra) da Miceli. Il che, al di là del fallimento o meno del “Golpe”, è già di per sé piuttosto allarmante. Secondo, il rapimento di Saragat fu mandato all’aria perché, all’ultimo momento, Gelli venne a sapere che l’Arma dei Carabinieri non avrebbe messo in atto il “Piano antinsurrezionale”, l’“Esigenza Triangolo”, in supporto al colpo di Stato. Terzo, diversi testimoni provenienti da ambienti neofascisti hanno concordemente affermato che fu una telefonata di Gelli a indurre Borghese a impartire il “contrordine” una volta appurato che l’amministrazione Nixon non avrebbe legittimato il “Golpe” (come invece accadde in Cile contro Allende tre anni dopo), e tantomeno avrebbe ordinato ai militari presenti nelle basi Nato in Italia di fornire sostegno logistico ai golpisti, principalmente sul versante delle telecomunicazioni. In sintesi, l’autore perviene a questa conclusione: dalla documentazione di matrice Usa emerge, riferendosi ad Andreotti, «un’ipotesi del leader democristiano quale elemento di contatto di vertice fra i golpisti e l’amministrazione Nixon. Un ruolo che collima con quello che emerge dal “Testamento politico” di Borghese. Una documentazione, quest’ultima, che va sempre presa con le pinze perché, come abbiamo accennato, la sua attendibilità è dubbia, ma non si può ignorare d’emblée. Ciò vale ancor di più perché ci restituisce una figura di Andreotti che risulta perfettamente compatibile con questa degli archivi federali statunitensi».
Nessun commento:
Posta un commento