E’ necessario fare luce sul
processo storico in atto, per superare il sentimento di profonda impotenza e
spaesamento vissuto dai lavoratori e dai cittadini italiani ed europei di
fronte allo svilimento delle storiche istituzioni politiche democratiche e
soprattutto alla perdita delle condizioni di relativo benessere che sembravano
irreversibilmente acquisite ormai da cinquant’anni a questa parte.
Ma queste condizioni erano in
rapporto con una forma politica tendenzialmente socialdemocratica affermatasi
nei Paesi a capitalismo avanzato. Un quadro conseguente a determinate
situazioni storiche contingenti.
Fondamentalmente, i sistemi più o
meno socialdemocratici nel dopoguerra hanno costituito una modalità di preservazione
del sistema capitalistico, o, se vogliamo, un compromesso per far fronte ai
partiti comunisti di massa e all’Unione Sovietica a cui erano legati.
Nonostante tutte le contraddizioni del socialismo reale, l’URSS ha infatti
rappresentato comunque un’effettiva alternativa al capitalismo, avendo
dimostrato la capacità di sconfiggere militarmente l’esercito nazista nella
Seconda Guerra Mondiale, di produrre un rapido sviluppo industriale, di elevare
le condizioni di vita e l’istruzione di
decine di milioni di cittadini e, non meno importante, di mantenere, almeno sul
piano dell’idea, il grandioso principio dell’autogoverno dei lavoratori e dell’uguaglianza sociale.
Le
concessioni agli interessi dei lavoratori (impropriamente definiti “diritti”
dalle sinistre e dai sindacati burocratizzati) nei Paesi capitalisti sono state
la risposta che si è nei fatti concretizzata agli effettivi rapporti di forza
in gioco. Ed è stata una risposta più razionale rispetto a quella, pur
possibile, autoritaria (si pensi agli anni Trenta in Europa) in quanto ha
fornito alcuni effettivi benefici sociali ai lavoratori, creando una crescente
domanda di merci e inoltre ha reso possibile un notevole sviluppo industriale e
dei servizi.
In Italia una
classe parassitaria, in contiguità con i poteri della mafia, si è inserita nei
meccanismi nevralgici di allocazione del denaro pubblico, con il risultato da
una parte di deviarlo da impieghi produttivi, dall’altra, di delegittimare, sul
piano ideologico, la stessa socialdemocrazia. Negli anni ’90 infatti, con la
crescita di prevalenti interessi legati al sistema finanziario globale e alle
multinazionali, sono saltati gli equilibri preesistenti ed è stato consentito
di denunciare le vicende di malaffare della gestione della cosa pubblica da
parte dei politici (operazione “mani pulite”). In questa smarrimento si è
compiuta l’operazione di promozione delle politiche neoliberiste. Nei Paesi
anglosassoni, l’attacco alla socialdemocrazia è stato condotto dai governi
reazionari della Thatcher e di Reagan.
La sempre più
totale riduzione delle barriere statuali ai movimenti dei capitali e la
globalizzazione finanziaria hanno ridimensionato drasticamente il vantaggio, in
termini di profitto, di un sistema socialdemocratico. In sostanza esso, con le
sue politiche economiche keinesiane che espandono la domanda aggregata della
nazione, ha smesso di svolgere un ruolo favorevole all’accumulazione
capitalistica. Ciò che in definitiva deve essere ben chiaro è che il sistema
economico socialdemocratico non è la naturale tendenza del sistema
capitalistico, piuttosto è, per così dire, una costrizione a cui esso si adegua
per necessità di sopravvivenza, uno snaturamento, compiuto per una prospettiva
di contingente convenienza.
Si fa spesso
un parallelismo tra l’attuale crisi economica e quella degli anni ’30. Il famoso
romanzo “Furore”, capolavoro di John Steinbeck, ambientato negli anni della
Grande Depressione negli Stati Uniti, narra le drammatiche sventure di una famiglia di contadini ex mezzadri, sfrattata
dalla propria terra a seguito della diffusione dei trattori e della
trasformazione industriale dell’agricoltura. L’offerta di lavoro, come è
immaginabile, superava abbondantemente la domanda e, in un sistema di totale
assenza di regole e di completa flessibilità del lavoro (oggi si direbbe un
mercato del lavoro moderno ed efficiente), i lavoratori in eccesso entravano in
concorrenza tra di loro e le paghe giornaliere venivano ridotte persino sotto
il livello di sopravvivenza. In assoluta mancanza di tutele pubbliche,
terminata la campagna stagionale di raccolta della frutta, i braccianti
agricoli, privi di qualsiasi mezzo di sussistenza, erano condannati a morire
letteralmente di fame insieme ai loro famigliari. Così l’Autore fa dire ad un
protagonista del racconto: “è terminata la raccolta, non hanno più bisogno di
noi, e ci lasciano morire di fame: ma non avranno di nuovo bisogno di noi fra
qualche mese, in primavera? Non ho mai visto togliere il fieno ai cavalli nella
stagione invernale quando non vengono impiegati nei campi…”.
Secondo il
premio Nobel per l’economia Stiglitz, la Grande Depressione
degli anni ’30, il crollo finanziario, prese le mosse dalla diminuzione del
reddito e dalla disoccupazione conseguente alla crescita dell’efficienza
produttiva. La produzione aumentò più della domanda, i prezzi crollarono
bruscamente e il risultato fu la distruzione di occasioni di lavoro e di vita
in campagna. L’aumento della produttività ridusse in breve tempo i posti di
lavoro nell’agricoltura dal 20 al 2 % del totale: dunque la crisi degli anni
’30, ritiene l’Economista, sarebbe stata determinata da una trasformazione
strutturale nell’economia.
L’attuale
crisi europea (di cui quella del 2008 in USA, dei cosiddetti subprime, è stato l’inizio) è una crisi
strutturale, avviatasi già da diversi anni, dell’intero mondo a capitalismo
avanzato, ed è legata ad un inarrestabile processo di deindustrializzazione di
questi paesi, a vantaggio di quelli una volta detti “in via di sviluppo” (oggi
BRICS), avanti a tutti la Cina, la quale, grazie allo sviluppo tecnologico e
alla formazione di una enorme massa di tecnici qualificati ed ingegneri
(ingresso nel lavoro di sette milioni di giovani laureati nel solo 2011), ha
potuto acquisire produzioni ad alto valore aggiunto, un tempo confinate in
Giappone, in Europa, negli USA. A sua volta la Cina ha prodotto un flusso di
delocalizzazioni manifatturiere per le produzioni a più basso valore aggiunto
verso gli altri paesi meno sviluppati dell’Asia.
L’elite del
potere economico finanziario in USA e in Europa è diventata sempre più
svincolata dalle attività industriali dei territori. Così le industrie
delocalizzano la produzione dove trovano le condizioni favorevoli (in
particolare bassi salari, manodopera qualificata e minori vincoli al rispetto
dell’ecosistema e della salute umana) e i capitali si spostano dove i regimi di
imposizione fiscale sono più convenienti. Si stabilisce perciò una gara
planetaria alla riduzione delle imposizioni fiscali sui capitali. Pertanto gli
ultimi decenni sono stati caratterizzati anche da questa iniquità: le risorse
degli Stati per la spesa sociale si sono ridotte, mentre sono aumentate le
tasse ai propri cittadini.
Dunque i
paesi a più antica industrializzazione si sono indebitati oltremisura, per
cercare da una parte di ridurre le imposte sui capitali e dall’altra per
cercare di garantire, almeno in parte, lo stesso livello di vita della propria
popolazione. Quando gli “ideologi” delle politiche di austerità dicono che
“abbiamo vissuto e viviamo sopra le nostre possibilità”, questo è perfettamente
vero, nella misura in cui i rapporti economico-sociali si svolgono nel libero
mercato capitalistico. Infatti negli ultimi venti anni i lavoratori e i cittadini
in genere (escluso quell’1 % più ricco) avrebbero già dovuto subire un forte
impoverimento, ben maggiore rispetto a quello che comunque in parte si è già
verificato (in realtà infatti le rilevazioni statistiche sui salari e sulla
ripartizione dei redditi tra salari e profitti da capitale già sono indicativi
di tale direzione): “lacci e lacciuoli”, sindacati, partiti interessati più
alla “popolarità” e alle elezioni che agli “interessi generali” (cioè dei
grandi capitali), hanno in qualche modo ritardato quelle “naturali”
trasformazioni che ora sembrano arrivare di colpo.
Insomma la
globalizzazione dei movimenti di capitale finanziario, con le connesse
delocalizzazioni della produzione industriale, sta conducendo ad un dumping fiscale generale dei capitali e
a un dumping dei salari che, in definitiva,
anziché accrescere il benessere nei paesi di nuova industrializzazione, non fa
altro che estendere il “terzo mondo”, ovvero la povertà delle masse, all’intero
globo. E’ un processo, potremmo dire, di “terzomondializzazione” del XXI
secolo, l’inverso delle prospettive di sviluppo del Terzo Mondo del secolo
scorso.
In Europa in
particolare, ma non solo, la delocalizzazione delle produzioni industriali, che
si somma all’aumento di produttività legate allo sviluppo tecnologico,
determina una emorragia di posti di lavoro. Di conseguenza si riducono
ulteriormente le entrate fiscali per l’erario e i contributi pensionistici;
aumentano invece le richieste di sostegno alla disoccupazione, portando verso
la bancarotta i bilanci degli stati e i sistemi assistenziali e pensionistici.
Quando si
dice, sempre con finalità ideologiche, che in Italia la causa
dell’insostenibilità del sistema pensionistico è l’eccessivo invecchiamento
della popolazione e pertanto si sostiene che occorre andare in pensione più
tardi, incredibilmente ci si dimentica che un giovane su tre è lasciato
disoccupato: la carenza di popolazione attiva è dovuta, ovviamente, alla
mancanza di offerta di lavoro, non certo alla mancanza di domanda! La
disoccupazione è risultato delle dinamiche globali descritte e l’aumento
dell’età pensionabile non può far altro che aumentare la stessa disoccupazione
giovanile (a meno che l’aumento dell’età pensionabile non si traduca semplicemente
nel licenziamento dei lavoratori anziani, privati anche del diritto alla
pensione).
Sarebbe
altresì sensato ridistribuire il tempo di lavoro tra i diversi soggetti
occupabili, se non altro per un principio di maggiore parità sociale, ma ciò
non sembra essere negli interessi di chi si adopera piuttosto a porre i
lavoratori in concorrenza per il salario, senza la minima preoccupazione per la
disperazione dei lavoratori lasciati senza reddito insieme alle loro famiglie.
Infatti il governo Monti (e anche altri governi fedeli alle oligarchie
economiche) prolunga l’età pensionabile fino all’età di 67 anni e oltre, detassa gli straordinari e propone persino di
ridurre le festività nazionali o il periodo di ferie, aumentando l’orario di
lavoro. Insomma anziché “lavorare tutti, lavorare meno!” si ha “lavorare in
pochi, lavorare di più e con salario ridotto!”. L’affermazione marxiana secondo
la quale nel sistema capitalistico i salari tendono al livello di sopravvivenza
si sta realizzando effettivamente.
L’aumentata
disoccupazione e la contemporanea drastica riduzione dei sostegni alla disoccupazione
(è stata stabilita l’eliminazione degli ammortizzatori sociali per i
licenziamenti collettivi, sostituiti da brevissimi e ridotti sussidi di
disoccupazione) getterà masse di disperati alla ricerca di un posto di lavoro
ad ogni costo, come nel romanzo di Steinbeck.
In
conclusione il capitalismo sta gettando la maschera e tende da una parte a
dispiegarsi nella sua essenza brutale e dall’altra a far convergere le
condizioni economiche e di vita dei lavoratori di tutto il mondo. E’ ipotizzabile
che, fermo restando la necessità di riorganizzazione un Partito Comunista (o
anticapitalista) internazionale, ciò favorirà un processo di formazione della
coscienza di classe del proletariato mondiale, nodo indispensabile per poter
trasformare la società, liberandola dal capitalismo e dalla conseguente
barbarie. Paolo Massucci (Collettivo
di formazione marxista "Maurizio Franceschini")
Diceva Marx che quando il capitale non riesce più a realizzare profitto attraverso la vendita di merci, va in Borsa e specula. Almeno in parte, ciò è quanto sta avvenendo, a mio avviso.
RispondiEliminaIl capitalismo non è sistema capace di programmare e dirigere razionalmente lo sviluppo economico; da sempre, conosce fasi di espansione e momenti di crisi, durate le quali, per la sua logica interna, non può fare altro che distruggere, anche se parzialmente, se stesso e le forze produttive che lo stesso capitale aveva prodotto. E’ evidente che la lunga fase di apparente prosperità che il sistema, scaricando i suoi costi sui paesi poveri del mondo, era riuscito a realizzare in Europa dal secondo dopoguerra in poi, aveva favorito la trasformazione in senso riformistico della maggior parte dei Partiti Comunisti europei e la nascita delle “grandi socialdemocrazie” come quella tedesca o scandinava. Con uguale evidenza, si può dire che lo stesso Stato borghese, in quella fase, aveva cambiato volto: sembrava essere diventato più “buono” grazie alle politiche di welfare e all’impronta keynesiana che aveva assunto. Era riuscito a garantire una relativa pace sociale facendo credere alla classe operaia e ai lavoratori tutti che si vivesse nel migliore dei mondi possibili, anzi, in un mondo indefinitamente migliorabile. Ora, bruscamente, ci si sveglia dal sogno: e ci si accorge che lo Stato torna ad manifestarsi nella sua natura più brutale, cioè come strumento del dominio di classe. Nessun marxista si meraviglia di ciò. Ma la domanda da porsi, io credo, è questa: le masse, e i comunisti stessi, “impareranno dalla storia”? Verrà in luce, sul piano della coscienza e dell’organizzazione, che l’abbattimento del capitalismo sarebbe un gran bene per la maggior parte degli abitanti del mondo? O, in assenza di ciò, si andrà verso una terra desolata e devastata da guerre e da terribili e distruttivi, perché privi di direzione politica e strategica, scontri di “classe”?
L’alternativa della Rosa Luxemburg “socialismo o barbarie” si risolverà sempre di più per la seconda soluzione?