martedì 24 luglio 2012

Belinskij e Cerniševskij critici del romanticismo in arte.- Stefano Garroni


Scopo di questo scritto è tracciare un rapido panorama delle critiche, che Belinskij e Cerniševskij muovono al romanticismo nell’arte. La possibile utilità di un tale disegno o panorama sta nel fatto che la critica antiromantica sembra caratterizzare profondamente la riflessione moderna sull’arte (ed essere perfino parte del dibattito sul carattere artistico o no dell’attività cinematografica. Ma questa è una questione, la cui analisi rimandiamo ad altra occasione).

Cominciamo con una citazione dal libro di Massimo Mila sul Don Giovanni di Mozart[1]: " … fin dagli impazienti anni di Salisburgo Mozart sentiva ribollire dentro di sé, ma confusamente, una visione tutta diversa e nuova dell'opera in musica, quale spettacolo che potesse porsi veramente come lo specchio di quella cosa meravigliosa che è la vita, con tutte le sue innumerevoli diversità, il fatto degli uomini che si amano, si detestano, si combattono, si ingannano, si aiutano, si sacrificano, fanno le cose più strane, più pazze e più naturali, e tutte, anche le più strampalate, con una certa coerenza interiore insita nella trama della loro coscienza individuale, così e così fatta, imprevedibilmente diversa da creatura a creatura, per cui appunto accade che la vita sia cosi meravigliosamente diversa e che gli stessi fatti che sempre accadono da quando l'uomo è sulla faccia della terra, in realtà siano ogni volta nuovi, perché non sono mai esattamente uguali gli individui che ogni volta si amano, s'ingannano, si trovano, si lasciano, vanno in chiesa a sposarsi, contrattano un mercato, scendono sul terreno a duellare, fanno la guerra, fanno l'amore, piangono, ridono, nascono, muoiono.”[2] Dunque, oggetto della musica mozartiana è la vita, con la sua diversità ed inarrestabile mobilità.

Che questa posizione possa avere significati non solo diversi, ma perfino opposti è del tutto chiaro: la vita può suggerire, infatti, la rappresentazione di un principio fondamentale, ma inafferrabile e indicibile (si pensi all’élan vital, di cui dirà Bergson); può stare a significare, quindi, una concezione romantica, irrazionalistica, mistica dell’arte.

Oppure, con il termine vita può volersi intendere la concreta operosità umana[3], che –seguendo tracciati comprensibili e, dunque, perfino anticipabili in una certa misura- si svolge incessantemente, nel senso che nulla di rigido e fisso può resistere al suo dinamismo[4]; in questo secondo caso, non ci troveremmo entro una prospettiva romantica, sì piuttosto avremmo a che fare con una concezione, perfino assimilabile al classico realismo della dialettica di un Hegel o di un Marx. Per chiarir meglio, vediamo –ricorrendo di nuovo a Massimo Mila-  come un personaggio significativo quale fu Søren Kierkegaard intese appunto la musica di Mozart.

“Per Soren Kierkegaard, il filosofo danese precursore dell'esistenzialismo, Don Giovanni non è né un basso peccatore per incontinenza, né un sottile dottore della trasgressione sacrilega. La sua natura essenzialmente erotica e sensuale viene isolata e proiettata fino a farne un valore assoluto. Don Giovanni è la carne vivificata e quasi spiritualizzata in quanto si fa principio puro; non che riceva in sé qualche nota estranea, come sarebbe, appunto, un'ideologia ribelle o prometeica, ma al contrario restringendosi rigorosamente in se stessa acquista una specie di paradossale purezza: è la pura carne, il puro senso nella sua ideale integrità, non contaminato dalla benché minima intrusione dello spirito … c’era in Kierkegaard un’intuizione profonda dell’identità tra la natura della musica e il flusso vitale. Già nelle Nozze di Figaro la musica di Mozart aveva investito, col suo movimento inesauribile, lo spettacolo della vita. Ma il Don Giovanni è, per Kierkegaard, non soltanto la migliore di tutte le opere, bensì è <qualitativamente diversa da tutte le altre>, in eterno ineguagliabile per la musicalità profonda, <essenziale>.”; per Kierkegaard, “l’<oggetto assoluto della musica> (è) l’immediato nella sua fugacità, e in particolare l’immediato sensuale che, escluso dallo spirito, la lingua non può esprimere.”[5]

Com’è chiaro, la lettura che Kierkegaard propone della musica di Mozart si colloca nella prospettiva, che abbiamo detto romantica, irrazionalistica e mistica. D’altronde la cosa è del tutto comprensibile, se si tien conto della critica che Kierkegaard muove al pensiero di Hegel.

" … il significato più profondo della filosofia di Kierkegaard –leggiamo in Lukàcs[6]- è porre dei punti fissi tra i passaggi sempre più instabili della vita e stabilire differenze qualitative assolute nel rimescolio caotico delle sfumature. Istituire differenze così inequivocabili e profonde tra gli oggetti nei quali si è riscontrata una diversità, in modo che, una volta distinti, la linea che li separa non possa essere più cancellata da alcuna mediazione possibile. Bisogna fare una scelta tra le cose differenziate, non si possono trovare <vie di mezzo>, né <sintesi più alte> che possano risolvere le antitesi <solo apparenti>… In un sistema logico di pensiero la vita non trova mai posto e, sotto questo profilo, il suo punto di partenza è sempre arbitrario e la sua costruzione è solo in sé finita, mentre sotto la prospettiva della vita è una cosa relativa, una tra le tante possibilità. Per la vita non esiste sistema. Nella vita esiste solo il particolare, il concreto." [7]

Ciò che sta a monte di questa posizione kierkegardiana è una determinata interpretazione dell’identificazione hegeliana tra reale e razionale. La quale non viene intesa come affermazione della comprensibilità del reale, anche nelle sue contraddizioni e dissonanze; sì piuttosto nel senso di una riduzione del reale –nonostante tutte le sue opposizioni, scarti e disarmonie- alla linearità del logico o razionale.

In questo senso, Kierkegaard ripropone l’antitesi radicale di vita ragione, di logico ed alogico, che –come abbiamo detto- caratterizza la concezione romantica e, più specificamente, Kierkegaard ripropone la centralità della vita, del vivente, come l’inafferrabile, il non-mediabile, dunque, come il non-riducibile non solo alla logica nel senso della logica formale, ma in qualunque senso del termine (anche quello di <linea di movimento della cosa stessa>, come hegelianamente diceva il Marx dei Grundrisse).

Tornando a Lukàcs, così egli riassume la sua critica a Kierkegaard: “l’autentitcità di Kierkegaard consiste dunque in questo: vedere tutto come nettamente isolato, il sistema dalla vita, un uomo da un altro, uno stadio dall’altro. Vedere nella vita l’assoluto e non dei compromessi insulsi. Ma non è un compromesso vedere la vita senza compromessi? Questo voler restare ancorati all’assolutezza non è piuttosto un modo di sfuggire alla costrizione di tener conto di tutto? Lo stadio non è anch’esso una <sintesi più alta>, negare l’esistenza di un sistema di vita non è anch’esso a sua volta un sistema e il salto non è una mediazione improvvisa? Dietro ogni coincidenza non si cela forse una netta distinzione e dietro la più accanita negazione del compromesso non si cela a sua volta un compromesso? Si può essere autentici di fronte alla vita e stilizzare in forme poetiche i suoi avvenimenti?”[8]

Con grande chiarezza ed incisività Lukàcs ci mostra, dunque, che la Gesinnung kierkegaardiana, il suo orientamento o atteggiamento di fondo, comprende certo la concezione dell’arte, ma va ben oltre, investendo nella totalità le manifestazioni della realtà ed attività umane: non per caso, lo stadio più alto, a cui l’uomo può pervenire secondo Kierkegaard, è quello religioso.[9]

Un autore, che si richiama, invece, alla lezione di Hegel –ed in chiave anti-romantica- è il russo V. Belinskij, il quale a partire dalla metà dell’Ottocento, interviene in modo assai significativo sulle caratteristiche della letteratura del suo paese, all’interno di riflessioni, che vogliono avere un significato universale.[10]

Nei suoi Saggi critici, Belinskij afferma –con tono certamente hegeliano- che “ogni sfera in cui si sviluppa lo spirito umano è costituita da fatti organicamente connessi tra di loro e coerentemente generati gli uni dagli altri …”;  posta questa premessa, è evidente che la “letteratura di un dato popolo” ormai non vive più in uno spazio suo, separato, ma sì al contrario è connessa alla “letteratura in generale, umana, universale”, la cui storia si intreccia con quella di ogni letteratura nazionale. [11]

Infatti, “la letteratura è la suprema ed ultima espressione del pensiero di un popolo, raggiunta con la parola … la letteratura è la coscienza del popolo, espressa storicamente nelle opere verbali della sua intelligenza e della sua fantasia.”[12] Ma essendo la vita nella moderna fase storica sempre più caratterizzata dallo sviluppo di relazioni internazionali ed intercontinentali, ecco che la coscienza di un singolo popolo non può prescindere, per quanto sia radicata nella storia particolare di una data comunità nazionale, dalle influenze che le derivano dall’appartenere ad un certo mondo più generale, di cui la sua specifica particolarità finisce tendenzialmente con l’essere un’articolazione determinata.

La prospettiva, in cui Belinskij si inserisce è, come si vede, quella di chi considera l’arte una delle manifestazioni della vita storico-sociale[13], realisticamente connessa con le problematiche, le contraddizioni, le ambiguità, ma anche la profonda logica interna, della quotidianità stessa, dell’effettivo operare e modo di relazionarsi, che specifica un ambiente, un mondo storicamente dato. In questo senso, possiamo definire realismo (anti-romantico, ovviamente) il modo, in cui Belinskij concepisce la letteratura e l’arte in generale.

Come egli stesso si chiede retoricamente, “sorprende forse … che ai nostri tempi si sia sviluppata in prevalenza questa tendenza reale della poesia, questa intima comunione tra l'arte e la vita? Sorprende forse che il carattere distintivo delle opere più moderne risieda nella loro impietosa sincerità, che in esse la vita è come esposta alla gogna, in tutta la sua nudità, in tutta la sua terrificante mostruosità e bellezza trionfante, che in esse la vita sembri smembrata dal bisturi del chirurgo? Non rivendichiamo un ideale di vita, ma la vita stessa, cosi come essa è. Brutta o bella che sia, non vogliamo abbellirla, perché pensiamo che essa nella sua immagine poetica sia comunque stupenda in quanto è verità e là dove è la verità è anche la poesia.” [14]

Belinskij condivide la rappresentazione della civiltà classica, che possiamo trovare anche in Hegel, e la contrappone alla realtà della vita odierna. Come egli stesso scrive, “ … la loro vita (dei Greci, in epoca classica) si distingueva per totalità, poliedricità, integrità, la loro religione era arte e l’arte religione; il sacerdozio era strettamente connesso all’amminitrazione della vita pubblica; il guerriero in tempo di pace studiava la saggezza e il saggio durante la guerra andava a combattere per la patria; l’artista era un cittadino e l’uomo della strada non poteva vivere senza il teatro … La letteratura greca, nella piena accezione del termine, era l'espressione della coscienza dei cittadini e quindi di tutta la loro vita, religiosa, civile, politica, intellettuale, etica, artistica e domestica. La storia della letteratura greca è strettamente e indissolubilmente connessa alla storia statale e politica del popolo, mentre la storia letteraria dei popoli moderni è la storia di un aspetto soltanto della loro esistenza. E questo perché nel mondo antico tutti i fenomeni della vita sociale erano strettamente e indissolubilmente interconnessi e, compenetrandosi a vicenda, formavano un tutto unico vivo e stupendo, mentre nel mondo contemporaneo tutti i fenomeni sociali agiscono in modo isolato, particolare, staccato. Questa dissoluzione, di così triste e desolante aspetto, specialmente se confrontata al mondo radioso e stupendo della vita greca, è stata per altro necessaria affinché i fenomeni della vita sociale, sviluppandosi singolarmente, si potessero svolgere in modo più pieno, profondo e perfetto, onde ricongiungersi e costituire una nuova integrità unitaria che sarà tanto più elevata del mondo greco quanto più separato sarà lo sviluppo dei singoli fenomeni della socialità nel mondo contemporaneo.”[15]

Dunque, secondo Belinskij alla dilacerazione dei rapporti sociali, tipica della società moderna, alla perdita di armonia ed esplicita razionalità della vita odierna, la risposta non sta nel proiettare l’armonia e la ricomposizione in una sfera immaginativa ed ‘ideale’, ma sì nel comprendere la logica interna della stessa dilacerazione, per potersi muovere a partire da essa nel senso di una ricomposizione –articolata, certo, ma unitaria-  della vita comune.

E questo perché, “può avere una storia soltanto ciò che si sviluppa organicamente avendo come punto di partenza un embrione, il seme di spirito nazionale del popolo (sostanza) che scaturisce dal precedente e genera il susseguente. Può svilupparsi organicamente soltanto ciò che cela in se stesso la sua propria sostanza, simile al seme che cela in sé, come possibilità, la vita e la forma della pianta futura e quindi dotato di vitalità, che nell'osservanza delle condizioni necessarie -terreno, aria, luce, umidità- immediatamente inizia ad esercitare le sue funzioni trasformando il granello in stelo, lo stelo in tronco con rami e foglie, con germogli e frutti.” [16]

Anche in Cerniševskij abbiamo esplicitamente affermata la tesi, secondo cui l’arte è solo un’articolazione, una specificazione della Weltanschauung, nella quale l’autore si riconosce.[17]

A differenza che in Belinskij, però, questa tesi, ora, non si inserisce più in uno sfondo hegeliano, ma in quello di una cultura, che dobbiamo definire –e lo vedremo-  fondamentalmente empiristica.[18] Sarebbe un errore, tuttavia, liquidare la posizione di Cerniševskij come mera espressione di empirismo, appunto.

Infatti, si tratta –a ben vedere- di una esplicita, consapevole polemica contro la condizione reale e quotidiana dell’uomo moderno, condannato ad una vita grigia e misera: il ricorso alla fantasia, alla costruzione di ‘castelli in aria’, di situazioni ed oggetti privi assolutamente di imperfezioni e manchevolezze, non sono che la testimonianza –afferma l’autore russo- della pochezza del  reale.

“L’immaginazione costruisce i suoi castelli in aria soltanto quando in realtà manca non solo una casa buona, ma addirittura un’isba discreta. L’immaginazione si desta quando i sensi non sono occupati: la carenza di una situazione soddisfacente nella realtà è la fonte della vita nella fantasia. Ma appena la realtà diventa accettabile tutti i sogni dell’immaginazione in confronto ad essa ci sembrano poveri e fiacchi. Questo fatto indubbio che i sogni più luminosi vengono dimenticati e ci abbandonano, perché insoddisfacenti, non appena ci circondano i fenomeni della vita reale, dimostra senz’altro che i sogni dell’immaginazione cedono in fascino e bellezza dinanzi alla realtà.”[19]

Al di là dell’evidente rilievo, che sul piano psicologico ha l’osservazione di Cerniševskij (non per caso pochi anni dopo apparirà la freudiana Traumdeutung), è indubbio che la contrarietà espressa nei confronti delle costruzioni, necessariamente smodate, della fantasia sta a significare la forte sensibilità dell’autore russo verso le reali condizioni economico-sociali del comune uomo medio del suo tempo; ma sta a significare, anche, che il richiamo all’empirismo vuol essere, nella prospettiva di Cerniševskij, un’esortazione ad aprire gli occhi sulla realtà e a non farsi sviare da allucinazioni compensatorie.

Al contrario, il romanticismo appare a Cerniševskij come la preferenza data alla vita sognante e non a quella reale, empirica –ciò tenendo conto che se l’immaginazione “vuole elevarsi al di sopra della realtà, può soltanto tracciare dei segni incerti, assolutamente confusi, nei quali non potremo scorgere veramente nulla di determinato e di affascinante.”[20] Ma la posizione di Cerniševskij ha anche un significato morale ed epistemologico.

Morale, nel senso che il rifiuto dei sogni della fantasia significa comprendere che, effettivamente, i desideri umani son soddisfatti quando misurati, equilibrati: “ … i bisogni della vita umana sono soddisfatti dalla normalità perché soltanto una fantasia oziosa ricerca una fantastica perfezione. I nostri sensi, la nostra intelligenza, il nostro cuore -ed anche la fantasia stessa non fa che ricamarci sopra- non sanno niente delle vuote parole, se non ne hanno un’immagine viva e determinata.”[21]
Dunque, in chiave anti-romantica Cerniševskij ripropone un tema classico della riflessione morale, ovvero, quello della preferibilità di una vita, che senza escludere nulla da sé, tutto riduce però ad equilibrio e misura; di una vita, insomma che,platonicamente, fa dell’armonia delle passioni la propria regola o norma.[22]

Anche questo atteggiamento morale si sposa, in Cerniševskij, all’empirismo, ovvero (e questo è il lato epistemologico) alla convinzione che nessun termine può essere effettivamente dotato di senso, se non si congiunge ad una qualche esperienza o sense datum –come si vede, torna la concezione empiristica della conoscenza scientifica, che accetta sì l’astratto, il formale, ma solo a condizione che possa essere ricavato –direttamente o indirettamente- da ciò, che è oggetto dei sensi. Non fa meraviglia, a questo punto, che –per Cerniševskij- in nessun caso sia accettabile un oggetto di pensiero (ovvero, un ente costruito all’interno di una prospettiva teorica), che pretenda di essere completamento o perfezionamentodell’oggetto empirico o rinvenibile nell’esistenza, nel Dasein –per dirlo con il linguaggio della filosofia tedesca.[23]



[1] - M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Torino 1988.
[2] - M. Mila, op. cit.: 20.
[3] - Così si legge in V.Belinskij, Scritti scelti, Mosca 1981: 31 - “Il laboratorio della letteratura … è la società con i suoi interessi e la sua vita.”; ed ancora a conclusione di un discorso su Cervantes, Shakespeare e Walter Scott: “… ecco l'altra faccia della poesia, ecco la poesia reale, la poesia della vita, la poesia della realtà, infine l'autentica poesia del nostro tempo. Il suo carattere distintivo risiede nella fedeltà alla realtà; essa non ritrasforma la vita, ma la riproduce; la ricrea e come uno specchio concavo, riflette in sé, sotto un unico punto di vista, i fenomeni suoi diversi, scegliendo tra essi soltanto quelli che sono necessari per formare un quadro completo, vivo e unitario. Il volume e i confini del contenuto di tale quadro stanno a determinare la grandezza e la genialità della creazione poetica.” (Belinskij, op.cit.: 59).“. Va notato che questa concezione del rapporto arte/realtà, in Belinskij, nasce da un’acuta consapevolezza delle contraddizioni della società moderna, infatti, egli scrive ancora: “… per noi la vita non è più un lieto convito e nemmeno un’oziosa letizia, ma un campo di lavoro, di lotta, di sacrificio e di tormento. Da qui traggono origine la tristezza, la malinconia, la pensierosità e insieme la meditazione di cui è permeata la nostra lirica.” (Belinskij,  op.cit.: 61).
[4] - E’ noto che nell’Ottocento la religione (in particolare nella sua tradizione cristiano-giudaica) fu presa a modello di una cultura, fondata su credenze rigide ed intolleranti verso ogni critica. E’ altrettanto noto che il richiamo alla vita, al vivente –in Hegel, ad es.- ebbe la funzione di criticare tale <positività> della religione. Appunto questo atteggiamento anti-talmudistico, anti-dogmatico troviamo nella poesia di Goethe Prometeorichiamata da M. Mila alla p. 39 del libro, che abbiamo già ricordato: “ Non conosco niente di più meschino/ sotto il sole che voi, dei!/ … Io onorarvi? E perché? …/ Non hai tutto compiuto, da solo, mio sacro, ardente cuore? / … Qui io sto e formo uomini/ a mia immagine,/una razza che sia simile a me:/per soffrire, per piangere, per godere, per vivere -/e non per curarsi di te,/come faccio io!.”
[5] - Mila, op. cit.: 10s.
[6] - G. Lukàcs, , L’anima e le forme, Milano 1975: 75s.
[7] - A riprova di quanto duttile e non unilaterale e rigida sia la lettura, che di Kiekeggard, Lukàcs propone nel testo cit., si consideri questa ulteriore valutazione: Kierkegaard “vide più acutamente di tutti l’infinita mutevolezza di ogni situazione, (nessuno più di Kierkegaard) vide con tanta lucidità come ogni cosa si tramuta nell’altra come nel suo opposto. (Kierkegaard) ci insegnò che, a guardar bene la realtà, si scoprono degli abissi invalicabili in mezzo alla fittissima rete delle mediazioni.” (v. G. Lukàcs, op. cit.: 70).
[8] - v. Lukàcs, op. cit.: 76.
[9] - Su Kiekegaard è ovvio il rinvio a K. Löwith, Von Hegel zu Nietzsche, Wien 1949 ed a G. Lukàcs, Die Zerstörung  der Vernunft, Berlin 1954.
[10] - Su Belinskij e su  Cerniševskij, che analizzeremo più avanti, cf. G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Torino 1950.
[11] - V. Belinskij, Saggi critici, Mosca 1981: 15.
[12] - cf. Belinskij, op. cit.: 15, 24.
[13] - Si tratta, d’altronde, di una posizione presente anche in Kant, per il quale “tutti (i diversi) termini del sistema -la logica come l'etica e l'estetica -non sono nient'altro che momenti diversi di un unico grande compito di oggettivazione. (Cassirer,Filosofia delle forme simboliche, 3.1, Firenze 1966: 67).
[14] - cf. Belinskij, op. cit.: 60.
[15] - Belinskij, op. cit.: 22.
[16] - Belinskij, op. cit.: 24.
[17] - N. Cerniševskij, Saggi critici, Mosca 1984: 34s.
[18] - Così Cerniševskij –in op. cit.: 21- caratterizza la tendenza fondamentale della scienza odierna: “rispetto per la vita reale, sfiducia per le ipotesi aprioristiche sia pure piacevoli per la fantasia …”. Come si vede, si tratta di una caratterizzazione della scienza, che sarebbe piaciuta certamenete sia a F. Bacon che a J.S. Mill e che, rispetto a cosa si intenderà per scienza a partire almeno dal secondo Ottocento, mostra una forte inconsapevolezza del ruolo che, appunto nella scienza, giocano astrazione e teoria (ridotte da Cerniševskij –ma anche più tardi da certo marxismo volgare- a meri prodotti della fantasia, quando non siano generalizzazioni di dati empirici).
[19] - Cerniševskij, op. cit.: 27.
[20] - Cerniševskij, op. cit.: 27s.
[21] - Cerniševskij, op. cit.: 31.
[22] - Può essere interessante aggiungere che questo tema dell’imbrigliamento (in tedesco, Bändigung) delle passioni lo ritroveremo anche in Freud, per il quale la ‘normalità’ psichica consiste, appunto, non nel divieto verso questa o quella passione, ma nella riduzione a norma o misura delle passioni stesse.
[23]  - Cerniševskij, op. cit.: 36.

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