martedì 24 luglio 2012

Belinskij e Cerniševskij critici del romanticismo in arte.- Stefano Garroni


Scopo di questo scritto è tracciare un rapido panorama delle critiche, che Belinskij e Cerniševskij muovono al romanticismo nell’arte. La possibile utilità di un tale disegno o panorama sta nel fatto che la critica antiromantica sembra caratterizzare profondamente la riflessione moderna sull’arte (ed essere perfino parte del dibattito sul carattere artistico o no dell’attività cinematografica. Ma questa è una questione, la cui analisi rimandiamo ad altra occasione).

Cominciamo con una citazione dal libro di Massimo Mila sul Don Giovanni di Mozart[1]: " … fin dagli impazienti anni di Salisburgo Mozart sentiva ribollire dentro di sé, ma confusamente, una visione tutta diversa e nuova dell'opera in musica, quale spettacolo che potesse porsi veramente come lo specchio di quella cosa meravigliosa che è la vita, con tutte le sue innumerevoli diversità, il fatto degli uomini che si amano, si detestano, si combattono, si ingannano, si aiutano, si sacrificano, fanno le cose più strane, più pazze e più naturali, e tutte, anche le più strampalate, con una certa coerenza interiore insita nella trama della loro coscienza individuale, così e così fatta, imprevedibilmente diversa da creatura a creatura, per cui appunto accade che la vita sia cosi meravigliosamente diversa e che gli stessi fatti che sempre accadono da quando l'uomo è sulla faccia della terra, in realtà siano ogni volta nuovi, perché non sono mai esattamente uguali gli individui che ogni volta si amano, s'ingannano, si trovano, si lasciano, vanno in chiesa a sposarsi, contrattano un mercato, scendono sul terreno a duellare, fanno la guerra, fanno l'amore, piangono, ridono, nascono, muoiono.”[2] Dunque, oggetto della musica mozartiana è la vita, con la sua diversità ed inarrestabile mobilità.

Che questa posizione possa avere significati non solo diversi, ma perfino opposti è del tutto chiaro: la vita può suggerire, infatti, la rappresentazione di un principio fondamentale, ma inafferrabile e indicibile (si pensi all’élan vital, di cui dirà Bergson); può stare a significare, quindi, una concezione romantica, irrazionalistica, mistica dell’arte.

Oppure, con il termine vita può volersi intendere la concreta operosità umana[3], che –seguendo tracciati comprensibili e, dunque, perfino anticipabili in una certa misura- si svolge incessantemente, nel senso che nulla di rigido e fisso può resistere al suo dinamismo[4]; in questo secondo caso, non ci troveremmo entro una prospettiva romantica, sì piuttosto avremmo a che fare con una concezione, perfino assimilabile al classico realismo della dialettica di un Hegel o di un Marx. Per chiarir meglio, vediamo –ricorrendo di nuovo a Massimo Mila-  come un personaggio significativo quale fu Søren Kierkegaard intese appunto la musica di Mozart.

“Per Soren Kierkegaard, il filosofo danese precursore dell'esistenzialismo, Don Giovanni non è né un basso peccatore per incontinenza, né un sottile dottore della trasgressione sacrilega. La sua natura essenzialmente erotica e sensuale viene isolata e proiettata fino a farne un valore assoluto. Don Giovanni è la carne vivificata e quasi spiritualizzata in quanto si fa principio puro; non che riceva in sé qualche nota estranea, come sarebbe, appunto, un'ideologia ribelle o prometeica, ma al contrario restringendosi rigorosamente in se stessa acquista una specie di paradossale purezza: è la pura carne, il puro senso nella sua ideale integrità, non contaminato dalla benché minima intrusione dello spirito … c’era in Kierkegaard un’intuizione profonda dell’identità tra la natura della musica e il flusso vitale. Già nelle Nozze di Figaro la musica di Mozart aveva investito, col suo movimento inesauribile, lo spettacolo della vita. Ma il Don Giovanni è, per Kierkegaard, non soltanto la migliore di tutte le opere, bensì è <qualitativamente diversa da tutte le altre>, in eterno ineguagliabile per la musicalità profonda, <essenziale>.”; per Kierkegaard, “l’<oggetto assoluto della musica> (è) l’immediato nella sua fugacità, e in particolare l’immediato sensuale che, escluso dallo spirito, la lingua non può esprimere.”[5]

Com’è chiaro, la lettura che Kierkegaard propone della musica di Mozart si colloca nella prospettiva, che abbiamo detto romantica, irrazionalistica e mistica. D’altronde la cosa è del tutto comprensibile, se si tien conto della critica che Kierkegaard muove al pensiero di Hegel.

" … il significato più profondo della filosofia di Kierkegaard –leggiamo in Lukàcs[6]- è porre dei punti fissi tra i passaggi sempre più instabili della vita e stabilire differenze qualitative assolute nel rimescolio caotico delle sfumature. Istituire differenze così inequivocabili e profonde tra gli oggetti nei quali si è riscontrata una diversità, in modo che, una volta distinti, la linea che li separa non possa essere più cancellata da alcuna mediazione possibile. Bisogna fare una scelta tra le cose differenziate, non si possono trovare <vie di mezzo>, né <sintesi più alte> che possano risolvere le antitesi <solo apparenti>… In un sistema logico di pensiero la vita non trova mai posto e, sotto questo profilo, il suo punto di partenza è sempre arbitrario e la sua costruzione è solo in sé finita, mentre sotto la prospettiva della vita è una cosa relativa, una tra le tante possibilità. Per la vita non esiste sistema. Nella vita esiste solo il particolare, il concreto." [7]

Ciò che sta a monte di questa posizione kierkegardiana è una determinata interpretazione dell’identificazione hegeliana tra reale e razionale. La quale non viene intesa come affermazione della comprensibilità del reale, anche nelle sue contraddizioni e dissonanze; sì piuttosto nel senso di una riduzione del reale –nonostante tutte le sue opposizioni, scarti e disarmonie- alla linearità del logico o razionale.

In questo senso, Kierkegaard ripropone l’antitesi radicale di vita ragione, di logico ed alogico, che –come abbiamo detto- caratterizza la concezione romantica e, più specificamente, Kierkegaard ripropone la centralità della vita, del vivente, come l’inafferrabile, il non-mediabile, dunque, come il non-riducibile non solo alla logica nel senso della logica formale, ma in qualunque senso del termine (anche quello di <linea di movimento della cosa stessa>, come hegelianamente diceva il Marx dei Grundrisse).

Tornando a Lukàcs, così egli riassume la sua critica a Kierkegaard: “l’autentitcità di Kierkegaard consiste dunque in questo: vedere tutto come nettamente isolato, il sistema dalla vita, un uomo da un altro, uno stadio dall’altro. Vedere nella vita l’assoluto e non dei compromessi insulsi. Ma non è un compromesso vedere la vita senza compromessi? Questo voler restare ancorati all’assolutezza non è piuttosto un modo di sfuggire alla costrizione di tener conto di tutto? Lo stadio non è anch’esso una <sintesi più alta>, negare l’esistenza di un sistema di vita non è anch’esso a sua volta un sistema e il salto non è una mediazione improvvisa? Dietro ogni coincidenza non si cela forse una netta distinzione e dietro la più accanita negazione del compromesso non si cela a sua volta un compromesso? Si può essere autentici di fronte alla vita e stilizzare in forme poetiche i suoi avvenimenti?”[8]

Con grande chiarezza ed incisività Lukàcs ci mostra, dunque, che la Gesinnung kierkegaardiana, il suo orientamento o atteggiamento di fondo, comprende certo la concezione dell’arte, ma va ben oltre, investendo nella totalità le manifestazioni della realtà ed attività umane: non per caso, lo stadio più alto, a cui l’uomo può pervenire secondo Kierkegaard, è quello religioso.[9]

Un autore, che si richiama, invece, alla lezione di Hegel –ed in chiave anti-romantica- è il russo V. Belinskij, il quale a partire dalla metà dell’Ottocento, interviene in modo assai significativo sulle caratteristiche della letteratura del suo paese, all’interno di riflessioni, che vogliono avere un significato universale.[10]

Nei suoi Saggi critici, Belinskij afferma –con tono certamente hegeliano- che “ogni sfera in cui si sviluppa lo spirito umano è costituita da fatti organicamente connessi tra di loro e coerentemente generati gli uni dagli altri …”;  posta questa premessa, è evidente che la “letteratura di un dato popolo” ormai non vive più in uno spazio suo, separato, ma sì al contrario è connessa alla “letteratura in generale, umana, universale”, la cui storia si intreccia con quella di ogni letteratura nazionale. [11]

Infatti, “la letteratura è la suprema ed ultima espressione del pensiero di un popolo, raggiunta con la parola … la letteratura è la coscienza del popolo, espressa storicamente nelle opere verbali della sua intelligenza e della sua fantasia.”[12] Ma essendo la vita nella moderna fase storica sempre più caratterizzata dallo sviluppo di relazioni internazionali ed intercontinentali, ecco che la coscienza di un singolo popolo non può prescindere, per quanto sia radicata nella storia particolare di una data comunità nazionale, dalle influenze che le derivano dall’appartenere ad un certo mondo più generale, di cui la sua specifica particolarità finisce tendenzialmente con l’essere un’articolazione determinata.

La prospettiva, in cui Belinskij si inserisce è, come si vede, quella di chi considera l’arte una delle manifestazioni della vita storico-sociale[13], realisticamente connessa con le problematiche, le contraddizioni, le ambiguità, ma anche la profonda logica interna, della quotidianità stessa, dell’effettivo operare e modo di relazionarsi, che specifica un ambiente, un mondo storicamente dato. In questo senso, possiamo definire realismo (anti-romantico, ovviamente) il modo, in cui Belinskij concepisce la letteratura e l’arte in generale.

Come egli stesso si chiede retoricamente, “sorprende forse … che ai nostri tempi si sia sviluppata in prevalenza questa tendenza reale della poesia, questa intima comunione tra l'arte e la vita? Sorprende forse che il carattere distintivo delle opere più moderne risieda nella loro impietosa sincerità, che in esse la vita è come esposta alla gogna, in tutta la sua nudità, in tutta la sua terrificante mostruosità e bellezza trionfante, che in esse la vita sembri smembrata dal bisturi del chirurgo? Non rivendichiamo un ideale di vita, ma la vita stessa, cosi come essa è. Brutta o bella che sia, non vogliamo abbellirla, perché pensiamo che essa nella sua immagine poetica sia comunque stupenda in quanto è verità e là dove è la verità è anche la poesia.” [14]

Belinskij condivide la rappresentazione della civiltà classica, che possiamo trovare anche in Hegel, e la contrappone alla realtà della vita odierna. Come egli stesso scrive, “ … la loro vita (dei Greci, in epoca classica) si distingueva per totalità, poliedricità, integrità, la loro religione era arte e l’arte religione; il sacerdozio era strettamente connesso all’amminitrazione della vita pubblica; il guerriero in tempo di pace studiava la saggezza e il saggio durante la guerra andava a combattere per la patria; l’artista era un cittadino e l’uomo della strada non poteva vivere senza il teatro … La letteratura greca, nella piena accezione del termine, era l'espressione della coscienza dei cittadini e quindi di tutta la loro vita, religiosa, civile, politica, intellettuale, etica, artistica e domestica. La storia della letteratura greca è strettamente e indissolubilmente connessa alla storia statale e politica del popolo, mentre la storia letteraria dei popoli moderni è la storia di un aspetto soltanto della loro esistenza. E questo perché nel mondo antico tutti i fenomeni della vita sociale erano strettamente e indissolubilmente interconnessi e, compenetrandosi a vicenda, formavano un tutto unico vivo e stupendo, mentre nel mondo contemporaneo tutti i fenomeni sociali agiscono in modo isolato, particolare, staccato. Questa dissoluzione, di così triste e desolante aspetto, specialmente se confrontata al mondo radioso e stupendo della vita greca, è stata per altro necessaria affinché i fenomeni della vita sociale, sviluppandosi singolarmente, si potessero svolgere in modo più pieno, profondo e perfetto, onde ricongiungersi e costituire una nuova integrità unitaria che sarà tanto più elevata del mondo greco quanto più separato sarà lo sviluppo dei singoli fenomeni della socialità nel mondo contemporaneo.”[15]

Dunque, secondo Belinskij alla dilacerazione dei rapporti sociali, tipica della società moderna, alla perdita di armonia ed esplicita razionalità della vita odierna, la risposta non sta nel proiettare l’armonia e la ricomposizione in una sfera immaginativa ed ‘ideale’, ma sì nel comprendere la logica interna della stessa dilacerazione, per potersi muovere a partire da essa nel senso di una ricomposizione –articolata, certo, ma unitaria-  della vita comune.

E questo perché, “può avere una storia soltanto ciò che si sviluppa organicamente avendo come punto di partenza un embrione, il seme di spirito nazionale del popolo (sostanza) che scaturisce dal precedente e genera il susseguente. Può svilupparsi organicamente soltanto ciò che cela in se stesso la sua propria sostanza, simile al seme che cela in sé, come possibilità, la vita e la forma della pianta futura e quindi dotato di vitalità, che nell'osservanza delle condizioni necessarie -terreno, aria, luce, umidità- immediatamente inizia ad esercitare le sue funzioni trasformando il granello in stelo, lo stelo in tronco con rami e foglie, con germogli e frutti.” [16]

Anche in Cerniševskij abbiamo esplicitamente affermata la tesi, secondo cui l’arte è solo un’articolazione, una specificazione della Weltanschauung, nella quale l’autore si riconosce.[17]

A differenza che in Belinskij, però, questa tesi, ora, non si inserisce più in uno sfondo hegeliano, ma in quello di una cultura, che dobbiamo definire –e lo vedremo-  fondamentalmente empiristica.[18] Sarebbe un errore, tuttavia, liquidare la posizione di Cerniševskij come mera espressione di empirismo, appunto.

Infatti, si tratta –a ben vedere- di una esplicita, consapevole polemica contro la condizione reale e quotidiana dell’uomo moderno, condannato ad una vita grigia e misera: il ricorso alla fantasia, alla costruzione di ‘castelli in aria’, di situazioni ed oggetti privi assolutamente di imperfezioni e manchevolezze, non sono che la testimonianza –afferma l’autore russo- della pochezza del  reale.

“L’immaginazione costruisce i suoi castelli in aria soltanto quando in realtà manca non solo una casa buona, ma addirittura un’isba discreta. L’immaginazione si desta quando i sensi non sono occupati: la carenza di una situazione soddisfacente nella realtà è la fonte della vita nella fantasia. Ma appena la realtà diventa accettabile tutti i sogni dell’immaginazione in confronto ad essa ci sembrano poveri e fiacchi. Questo fatto indubbio che i sogni più luminosi vengono dimenticati e ci abbandonano, perché insoddisfacenti, non appena ci circondano i fenomeni della vita reale, dimostra senz’altro che i sogni dell’immaginazione cedono in fascino e bellezza dinanzi alla realtà.”[19]

Al di là dell’evidente rilievo, che sul piano psicologico ha l’osservazione di Cerniševskij (non per caso pochi anni dopo apparirà la freudiana Traumdeutung), è indubbio che la contrarietà espressa nei confronti delle costruzioni, necessariamente smodate, della fantasia sta a significare la forte sensibilità dell’autore russo verso le reali condizioni economico-sociali del comune uomo medio del suo tempo; ma sta a significare, anche, che il richiamo all’empirismo vuol essere, nella prospettiva di Cerniševskij, un’esortazione ad aprire gli occhi sulla realtà e a non farsi sviare da allucinazioni compensatorie.

Al contrario, il romanticismo appare a Cerniševskij come la preferenza data alla vita sognante e non a quella reale, empirica –ciò tenendo conto che se l’immaginazione “vuole elevarsi al di sopra della realtà, può soltanto tracciare dei segni incerti, assolutamente confusi, nei quali non potremo scorgere veramente nulla di determinato e di affascinante.”[20] Ma la posizione di Cerniševskij ha anche un significato morale ed epistemologico.

Morale, nel senso che il rifiuto dei sogni della fantasia significa comprendere che, effettivamente, i desideri umani son soddisfatti quando misurati, equilibrati: “ … i bisogni della vita umana sono soddisfatti dalla normalità perché soltanto una fantasia oziosa ricerca una fantastica perfezione. I nostri sensi, la nostra intelligenza, il nostro cuore -ed anche la fantasia stessa non fa che ricamarci sopra- non sanno niente delle vuote parole, se non ne hanno un’immagine viva e determinata.”[21]
Dunque, in chiave anti-romantica Cerniševskij ripropone un tema classico della riflessione morale, ovvero, quello della preferibilità di una vita, che senza escludere nulla da sé, tutto riduce però ad equilibrio e misura; di una vita, insomma che,platonicamente, fa dell’armonia delle passioni la propria regola o norma.[22]

Anche questo atteggiamento morale si sposa, in Cerniševskij, all’empirismo, ovvero (e questo è il lato epistemologico) alla convinzione che nessun termine può essere effettivamente dotato di senso, se non si congiunge ad una qualche esperienza o sense datum –come si vede, torna la concezione empiristica della conoscenza scientifica, che accetta sì l’astratto, il formale, ma solo a condizione che possa essere ricavato –direttamente o indirettamente- da ciò, che è oggetto dei sensi. Non fa meraviglia, a questo punto, che –per Cerniševskij- in nessun caso sia accettabile un oggetto di pensiero (ovvero, un ente costruito all’interno di una prospettiva teorica), che pretenda di essere completamento o perfezionamentodell’oggetto empirico o rinvenibile nell’esistenza, nel Dasein –per dirlo con il linguaggio della filosofia tedesca.[23]



[1] - M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Torino 1988.
[2] - M. Mila, op. cit.: 20.
[3] - Così si legge in V.Belinskij, Scritti scelti, Mosca 1981: 31 - “Il laboratorio della letteratura … è la società con i suoi interessi e la sua vita.”; ed ancora a conclusione di un discorso su Cervantes, Shakespeare e Walter Scott: “… ecco l'altra faccia della poesia, ecco la poesia reale, la poesia della vita, la poesia della realtà, infine l'autentica poesia del nostro tempo. Il suo carattere distintivo risiede nella fedeltà alla realtà; essa non ritrasforma la vita, ma la riproduce; la ricrea e come uno specchio concavo, riflette in sé, sotto un unico punto di vista, i fenomeni suoi diversi, scegliendo tra essi soltanto quelli che sono necessari per formare un quadro completo, vivo e unitario. Il volume e i confini del contenuto di tale quadro stanno a determinare la grandezza e la genialità della creazione poetica.” (Belinskij, op.cit.: 59).“. Va notato che questa concezione del rapporto arte/realtà, in Belinskij, nasce da un’acuta consapevolezza delle contraddizioni della società moderna, infatti, egli scrive ancora: “… per noi la vita non è più un lieto convito e nemmeno un’oziosa letizia, ma un campo di lavoro, di lotta, di sacrificio e di tormento. Da qui traggono origine la tristezza, la malinconia, la pensierosità e insieme la meditazione di cui è permeata la nostra lirica.” (Belinskij,  op.cit.: 61).
[4] - E’ noto che nell’Ottocento la religione (in particolare nella sua tradizione cristiano-giudaica) fu presa a modello di una cultura, fondata su credenze rigide ed intolleranti verso ogni critica. E’ altrettanto noto che il richiamo alla vita, al vivente –in Hegel, ad es.- ebbe la funzione di criticare tale <positività> della religione. Appunto questo atteggiamento anti-talmudistico, anti-dogmatico troviamo nella poesia di Goethe Prometeorichiamata da M. Mila alla p. 39 del libro, che abbiamo già ricordato: “ Non conosco niente di più meschino/ sotto il sole che voi, dei!/ … Io onorarvi? E perché? …/ Non hai tutto compiuto, da solo, mio sacro, ardente cuore? / … Qui io sto e formo uomini/ a mia immagine,/una razza che sia simile a me:/per soffrire, per piangere, per godere, per vivere -/e non per curarsi di te,/come faccio io!.”
[5] - Mila, op. cit.: 10s.
[6] - G. Lukàcs, , L’anima e le forme, Milano 1975: 75s.
[7] - A riprova di quanto duttile e non unilaterale e rigida sia la lettura, che di Kiekeggard, Lukàcs propone nel testo cit., si consideri questa ulteriore valutazione: Kierkegaard “vide più acutamente di tutti l’infinita mutevolezza di ogni situazione, (nessuno più di Kierkegaard) vide con tanta lucidità come ogni cosa si tramuta nell’altra come nel suo opposto. (Kierkegaard) ci insegnò che, a guardar bene la realtà, si scoprono degli abissi invalicabili in mezzo alla fittissima rete delle mediazioni.” (v. G. Lukàcs, op. cit.: 70).
[8] - v. Lukàcs, op. cit.: 76.
[9] - Su Kiekegaard è ovvio il rinvio a K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, Wien 1949 ed a G. Lukàcs, Die Zerstörung  der Vernunft, Berlin 1954.
[10] - Su Belinskij e su  Cerniševskij, che analizzeremo più avanti, cf. G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Torino 1950.
[11] - V. Belinskij, Saggi critici, Mosca 1981: 15.
[12] - cf. Belinskij, op. cit.: 15, 24.
[13] - Si tratta, d’altronde, di una posizione presente anche in Kant, per il quale “tutti (i diversi) termini del sistema -la logica come l'etica e l'estetica -non sono nient'altro che momenti diversi di un unico grande compito di oggettivazione. (Cassirer,Filosofia delle forme simboliche, 3.1, Firenze 1966: 67).
[14] - cf. Belinskij, op. cit.: 60.
[15] - Belinskij, op. cit.: 22.
[16] - Belinskij, op. cit.: 24.
[17] - N. Cerniševskij, Saggi critici, Mosca 1984: 34s.
[18] - Così Cerniševskij –in op. cit.: 21- caratterizza la tendenza fondamentale della scienza odierna: “rispetto per la vita reale, sfiducia per le ipotesi aprioristiche sia pure piacevoli per la fantasia …”. Come si vede, si tratta di una caratterizzazione della scienza, che sarebbe piaciuta certamenete sia a F. Bacon che a J.S. Mill e che, rispetto a cosa si intenderà per scienza a partire almeno dal secondo Ottocento, mostra una forte inconsapevolezza del ruolo che, appunto nella scienza, giocano astrazione e teoria (ridotte da Cerniševskij –ma anche più tardi da certo marxismo volgare- a meri prodotti della fantasia, quando non siano generalizzazioni di dati empirici).
[19] - Cerniševskij, op. cit.: 27.
[20] - Cerniševskij, op. cit.: 27s.
[21] - Cerniševskij, op. cit.: 31.
[22] - Può essere interessante aggiungere che questo tema dell’imbrigliamento (in tedesco, Bändigung) delle passioni lo ritroveremo anche in Freud, per il quale la ‘normalità’ psichica consiste, appunto, non nel divieto verso questa o quella passione, ma nella riduzione a norma o misura delle passioni stesse.
[23]  - Cerniševskij, op. cit.: 36.

mercoledì 11 luglio 2012

Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa Lenin (1915)




Scritto nel 1915.
Pubblicato per la prima volta nel Sotsial-Demokrat, n. 44, 23 agosto 1915.


Abbiamo scritto nel n. 40 del Sotsial-Demokat che la conferenza delle sezioni del nostro partito all'estero aveva deliberato di soprassedere alla questione della parola d'ordine: "Stati Uniti d'Europa", finché non se ne fosse discusso sulla stampa il lato economico.
La discussione di tale problema aveva preso, nella nostra conferenza, un carattere politico unilaterale. In parte, ciò è forse dovuto al fatto che, nel manifesto del Comitato Centrale, questa parola d'ordine era stata espressamente formulata come parola d'ordine politica ("la prossima parola d'ordine politica..." è detto nel manifesto), e non solo si preconizzavano gli Stati Uniti repubblicani d'Europa, ma si sottolineava specialmente che questa parola d'ordine è assurda e bugiarda "senza l'abbattimento rivoluzionario delle monarchie tedesca, austriaca e russa".
Opporsi, entro i limiti degli apprezzamenti politici di questa parola d'ordine, a tale impostazione della questione mettendosi, per esempio, dal punto di vista che essa offusca o indebolisce, ecc. la parola d'ordine della rivoluzione socialista, sarebbe assolutamente errato. Le trasformazioni politiche con tendenze effettivamente democratiche e ancor più le rivoluzioni politiche, non possono in nessun caso, mai, e a nessuna condizione, né offuscare né indebolire la parola d'ordine della rivoluzione socialista. Al contrario, esse avvicinano sempre più questa rivoluzione, ne allargano la base, attirano alla lotta socialista nuovi strati della piccola borghesia e delle masse semiproletarie. D'altra parte, le rivoluzioni politiche sono inevitabili durante lo sviluppo della rivoluzione socialista, la quale non deve essere considerata come un atto singolo, bensì come un periodo di tempestose scosse politiche ed economiche, della più acuta lotta di classe, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni.
Ma se la parola d'ordine degli Stati Uniti repubblicani d'Europa, collegata all'abbattimento rivoluzionario delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa alla testa, è assolutamente inattaccabile come parola d'ordine politica, rimane pur sempre da risolvere la questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, ossia dell'esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali "progredite" e "civili", gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari.

giovedì 5 luglio 2012

ATTUALITA’ DI HEGEL NEL PROCESSO STORICO IN CORSO - Paolo Massucci


Paolo Massucci (Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni") - https://www.facebook.com/groups
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Appare del tutto evidente che il capitalismo nel XXI secolo non espande più benessere generale, non ridistribuisce la ricchezza ottenuta dall’aumento della produttività, non diffonde i benefici del progresso scientifico e tecnologico; al contrario, esso finisce per aumentare il livello dello sfruttamento dei lavoratori da parte delle oligarchie che detengono i capitali.

Non solo, l’oligarchia capitalista diffonde un’ideologia antisociale che spinge alla conflittualità popoli appartenenti a diverse nazioni, soggetti di diverse generazioni o genere e si avvale della paura di imminenti catastrofi e del clima di costante emergenza per impedire l’uso della ragione, che è la condizione per una democrazia sostanziale (ma neppure quella formale è più rispettata!). Pertanto le trasformazioni politico-economiche imposte sono presentate come necessità improrogabili, come se fossero dettate da una dialettica uomo-natura (o uomo-economia, il che non cambia) anziché dalla dialettica tra uomini. Ci viene detto continuamente che il mondo è cambiato, eppure le trasformazioni cui assistiamo non sono condotte da forze esterne metafisiche, sono opera umana, frutto di rapporti che mutano. L’uomo è quell’animale che, in condizioni naturali date, e secondo la propria natura, sviluppa un’attività finalista, la quale progredisce senza altri limiti che quelli naturali, dunque un’attività perfettamente trasparente in se stessa, e sempre più conoscibile, man mano che le realtà esteriori divengono meglio dominate, controllate e conosciute.

venerdì 29 giugno 2012

la cosiddetta cultura del “nuovo” - Stefano Garroni


"Per il contegno di tali capi, i partiti operai di questi paesi non si sono opposti alla condotta criminale dei governi e hanno invitato la classe operaia a identificare la sua posizione con quella dei governi imperialisti. I capi dell'Internazionale hanno tradito il socialismo votando i crediti di guerra, ripetendo le parole d'ordine scioviniste ("patriottiche") della borghesia dei "loro" paesi, giustificando e difendendo la guerra, entrando nei ministeri borghesi dei paesi belligeranti, ecc. ecc.. I più influenti capi socialisti e i più influenti organi della stampa socialista dell'Europa odierna si mettono da un punto di vista sciovinista borghese e liberale, e niente affatto socialista. La responsabilità di questo oltraggio al socialismo ricade innanzitutto sui socialdemocratici tedeschi, i quali erano il partito più forte e più influente della II Internazionale. Ma non si possono nemmeno giustificare i socialisti francesi, i quali hanno accettato dei posti ministeriali nel governo di quella stessa borghesia che tradì la sua patria e si accordò con Bismarck per schiacciare la Comune."...          ( Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa)                                                                                                                                                                
Un motivo fondamentale per rifiutare la cosiddetta cultura del “nuovo”  –ovvero, quella forma di coscienza, oggi tanto diffusa, secondo cui  non esiste più la povertà ma sì i ‘nuovi’ poveri; non esiste più la centralità dell’industria capitalistica, ma sì l’universo post-industriale, ecc.-, una ragione basilare –dicevo- per denunciare tutto ciò, come un caso ulteriore della mistificazione ideologica  borghese, sta nel fatto che più guardiamo da vicino la crisi, che oggi  viviamo e i problemi attuali del movimento operaio, e più ci rendiamo  conto che l’autentica svolta storica si colloca in un tempo relativamente lontano: intendo la prima guerra mondiale.

E ciò è vero non solo dal punto di vista strettamente economico-sociale, ma sì anche da quello dell’intera civiltà, che sostanzia la nostra vita attuale. Ciò significa ad es., che più che mai si dimostra oggi la profondità della denuncia leniniana della sostanziale arretratezza teorica del movimento operaio, anche quando si dichiara marxista (anzi, in particolare quando si dichiara marxista); come anche la denuncia lukacciana che il ‘marxismo’ della Terza Internazionale non aveva Lenin come suo punto di riferimento politico-culturale, ma sì Plachanov, non aveva il dialettico Marx come ispiratore, sia pure indiretto, ma sì il positivismo meccanicistico della Seconda Internazionale.

C’è anche dell’ingenuità nella prospettiva post-moderna, che consiste nel ritenere che epoche storico-culturali diverse si caratterizzino per la diversità dei problemi, che si pongono e non per il modo diverso, in cui sono tematizzati e vissuti quei problemi: è solo l’accettazione di questo presupposto a far sì che si possa parlare, senza sorridere, di ‘nuova’ povertà o degli USA come modello di democrazia. Un danno particolare, che consegue all’affermarsi del post-moderno o dell’ideologia del ‘nuovo’, consiste –lo abbiamo già accennato- nell’inserire una cesura tra storia del movimento comunista (prima ancora socialdemocratico) e attualità dei suoi problemi e lotte.

E’ così’ che nasce la malefica la leggenda, secondo cui il movimento  operaio non ha più un proprio linguaggio,un proprio sistema concettuale per dar senso e prospettiva a quanto oggi avviene, trovandosi perciò nella necessità di vivere ed interpretare il proprio ruolo secondo parametri non suoi, ma sì del suo avversario di classe.

Cosa può fare un piccolo gruppo, come il Collettivo di formazione marxista, contro tale situazione? Ovviamente quasi nulla.Tuttavia, c’è quel quasi che suggerisce di un piccolo, minuscolo spazio esistente – e se questo esiste, è nostro dovere cercare di riempirlo.

Stefano Garroni  (Collettivo di formazione marxista)

martedì 12 giugno 2012

Momenti del dibattito sulla Nep* - Stefano Garroni -


*Da:   http://www.contropiano.org/


In ogni società, lo sviluppo economico è legato, anche, all’esistenza di una certa proporzione – prosegue Trockij – fra i diversi rami produttivi. Per quale via il capitalismo si orienta verso la proporzione ad esso funzionale? Mediante gli alti e bassi, le cadute e i rialzi di un mercato, che si muove ‘secondo natura’, ovvero secondo una sostanziale e gratuita meccanica necessità.

L’economia socialista realizza quella proporzione, invece, attraverso un piano centralizzato. Ma tale nuova organizzazione razionale non può risolversi in un fenomeno, studiato a tavolino e imposto alla realtà; sì piuttosto ha da trattarsi di un processo che si svolge oggettivamente sulla base delle condizioni ed esigenze determinate del periodo e del luogo.

La Nep nasce, su proposta di Lenin[7], col X Congresso del Partito bolscevico, 1921, per terminare nel 1929. La Nep procurò un apprezzabile effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato, e l’alleanza politica degli operai con i contadini venne dotata di una base economica sufficientemente solida.Senonché l’introduzione della Nep destò anche vive preoccupazioni tra compagni: questa svolta economica significa forse, - questa è la domanda, che angustia – l’abbandono della prospettiva socialista e un graduale ritorno al capitalismo? Tra il capitalismo – nel quale i mezzi di produzione appartengono a privati e in cui il mercato regola le relazioni economiche - e il socialismo integrale, vale a dire un dirigismo economico e sociale, vi sono tappe di transizione: la Nep è una di queste.                                                                                            

Leggi tutto:   http://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/9551-momenti-del-dibattito-sulla-nep


venerdì 8 giugno 2012

La nazionalizzazione delle banche, secondo Lenin.


Nel 1917, ma prima dell’ottobre, in un articolo Lenin illustra la sua
proposta di nazionalizzazione delle banche. Esaminare la ‘logica’ di

tale proposta serve, pare a me, per comprendere la natura degli
obiettivi politici, delle parole d’ordine, che Lenin

propone al proletariato ed ai suoi alleati (contadini e piccola borghesia).
In primo luogo, Lenin  sottolinea che la nazionalizzazione delle

banche –ovvero la loro espropriazione e unificazione in un’unica banca
di Stato- consentirebbe a quest’ultimo effettivamente di regolare e

controllare la vita economica, sapere esattamente quali sono le
risorse del paese e come e quanti profitti vengono ottenuti.

Ottenuti da chi? E qui la parola d’ordine della nazionalizzazione
delle banche comincia ad apparire tutt’affatto diversa da una proposta

neutra, interclassistica.
Certamente, infatti, la nazionalizzazione delle banche renderebbe più

fluida la vita economica, pur non togliendo “neanche un copeco” ai
capitalisti (ed in questo senso potrebbe anche non essere avversata da

questi ultimi); ma appunto consentirebbe allo Stato un controllo
dell’attività bancaria (anche attraverso i soviet degli impiegati e

dei funzionari di Banca) e, dunque, sarebbe uno strumento essenziale
per un’economia pianificata e non orientata verso il profitto

individuale. La ‘logica’, dunque, di questa parola d’ordine, a tutta
prima motivata da semplici motivi di efficienza, si mostra legata

all’ottenimento di un altro obiettivo, ovvero, il centrale ruolo dello
Stato in sede economico-sociale; se dunque la nazionalizzazione di cui

parliamo sarebbe una riforma, profonda ma che non costerebbe “neanche
un copeco”, avrebbe tuttavia in sé la necessità di ampliarsi, ad es.

richiedendo la nazionalizzazione degli istituti assicurativi e perfino
delle coalizioni ed intrecci fra grandi gruppi economici.

Dunque, nazionalizzazione delle banche come obiettivo, immediatamente
accettabile anche da parte borghese (per motivi di efficienza), ma

che, per sua stessa natura, ha la necessità di invadere altri campi
–appunto, la nazionalizzazione degli istituti assicurativi ed il ruolo

decisivo dello Stato nell’organizzazione, regolamentazione e controllo
della vita economica.

Dunque la parola d’ordine leninista, per un verso corrisponde a una
necessità obiettiva, ad un bisogno reale di tutti coloro che hanno a

che fare con le banche (in questo senso non è una parola d’ordine
immediatamente anticapitalistica), per un altro verso, si tratta di

una parola d’ordine, che è sollecitata dalla sua stessa natura ad
allargarsi ad altri ambiti, fino ad assumere un carattere certamente

anticapitalistico.
E’ proprio questo tipo di parola d’ordine, che riceve il nome di
obiettivo transitorio e non di obiettivo intermedio.

STEFANO GARRONI

venerdì 18 maggio 2012

Sullo Stato - Stefano Garroni -

Engels potette condurre per lungo tempo, dopo la morte di Marx, una sua riflessione e sviluppare temi, a cui Marx mai si interessò specificamente. Da parte loro, i più significativi seguaci di Marx, (intendo Lenin, Trockij e la Luxemburg) scrissero ed elaborarono sotto la forte pressione di problemi radicali, sia in ambito politico, che economico, organizzativo e militare; e la conseguenza fu che una teoria dello Stato e della politica, che fosse radicata nel pensiero di Marx, non riuscì a nascere. Si badi, ad es., che se Lenin scrisse opere, propriamente teoretiche (Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici), in realtà la sua filosofia sta in tutt’altra sede (e per fortuna!), ovvero nel modo in cui condusse la lotta politica, sulla base di una certa concezione (hegeliana) del movimento storico; va da sé che, se è vero quanto dico, la ‘filosofia’ di Lenin è strettamente legata a situazioni contingenti e, quindi, difficilmente riducibile a precisi teoremi.
Ed ancora, se pure è vero che merito grande di Trockij fu quello di cogliere a fondo le caratteristiche della deformazione burocratica dell’Urss, tuttavia egli stesso non riuscì a chiarire quali fossero effettivamente le radici del fenomeno e quali specifiche, concrete riforme sarebbero state necessarie, in certe condizioni date, per combattere efficacemente quelle deformazioni.                                                                                                                                                              http://www.proletaria.it/index.php?/ita/Cultura-e-Societa/Sullo-Stato

lunedì 16 aprile 2012

LA CRISI EUROPEA OLTRE L’IDEOLOGIA DEL MERCATO - Paolo Massucci -

Inserendoci nel dibattito attuale sulla cosiddetta “crisi dell’Euro” ci proponiamo, pur senza pretesa di completezza, di coglierne alcuni punti essenziali, per poter ampliare il ragionamento al di là della preponderante informazione massificata, basata su ”l’ideologia del mercato”, fuorviante per una effettiva comprensione del processo storico sottostante. Si tratta evidentemente di un compito ostico, soggetto ad errori e fraintendimenti e certamente parziale e provvisorio, in quanto si tenta di “afferrare” una fase della storia in tumultuoso corso di svolgimento, il cui terreno sembra continuamente “muoversi sotto i piedi”. L’attuale crisi appare comunque di proporzione “storica”: è in atto un profondo e drammatico processo di riorganizzazione del sistema capitalistico, il cui esito purtuttavia non può essere né noto né certo.
Siamo vicini al collasso del sistema capitalistico? Al momento è poco probabile, mentre siamo di fronte, almeno in Europa, ad una profonda ristrutturazione dei rapporti di potere, nel segno della scomparsa dei modelli cosiddetti “democratici” del funzionamento della politica e dei modelli cosiddetti “sociali” di redistribuzione delle ricchezze, la scomparsa dunque dei diritti, pur parziali, conquistati dai lavoratori nel secolo scorso. Ma lo scenario futuro rimane imprevedibile.

Quale è il principale fattore di questa incertezza, di questa instabilità, di fronte alle politiche economiche imposte dai poteri dei grandi azionisti dei capitali finanziari? Esso è, in ultima analisi, la possibilità e la capacità di reazione della società stessa (la classe lavoratrice in senso ampio), è l’imprevedibilità della storia, il fattore uomo, cioè la libertà dell’agire umano, la “risposta all’azione”. Se non ci fosse saremmo di fronte alla fine della storia!

Per una discussione sugli svolgimenti politici ed economici in atto in Europa sono stati utilizzati prevalentemente il “6° Quaderno dell’Associazione Marxista Politica e classe” di Contropiano (per la Rete dei Comunisti) del febbraio 2012, intitolato “La mala Europa - Quali alternative ai diktat dell’Unione Europea? Analisi, proposte e movimenti di lotta a confronto”, la rivista Il Mulino (numero 1/12), dell’Istituto Cattaneo di ricerca sociologica, politica, economica e la rivista di geopolitica Limes 2/2012.

lunedì 9 aprile 2012

Zygmunt Bauman - La società individualizzata - Il Mulino, Bologna, 2002 -


 Se questa è la fotografia (terribile) della situazione attuale non ci resta che trarne le dovute conclusioni . E qui cominciano i problemi... come contrastare, anzi come combattere e vincere una battaglia che, appare evidente, è enormemente sbilanciata a favore del nostro nemico mortale: il potere del capitale? Chiaramente questa non è problematica risolvibile a livello individuale o di piccolo gruppo e neanche, come lo stesso Bauman evidenzia, a livello locale, nazionale. Se il potere ormai si esprime globalmente sarà lì che lo scontro dovrà giocarsi. E solo se sapremo costruire solide organizzazioni a livello internazionale ci si potrà confrontare col nemico da pari a pari. Starà alla capacità delle organizzazioni dei lavoratori  trovare fronti comuni di lotta che superino i vincoli di un  perdente localismo.

 Ma noi ancora annaspiamo, insultandoci e, peggio, massacrandoci in assurde dispute intestine additando i nostri stessi compagni come i peggiori nemici da abbattere. (c'è ancora chi inneggia a Stalin maledicendo Trockij  e viceversa... ridicolo). C'è da credere che ci sia lo zampino del nemico nel favorire tutto ciò... personalmente credo sia arrivato il momento di accantonare simili dispute e pensare seriamente a costruire Altro, che non vuole dire necessariamente nuovo, di nuovo sotto il sole c'è davvero poco. Altro significa, per esempio, recuperare quanto (tanto) di buono il movimento comunista ha saputo teorizzare nel corso della sua breve storia, rielaborarlo alla luce della situazione attuale e, possibilmente, evitare di rifare gli errori che hanno segnato le nostre dure sconfitte (allora sì, l'analisi dei comportamenti  giusti e sbagliati dei protagonisti della nostra storia passata può aver senso). Ma Altro significa anche  la consapevolezza che le idee che il movimento esprime sono il portato di un lungo cammino che vuole superare i confini, nobili ma limitati, della stessa lotta di classe, perché è dell' emancipazione di tutti che stiamo parlando.  Ma, per l'appunto da dove ri-partire? Io credo che ripartire dallo studio, soprattutto lo studio della storia, che è anche storia di civiltà, di scienza, di cultura, sia un percorso vincente. Un'altra via sarà quella di difendere il lavoro dalle bordate distruttive del potere finanziario. Chi l'ha detto che le regole del gioco che stiamo giocando siano le uniche possibili? Seguitare a giocare con regole simili significa condannarsi a priori alla sconfitta. Perché, per esempio, non rilanciare sostenendole richieste quali il ripristino di una scala mobile e l'abolizione del precariato? Perché non imporre dei limiti, sia in basso che in alto, alle pensioni, agli stipendi  ai salari? In nome di una equità che sia anche giustizia? Io, noi, pensiamo che ciò sia possibile, e che, semplicemente, serva che se ne ri-cominci a parlare. Ci dicono che bisogna flessibilizzare e precarizzare di più e noi gli rispondiamo  che vogliamo un lavoro certo con una retribuzione dignitosa che ci consenta di dedicarci alla nostra vita ai nostri figli in altri termini alla nostra felicità. Dobbiamo tornare a pretendere quelle cose che sono necessarie, per tutti, alla vita: una scuola pubblica valida, una sanità pubblica degna, una previdenza giusta, che ci garantisca una vecchiaia il più lieve possibile...  Ci diranno che allora se ne andranno dove le loro regole saranno possibili, e noi gli risponderemo di andare pure dove vogliono ma scalzi e nudi, perché solo così gli sarà permesso d'andare... (Il collettivo)


 Zygmunt Bauman e la sua società individualizzata 

sabato 31 marzo 2012

Le Introduzioni a Marx - Pannekoek e il materialismo

Per quanto ormai poco conosciuto (e lo ‘stalinismo’ ha le sue colpe in
proposito), l’olandese Anton Pannekoek (1873-1960) giocò un ruolo di
un certo rilievo nella storia del movimento operaio comunista,
appunto.
Due motivi caratterizzano la produzione teorica di Pannekoek: 1) la
problematica dei consigli operai; 2) la polemica contro il modo
leniniano di intendere il  materialismo.
Per entrambi gli argomenti toccherà svolgere un’argomentazione, assai
più ampia ed articolata, di quanto sia ora possibile. Tuttavia,
qualcosa possiamo già dire riguardo al punto 2).
Com’è noto, secondo la tradizione dell’ortodossia
terzointernazionalista, l’opera d Lenin Materialismo ed
empiriocriticismo è il testo chiave per intendere i concetti di
dialettica e di materialismo, nell’accezione marxiana.
Senonché, proprio in questo testo Lenin oscilla tra la critica del
materialismo,nell’accezione positivistica, e la critica a quella
scienza ed a quella filosofia, che nascono dalla ‘crisi dei
fondamenti’, che segna l’universo culturale tra fine Ottocento e
inizio Novecento.
In questo modo Lenin si chiude la strada alla comprensione delle
profonda dialetticità, che caratterizza la nuova cultura (la quale non
può essere esaurita dal concetto di irrazionalismo).
Ebbene Pannekoek si rende conto di questo limite della riflessione
leniniana, senza tuttavia -e questo è paradossale-  riuscire a
superarla.
                                                                                 S.G. (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")

Le Introduzioni a Marx - Iniziamo con queste note la rassegna di alcuni testi marxisti di diverso orientamento. Attraverso il loro confronto, crediamo, si possano ricostruire alcune categorie basilari del marxismo ed anche mostrare la non linearità della sua formazione e sviluppo storici.

Anche Trockij si cimentò nella stesura di una Introduzione a Marx ed,
esattamene, al Capitale. In questa sede non  tanto ci intessa
l’esposizione riassuntiva e semplificata del contenuto dell’opera
marxiana, che Trockij tratteggia ; quanto piuttosto il metodo .-ed in
questo senso la teoria, che Trockij segue nel suo lavoro.
Leggiamo ad es. alle pp.7s che in genere non ci si dà  pena di
considerare perchè gli uomini si disfanno di oggetti di valore in
cambio di qualche pezzo di certi metalli.
Questa mancanza di curiosità dipende dal fatto che, in generale, le
categorie economiche capitalistiche vengono considerate come ovvie,
come cose che vanno da sé. Ed effettivamente questo è il caso, ma a
patto che si diano per scontati i rapporti capitalistici di
produzione, ovvero si consideri quale ultima istanza del
conoscere l’immediata esperienza di chi vive in un certo tipo di
società.
Arriviamo così ad un tema fondamentale: l’analisi scientifica –questo
Trockij-  afferma- ha un nemico dal quale deve ben  guardarsi: il
senso comune, con la sua immediata evidenza.
Si tratta di una tesi ben nota –sia nell’’epoca di Hegel e pure in
quella di Trotkij; tuttavia è vero anche che a metà  del Novecento
questa tesi fu messa in discussione e si sviluppò tutto un movimento
(detto post-moderno, ma in realtà pre-moderno), il quale, appunto
‘scoprendo’ che l’evidenza scientifica ha carattere mediato (dalla
ragione) e non l’immediatezza del puramente percepito, dichiara non
attendibile la pretesa della scienza di produrre  sapere oggettivo.
Per Trockij, dunque, al contrario da ogni teoria fondata
sull’immediatezza del percepito, il conoscere acquista l’aspetto d un
autentico lavoro, di un’Arbitsmuehe ( di una specifica fatica, come si
esprimevano Hegel e Marx). Nel senso che la scienza produce conoscenza
in  quanto,  con i suoi strumenti logici e teorici, definisce
l’oggetto, in modo stoicamente determinato, gli dà certe
caratteristiche  e una determinata collocazione.
Inoltre, definita la scienza come la conoscenza delle leggi obiettive
della natura, l’uomo –continua Trockij-- ha voluto assegnarsi un posto
privilegiato nell’universo, dando a se stesso il ruolo eccezionale di
chi ha relazioni  con la divinità e, con questo, la conoscenza degli
oggettivi principi morali - di base. Questo è il senso, afferma Trockij
dell’orientamento idealistico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                S.G. (Collettivo di formazione marxista "Maurizio Franceschini")

mercoledì 7 marzo 2012

SU UN ARTICOLO DI FABRIZIO GALIMBERTI

24ORE del 26/2 pubblica un articolo di Fabrizio Galimberti, dal titolo "Nella scienza esatta C'è UN BRICIOLO DI FOLLIA" su cui vale la pena soffermarsi allo scopo di chiarire alcuni punti di teoria/scienza.
La tesi di Galimberti è che, anche nella sua costruzione nella teoria scientifica non intervenga la sola ragione, ma si anche elementi irrazionali.
Come si vede si tratta di una tesi tutt’altro che originale, nel senso che forse oggi non esiste epistemologo che non la condivida. C’è però qualcosa che Galimberti dovrebbe meglio chiarire. Ad es., il significato del termine irrazionale. Gia Leibniz vedeva l’ambiguità del termine, che può significare o “ciò che si oppone tout court alla ragione”; sia “ciò che si oppone ad una determinata ragione circoscritta da un’epoca ed una tradizione.” Qual è l’importanza di questa distinzione? E’ chiaro che se l’irrazionale è preso come ciò, che si oppone ad una fase determinata della storia della ragione (ovvero il contrario di quanto si intende con il secondo senso del termine) ciò che oggi è irrazionale può domani divenire razionale. Nel secondo caso invece appunto l’opposizione ragione /irrazionale non è superabile.
A quale dei due sensi Galimberti fa riferimento? Nel suo testo non c’è risposta a tale domanda.
Il secondo tema, su cui vale richiamare l’attenzione, è il seguente: quando deve definire l’economia in quanto scienza teorica, Galimberti ripropone né più né  meno il classico presupposto utilitaristico (l’individuo astorico, che sulla base di una valutazione costi-benefici, decide quale sia la più conveniente tra le scelte, che di fatto si danno.
Come si vede è un presupposto del tutto astratto, che si oppone ad un'altra tradizione (che fu di Sismondi, di A. Smith, di Hegel e di Marx), secondo cui l’economia è un’articolazione della totalità sociale e dunque è determinata storicamente, come è determinato storicamente l’uomo, agente del fare economico. Perché Galimberti sceglie di definire come fa la teoria economica? Ecco l’altro punto su cui egli non dà chiarimenti.
Stefano Garroni.                                                                                                                                                                                                                                                                                     http://www.scienzaevita.org/rassegne/51bbe6d999e1dd48f544f9473cec645f.PDF