Scopo di questo scritto è tracciare un rapido panorama delle
critiche, che Belinskij e Cerniševskij muovono al romanticismo nell’arte. La
possibile utilità di un tale disegno o panorama sta nel fatto che la critica
antiromantica sembra caratterizzare profondamente la riflessione moderna
sull’arte (ed essere perfino parte del dibattito sul carattere artistico o no
dell’attività cinematografica. Ma questa è una questione, la cui analisi
rimandiamo ad altra occasione).
Cominciamo con una citazione dal libro di Massimo Mila sul Don
Giovanni di Mozart[1]: " … fin dagli impazienti anni di
Salisburgo Mozart sentiva ribollire dentro di sé, ma confusamente, una visione
tutta diversa e nuova dell'opera in musica, quale spettacolo che potesse porsi
veramente come lo specchio di quella cosa meravigliosa che è la vita, con tutte
le sue innumerevoli diversità, il fatto degli uomini che si amano, si
detestano, si combattono, si ingannano, si aiutano, si sacrificano, fanno le
cose più strane, più pazze e più naturali, e tutte, anche le più strampalate,
con una certa coerenza interiore insita nella trama della loro coscienza
individuale, così e così fatta, imprevedibilmente diversa da creatura a
creatura, per cui appunto accade che la vita sia cosi meravigliosamente
diversa e che gli stessi fatti che sempre accadono da quando l'uomo è sulla
faccia della terra, in realtà siano ogni volta nuovi, perché non sono mai
esattamente uguali gli individui che ogni volta si amano, s'ingannano, si
trovano, si lasciano, vanno in chiesa a sposarsi, contrattano un mercato,
scendono sul terreno a duellare, fanno la guerra, fanno l'amore, piangono,
ridono, nascono, muoiono.”[2] Dunque, oggetto della musica mozartiana è la vita,
con la sua diversità ed inarrestabile mobilità.
Che questa posizione possa avere significati non solo
diversi, ma perfino opposti è del tutto chiaro: la vita può
suggerire, infatti, la rappresentazione di un principio fondamentale, ma
inafferrabile e indicibile (si pensi all’élan vital, di cui dirà
Bergson); può stare a significare, quindi, una concezione romantica,
irrazionalistica, mistica dell’arte.
Oppure, con il termine vita può volersi
intendere la concreta operosità umana[3], che –seguendo tracciati comprensibili
e, dunque, perfino anticipabili in una certa misura- si svolge incessantemente,
nel senso che nulla di rigido e fisso può resistere al suo dinamismo[4]; in
questo secondo caso, non ci troveremmo entro una prospettiva romantica, sì
piuttosto avremmo a che fare con una concezione, perfino assimilabile al
classico realismo della dialettica di un Hegel o di un Marx. Per chiarir
meglio, vediamo –ricorrendo di nuovo a Massimo Mila- come un personaggio
significativo quale fu Søren Kierkegaard intese appunto la musica di Mozart.
“Per Soren Kierkegaard, il filosofo danese precursore
dell'esistenzialismo, Don Giovanni non è né un basso peccatore per
incontinenza, né un sottile dottore della trasgressione sacrilega. La sua natura
essenzialmente erotica e sensuale viene isolata e proiettata fino a farne un
valore assoluto. Don Giovanni è la carne vivificata e quasi spiritualizzata in
quanto si fa principio puro; non che riceva in sé qualche nota estranea, come
sarebbe, appunto, un'ideologia ribelle o prometeica, ma al contrario
restringendosi rigorosamente in se stessa acquista una specie di paradossale
purezza: è la pura carne, il puro senso nella sua ideale integrità, non
contaminato dalla benché minima intrusione dello spirito … c’era in Kierkegaard
un’intuizione profonda dell’identità tra la natura della musica e il flusso
vitale. Già nelle Nozze di Figaro la musica di Mozart aveva
investito, col suo movimento inesauribile, lo spettacolo della vita. Ma il Don
Giovanni è, per Kierkegaard, non soltanto la migliore di tutte le
opere, bensì è <qualitativamente diversa da tutte le altre>, in eterno
ineguagliabile per la musicalità profonda, <essenziale>.”; per
Kierkegaard, “l’<oggetto assoluto della musica> (è) l’immediato nella sua
fugacità, e in particolare l’immediato sensuale che, escluso dallo spirito, la
lingua non può esprimere.”[5]
Com’è chiaro, la lettura che Kierkegaard propone della
musica di Mozart si colloca nella prospettiva, che abbiamo detto romantica,
irrazionalistica e mistica. D’altronde la cosa è del tutto comprensibile, se si
tien conto della critica che Kierkegaard muove al pensiero di Hegel.
" … il significato più profondo della filosofia di
Kierkegaard –leggiamo in Lukàcs[6]- è porre dei punti fissi tra i passaggi
sempre più instabili della vita e stabilire differenze qualitative assolute nel
rimescolio caotico delle sfumature. Istituire differenze così inequivocabili e
profonde tra gli oggetti nei quali si è riscontrata una diversità, in modo che,
una volta distinti, la linea che li separa non possa essere più cancellata da
alcuna mediazione possibile. Bisogna fare una scelta tra le cose differenziate,
non si possono trovare <vie di mezzo>, né <sintesi più alte> che
possano risolvere le antitesi <solo apparenti>… In un sistema logico di
pensiero la vita non trova mai posto e, sotto questo profilo, il suo punto di
partenza è sempre arbitrario e la sua costruzione è solo in sé finita, mentre
sotto la prospettiva della vita è una cosa relativa, una tra le tante
possibilità. Per la vita non esiste sistema. Nella vita esiste solo il
particolare, il concreto." [7]
Ciò che sta a monte di questa posizione kierkegardiana è una
determinata interpretazione dell’identificazione hegeliana tra reale e
razionale. La quale non viene intesa come affermazione della comprensibilità del
reale, anche nelle sue contraddizioni e dissonanze; sì piuttosto nel senso di una riduzione del
reale –nonostante tutte le sue opposizioni, scarti e disarmonie- alla linearità del logico o razionale.
In questo senso, Kierkegaard ripropone l’antitesi radicale
di vita e ragione, di logico ed alogico,
che –come abbiamo detto- caratterizza la concezione romantica e, più
specificamente, Kierkegaard ripropone la centralità della vita, del vivente,
come l’inafferrabile, il non-mediabile, dunque, come
il non-riducibile non solo alla logica nel senso della logica
formale, ma in qualunque senso del termine (anche quello di
<linea di movimento della cosa stessa>, come hegelianamente diceva il
Marx dei Grundrisse).
Tornando a Lukàcs, così egli riassume la sua critica a
Kierkegaard: “l’autentitcità di Kierkegaard consiste dunque in questo: vedere
tutto come nettamente isolato, il sistema dalla vita, un uomo da un altro, uno
stadio dall’altro. Vedere nella vita l’assoluto e non dei compromessi insulsi.
Ma non è un compromesso vedere la vita senza compromessi? Questo voler restare
ancorati all’assolutezza non è piuttosto un modo di sfuggire alla costrizione
di tener conto di tutto? Lo stadio non è anch’esso una <sintesi più
alta>, negare l’esistenza di un sistema di vita non è anch’esso a sua volta
un sistema e il salto non è una mediazione improvvisa? Dietro ogni coincidenza
non si cela forse una netta distinzione e dietro la più accanita negazione del
compromesso non si cela a sua volta un compromesso? Si può essere autentici di
fronte alla vita e stilizzare in forme poetiche i suoi avvenimenti?”[8]
Con grande chiarezza ed incisività Lukàcs ci mostra, dunque,
che la Gesinnung kierkegaardiana, il suo orientamento o
atteggiamento di fondo, comprende certo la concezione dell’arte, ma va ben
oltre, investendo nella totalità le manifestazioni della realtà ed attività
umane: non per caso, lo stadio più alto, a cui l’uomo può pervenire secondo
Kierkegaard, è quello religioso.[9]
Un autore, che si richiama, invece, alla lezione di Hegel –ed
in chiave anti-romantica- è il russo V. Belinskij, il quale a partire dalla
metà dell’Ottocento, interviene in modo assai significativo sulle
caratteristiche della letteratura del suo paese, all’interno di riflessioni,
che vogliono avere un significato universale.[10]
Nei suoi Saggi critici, Belinskij afferma –con
tono certamente hegeliano- che “ogni sfera in cui si sviluppa lo spirito umano
è costituita da fatti organicamente connessi tra di loro e coerentemente
generati gli uni dagli altri …”; posta questa premessa, è evidente che la
“letteratura di un dato popolo” ormai non vive più in uno spazio suo, separato,
ma sì al contrario è connessa alla “letteratura in generale, umana,
universale”, la cui storia si intreccia con quella di ogni letteratura
nazionale. [11]
Infatti, “la letteratura è la suprema ed ultima espressione
del pensiero di un popolo, raggiunta con la parola … la letteratura è la
coscienza del popolo, espressa storicamente nelle opere verbali della sua
intelligenza e della sua fantasia.”[12] Ma essendo la vita nella moderna fase
storica sempre più caratterizzata dallo sviluppo di relazioni internazionali ed
intercontinentali, ecco che la coscienza di un singolo popolo non può
prescindere, per quanto sia radicata nella storia particolare di
una data comunità nazionale, dalle influenze che le derivano
dall’appartenere ad un certo mondo più generale, di cui la sua
specifica particolarità finisce tendenzialmente con l’essere un’articolazione
determinata.
La prospettiva, in cui Belinskij si inserisce è, come si
vede, quella di chi considera l’arte una delle manifestazioni
della vita storico-sociale[13], realisticamente connessa con
le problematiche, le contraddizioni, le ambiguità, ma anche la profonda logica
interna, della quotidianità stessa, dell’effettivo operare e modo di relazionarsi,
che specifica un ambiente, un mondo storicamente dato. In questo senso,
possiamo definire realismo (anti-romantico, ovviamente) il modo, in
cui Belinskij concepisce la letteratura e l’arte in generale.
Come egli stesso si chiede retoricamente, “sorprende forse …
che ai nostri tempi si sia sviluppata in prevalenza questa tendenza reale della
poesia, questa intima comunione tra l'arte e la vita? Sorprende forse che il
carattere distintivo delle opere più moderne risieda nella loro impietosa
sincerità, che in esse la vita è come esposta alla gogna, in tutta la sua
nudità, in tutta la sua terrificante mostruosità e bellezza trionfante, che in
esse la vita sembri smembrata dal bisturi del chirurgo? Non rivendichiamo un
ideale di vita, ma la vita stessa, cosi come essa è. Brutta o bella che sia,
non vogliamo abbellirla, perché pensiamo che essa nella sua immagine poetica
sia comunque stupenda in quanto è verità e là dove è la verità è anche la
poesia.” [14]
Belinskij condivide la rappresentazione della civiltà classica,
che possiamo trovare anche in Hegel, e la contrappone alla realtà della vita
odierna. Come egli stesso scrive, “ … la loro vita (dei Greci, in epoca
classica) si distingueva per totalità, poliedricità, integrità, la loro
religione era arte e l’arte religione; il sacerdozio era strettamente connesso
all’amminitrazione della vita pubblica; il guerriero in tempo di pace studiava
la saggezza e il saggio durante la guerra andava a combattere per la patria;
l’artista era un cittadino e l’uomo della strada non poteva vivere senza il
teatro … La letteratura greca, nella piena accezione del termine, era
l'espressione della coscienza dei cittadini e quindi di tutta la loro vita,
religiosa, civile, politica, intellettuale, etica, artistica e domestica. La storia
della letteratura greca è strettamente e indissolubilmente connessa alla storia
statale e politica del popolo, mentre la storia letteraria dei popoli moderni è
la storia di un aspetto soltanto della loro esistenza. E questo perché nel
mondo antico tutti i fenomeni della vita sociale erano strettamente e
indissolubilmente interconnessi e, compenetrandosi a vicenda, formavano un
tutto unico vivo e stupendo, mentre nel mondo contemporaneo tutti i fenomeni
sociali agiscono in modo isolato, particolare, staccato. Questa dissoluzione,
di così triste e desolante aspetto, specialmente se confrontata al mondo
radioso e stupendo della vita greca, è stata per altro necessaria affinché i
fenomeni della vita sociale, sviluppandosi singolarmente, si potessero svolgere
in modo più pieno, profondo e perfetto, onde ricongiungersi e costituire una
nuova integrità unitaria che sarà tanto più elevata del mondo greco quanto più
separato sarà lo sviluppo dei singoli fenomeni della socialità nel mondo
contemporaneo.”[15]
Dunque, secondo Belinskij alla dilacerazione dei rapporti
sociali, tipica della società moderna, alla perdita di armonia ed esplicita
razionalità della vita odierna, la risposta non sta nel proiettare l’armonia e
la ricomposizione in una sfera immaginativa ed ‘ideale’, ma sì nel comprendere
la logica interna della stessa dilacerazione, per potersi muovere a partire da
essa nel senso di una ricomposizione –articolata, certo, ma unitaria-
della vita comune.
E questo perché, “può avere una storia soltanto ciò che si
sviluppa organicamente avendo come punto di partenza un embrione, il seme di
spirito nazionale del popolo (sostanza) che scaturisce dal precedente e genera
il susseguente. Può svilupparsi organicamente soltanto ciò che cela in se
stesso la sua propria sostanza, simile al seme che cela in sé, come
possibilità, la vita e la forma della pianta futura e quindi dotato di
vitalità, che nell'osservanza delle condizioni necessarie -terreno, aria, luce,
umidità- immediatamente inizia ad esercitare le sue funzioni trasformando il
granello in stelo, lo stelo in tronco con rami e foglie, con germogli e
frutti.” [16]
Anche in Cerniševskij abbiamo esplicitamente affermata la
tesi, secondo cui l’arte è solo un’articolazione, una specificazione della
Weltanschauung, nella quale l’autore si riconosce.[17]
A differenza che in Belinskij, però, questa tesi, ora, non
si inserisce più in uno sfondo hegeliano, ma in quello di una cultura, che
dobbiamo definire –e lo vedremo- fondamentalmente empiristica.[18]
Sarebbe un errore, tuttavia, liquidare la posizione di Cerniševskij come mera
espressione di empirismo, appunto.
Infatti, si tratta –a ben vedere- di una esplicita,
consapevole polemica contro la condizione reale e quotidiana dell’uomo moderno,
condannato ad una vita grigia e misera: il ricorso alla fantasia, alla
costruzione di ‘castelli in aria’, di situazioni ed oggetti privi assolutamente
di imperfezioni e manchevolezze, non sono che la testimonianza –afferma
l’autore russo- della pochezza del reale.
“L’immaginazione costruisce i suoi castelli in aria soltanto
quando in realtà manca non solo una casa buona, ma addirittura un’isba
discreta. L’immaginazione si desta quando i sensi non sono occupati: la carenza
di una situazione soddisfacente nella realtà è la fonte della vita nella
fantasia. Ma appena la realtà diventa accettabile tutti i sogni
dell’immaginazione in confronto ad essa ci sembrano poveri e fiacchi. Questo
fatto indubbio che i sogni più luminosi vengono dimenticati e ci abbandonano,
perché insoddisfacenti, non appena ci circondano i fenomeni della vita reale,
dimostra senz’altro che i sogni dell’immaginazione cedono in fascino e bellezza
dinanzi alla realtà.”[19]
Al di là dell’evidente rilievo, che sul piano psicologico ha
l’osservazione di Cerniševskij (non per caso pochi anni dopo apparirà la
freudiana Traumdeutung), è indubbio che la contrarietà espressa nei
confronti delle costruzioni, necessariamente smodate, della fantasia sta a
significare la forte sensibilità dell’autore russo verso le reali condizioni
economico-sociali del comune uomo medio del suo tempo; ma sta a significare,
anche, che il richiamo all’empirismo vuol essere, nella prospettiva di
Cerniševskij, un’esortazione ad aprire gli occhi sulla realtà e a non farsi
sviare da allucinazioni compensatorie.
Al contrario, il romanticismo appare a Cerniševskij come la
preferenza data alla vita sognante e non a quella reale, empirica –ciò tenendo
conto che se l’immaginazione “vuole elevarsi al di sopra della realtà, può
soltanto tracciare dei segni incerti, assolutamente confusi, nei quali non
potremo scorgere veramente nulla di determinato e di affascinante.”[20] Ma la
posizione di Cerniševskij ha anche un significato morale ed epistemologico.
Morale, nel senso che il rifiuto dei sogni della
fantasia significa comprendere che, effettivamente, i desideri
umani son soddisfatti quando misurati, equilibrati: “ … i bisogni della vita
umana sono soddisfatti dalla normalità perché soltanto una
fantasia oziosa ricerca una fantastica perfezione. I nostri sensi, la nostra
intelligenza, il nostro cuore -ed anche la fantasia stessa non fa che ricamarci
sopra- non sanno niente delle vuote parole, se non ne hanno un’immagine viva e
determinata.”[21]
Dunque, in chiave anti-romantica Cerniševskij ripropone un
tema classico della riflessione morale, ovvero, quello della preferibilità di
una vita, che senza escludere nulla da sé, tutto riduce però ad equilibrio e
misura; di una vita, insomma che,platonicamente, fa dell’armonia delle
passioni la propria regola o norma.[22]
Anche questo atteggiamento morale si sposa, in Cerniševskij,
all’empirismo, ovvero (e questo è il lato epistemologico) alla
convinzione che nessun termine può essere effettivamente dotato di senso, se
non si congiunge ad una qualche esperienza o sense datum –come
si vede, torna la concezione empiristica della conoscenza scientifica, che
accetta sì l’astratto, il formale, ma solo a condizione che possa essere
ricavato –direttamente o indirettamente- da ciò, che è oggetto dei sensi. Non
fa meraviglia, a questo punto, che –per Cerniševskij- in nessun caso sia
accettabile un oggetto di pensiero (ovvero, un ente costruito
all’interno di una prospettiva teorica), che pretenda di essere completamento o perfezionamentodell’oggetto empirico o rinvenibile
nell’esistenza, nel Dasein –per dirlo con il linguaggio
della filosofia tedesca.[23]
[1] - M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart,
Torino 1988.
[2] - M. Mila, op. cit.: 20.
[3] - Così si legge in V.Belinskij, Scritti scelti, Mosca
1981: 31 - “Il laboratorio della letteratura … è la società con i suoi
interessi e la sua vita.”; ed ancora a conclusione di un discorso su Cervantes,
Shakespeare e Walter Scott: “… ecco l'altra faccia della poesia, ecco la poesia reale,
la poesia della vita, la poesia della realtà, infine l'autentica poesia del
nostro tempo. Il suo carattere distintivo risiede nella fedeltà alla realtà;
essa non ritrasforma la vita, ma la riproduce; la ricrea e come uno specchio
concavo, riflette in sé, sotto un unico punto di vista, i fenomeni suoi
diversi, scegliendo tra essi soltanto quelli che sono necessari per formare un
quadro completo, vivo e unitario. Il volume e i confini del contenuto di tale
quadro stanno a determinare la grandezza e la genialità della creazione
poetica.” (Belinskij, op.cit.: 59).“. Va notato che questa
concezione del rapporto arte/realtà, in Belinskij, nasce da un’acuta
consapevolezza delle contraddizioni della società moderna, infatti, egli scrive
ancora: “… per noi la vita non è più un lieto convito e nemmeno un’oziosa
letizia, ma un campo di lavoro, di lotta, di sacrificio e di tormento. Da qui
traggono origine la tristezza, la malinconia, la pensierosità e insieme la
meditazione di cui è permeata la nostra lirica.” (Belinskij, op.cit.:
61).
[4] - E’ noto che nell’Ottocento la religione (in
particolare nella sua tradizione cristiano-giudaica) fu presa a modello di una
cultura, fondata su credenze rigide ed intolleranti verso ogni critica. E’
altrettanto noto che il richiamo alla vita, al vivente –in
Hegel, ad es.- ebbe la funzione di criticare tale <positività> della
religione. Appunto questo atteggiamento anti-talmudistico, anti-dogmatico
troviamo nella poesia di Goethe Prometeorichiamata da M. Mila alla
p. 39 del libro, che abbiamo già ricordato: “ Non conosco niente di più
meschino/ sotto il sole che voi, dei!/ … Io onorarvi? E perché? …/ Non hai
tutto compiuto, da solo, mio sacro, ardente cuore? / … Qui io sto e formo
uomini/ a mia immagine,/una razza che sia simile a me:/per soffrire, per
piangere, per godere, per vivere -/e non per curarsi di te,/come faccio io!.”
[5] - Mila, op. cit.: 10s.
[6] - G. Lukàcs, , L’anima e le forme, Milano
1975: 75s.
[7] - A riprova di quanto duttile e non unilaterale e rigida
sia la lettura, che di Kiekeggard, Lukàcs propone nel testo cit., si consideri
questa ulteriore valutazione: Kierkegaard “vide più acutamente di tutti
l’infinita mutevolezza di ogni situazione, (nessuno più di Kierkegaard) vide
con tanta lucidità come ogni cosa si tramuta nell’altra come nel suo opposto.
(Kierkegaard) ci insegnò che, a guardar bene la realtà, si scoprono degli
abissi invalicabili in mezzo alla fittissima rete delle mediazioni.” (v. G.
Lukàcs, op. cit.: 70).
[8] - v. Lukàcs, op. cit.: 76.
[9] - Su Kiekegaard è ovvio il rinvio a K. Löwith, Von
Hegel zu Nietzsche, Wien 1949 ed a G. Lukàcs, Die
Zerstörung der Vernunft, Berlin 1954.
[10] - Su Belinskij e su Cerniševskij, che analizzeremo
più avanti, cf. G. Lukàcs, Saggi sul realismo, Torino 1950.
[11] - V. Belinskij, Saggi critici, Mosca
1981: 15.
[12] - cf. Belinskij, op. cit.: 15, 24.
[13] - Si tratta, d’altronde, di una posizione presente
anche in Kant, per il quale “tutti (i diversi) termini del sistema -la logica
come l'etica e l'estetica -non sono nient'altro che momenti diversi di un unico
grande compito di oggettivazione. (Cassirer,Filosofia delle forme
simboliche, 3.1, Firenze 1966: 67).
[14] - cf.
Belinskij, op. cit.: 60.
[15] -
Belinskij, op. cit.: 22.
[16] - Belinskij, op. cit.: 24.
[17] - N. Cerniševskij, Saggi critici, Mosca
1984: 34s.
[18] - Così Cerniševskij –in op. cit.: 21-
caratterizza la tendenza fondamentale della scienza odierna: “rispetto per la
vita reale, sfiducia per le ipotesi aprioristiche sia pure piacevoli per la
fantasia …”. Come si vede, si tratta di una caratterizzazione della scienza,
che sarebbe piaciuta certamenete sia a F. Bacon che a J.S. Mill e che, rispetto
a cosa si intenderà per scienza a partire almeno dal secondo Ottocento, mostra
una forte inconsapevolezza del ruolo che, appunto nella scienza, giocano
astrazione e teoria (ridotte da Cerniševskij –ma anche più tardi da certo
marxismo volgare- a meri prodotti della fantasia, quando non siano
generalizzazioni di dati empirici).
[19] -
Cerniševskij, op. cit.: 27.
[20] -
Cerniševskij, op. cit.: 27s.
[21] - Cerniševskij, op. cit.: 31.
[22] - Può essere interessante aggiungere che questo tema
dell’imbrigliamento (in tedesco, Bändigung) delle passioni lo
ritroveremo anche in Freud, per il quale la ‘normalità’ psichica consiste,
appunto, non nel divieto verso questa o quella passione, ma nella riduzione a norma
o misura delle passioni stesse.
[23] - Cerniševskij, op. cit.: 36.
Nessun commento:
Posta un commento