Da: https://www.lacittafutura.it - Paolo
Massucci (Collettivo
di formazione marxista Stefano Garroni)
La
concorrenza pura e perfetta invocata da economisti e governi non
intacca i meccanismi che accrescono le disuguaglianze economiche, se
mai il contrario. Mentre la proposta dell’Autore di un’imposta
progressiva mondiale sui patrimoni individuali si scontra con la
concorrenza fiscale per l’ingresso dei capitali tra gli Stati, che
tende invece ad una riduzione delle imposte sugli stessi. Come se ne
esce ? Sarà sufficiente l’invito allo studio dei processi
economici distributivi da parte degli intellettuali, dei militanti
della politica e dei cittadini, nonché l’impegno alla
partecipazione democratica per cambiare lo stato delle cose come
auspica Piketty ?
In
questa corposa opera scientifica di quasi mille pagine Piketty -sulla
base dei dati disponibili-presenta in maniera dettagliata, talvolta
persino ridondante, lo stato attuale delle nostre conoscenze storiche
sulla dinamica della distribuzione dei redditi e dei patrimoni a
partire dal XVIII secolo, traendone, in ultimo, insegnamenti per il
secolo in corso. La lezione principale -che conferma peraltro molti
altri studi nonché la comune esperienza- è che il sistema
capitalistico, se abbandonato a se stesso, continua a produrre
progressiva divergenza economica all’interno della società,
mettendo persino in discussione quello stato sociale faticosamente
conquistato dai cittadini europei.
Il
testo, non certo sintetico, costituisce uno studio serio che ha il
merito di chiarire, su basi oggettive, la distribuzione della
ricchezza mondiale, la sua dinamica storica e la direzione futura
prevedibile, nonché quello di formulare una possibile soluzione
chiara dei gravi problemi, della quale espone anche gli attuali
ostacoli da rimuovere per la sua effettiva realizzazione. La proposta
formulata consiste in un processo di redistribuzione della ricchezza,
mediante una elevata imposta mondiale fortemente progressiva da
applicarsi sul capitale individuale, per invertire l’attuale
andamento, altrimenti inarrestabile, di concentrazione della stessa
ricchezza prodotta (con formazione di un’oligarchia
internazionale). Secondo l’Autore, tale riforma si dovrebbe
comunque realizzare per vie democratiche all’interno dell’attuale
sistema capitalistico e sarebbe l’unico modo per impedire una
situazione insostenibile di sempre più estrema disuguaglianza
economica, tale da poter inficiare gli stessi meccanismi del
funzionamento economico e da generare inevitabilmente disastri
umanitari e sociali al punto da ipotizzare la fine della civiltà
così come oggi la conosciamo.
Analizzando
i dati statistici mostrati nel testo si evince che con il crescere
delle disuguaglianze nella proprietà di capitali, la cosiddetta
“classe media” tende a sparire e si proletarizza, determinandosi
una separazione sempre più netta tra i nullatenenti e la classe
possidente. Si evince anche che la “classe media”, che
costituisce ancora una sorta di cuscinetto tra il proletariato vero e
proprio e la borghesia e che ha costituito il perno dello sviluppo
delle cosiddette “democrazie occidentali”, non è sempre esistita
storicamente (e geograficamente), ma si è formata prevalentemente
nei primi decenni del secondo dopoguerra, a seguito di peculiari
fattori storici occorsi nei Paesi sviluppati. La classe media piccolo
proprietaria è stata una grande creazione del XX secolo, dovuta alla
redistribuzione di una importante quota di ricchezza proveniente dai
centili superiori, nonché -ma questo punto non sembrerebbe essere
citato nel testo- dall’esproprio sistematico della ricchezza
prodotta dai paesi colonizzati da parte dell’imperialismo
occidentale. E oggi sempre più in crisi…
Il
punto è che i decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, i
Trente Glorieuses,
come ci illustra Piketty, sono stati l’unico periodo nella storia
del capitalismo in cui si sono verificate le seguenti condizioni, in
particolare nei Paesi del cosiddetto “Primo Mondo”:
-
Crescita molto elevata del Prodotto Interno lordo (PIL). In nessun altro periodo storico, né antecedente o né successivo, si è mai avuta una tale continuativa crescita economica.
-
Minime disuguaglianze patrimoniali di partenza. Ciò è stata la conseguenza dei disastri di trent’anni delle due guerre mondiali e della Grande Crisi economico-finanziaria che hanno quasi azzerato i valori dei capitali mobiliari ed immobiliari.
-
Contenute (seppur crescenti) disuguaglianze dei redditi da lavoro.
-
Politiche economiche pro lavoro e socialmente più egualitarie (ad esempio la creazione dell’imposta progressiva sul reddito).
In
tale congiuntura storica l’accumulo di ricchezza è provenuta
prevalentemente dai redditi di lavoro anziché dal capitale ereditato
o accumulato nel passato e ciò ha determinato una maggiore mobilità
sociale ed una effettiva, sebbene parziale, emancipazione sociale.
L’Autore
mette opportunamente in rilievo come questa fase storica si sia
andata esaurendo intorno agli anni settanta e come, conseguentemente,
la sua fenomenologia sociale in termini di distribuzione della
ricchezza (minore disuguaglianza economica, espansione di una classe
media, sviluppo dello stato sociale), a partire da quel periodo, pur
con un ritardo inerziale, si stia ritrasformando in senso regressivo.
Si è trattato infatti di una fase peculiare e temporanea, non del
naturale sviluppo capitalistico.
Ci
stiamo ormai avviando, in tutti i Paesi Sviluppati e in buona parte
del mondo, verso una diseguaglianza economica in termini patrimoniali
simile a quella vissuta dall’Europa nel XIX secolo -con l’1% di
rentiers
che possedeva il 50-60% dei patrimonio nazionale, il 10% che ne
possedeva il 90% e il resto della popolazione che viveva di stenti- e
tendenzialmente potremo persino superarla se non si interverrà.
Ancora più drammatica è la crescente disuguaglianza dei redditi da
lavoro: a partire dagli anni settanta-ottanta assistiamo, soprattutto
e ad iniziare dagli Stati Uniti, ad una esplosione senza precedenti
delle disuguaglianze di reddito, con una crescita impressionante del
reddito da lavoro essenzialmente a beneficio esclusivo dell’1% più
benestante. Ciò è dovuto in particolare ad una classe di
supermanager
delle multinazionali con stipendi annui di diversi milioni di dollari
(o di euro) e persino di centinaia di milioni per le posizioni di
vertice: nessuno può prevedere fino a quale livello ci si potrà
spingere da oggi in avanti. La polarizzazione dei redditi da lavoro
sta facendo sì che le famiglie ad alto reddito -oltre il novantesimo
o i novantacinquesimo percentile-, impiegando appena una piccola
parte del loro reddito, possano sempre più impiegare come domestici
una buona parte della popolazione a minor reddito. Si sta ricreando
il lavoro servile ?
La
crescita estrema della disuguaglianza, con l’attuale andamento,
potrà raggiungere un livello tale da essere considerata
intollerabile e dar luogo a lotte violente a cui si opporrebbero da
una parte un più forte apparato repressivo dall’altra
un’operazione di vitale legittimazione ideologica della posizione
dei vincitori, operazione che naturalmente è già pienamente in
atto. Quest’ultima si propone sia di giustificare la ricchezza e
gli alti redditi con il merito sul lavoro (capacità e sacrificio)
sia con la loro necessità sociale, nel senso che la eventuale
riduzione degli alti redditi nuocerebbe al resto della popolazione.
L’Autore
fa notare che tutti i dati disponibili suggeriscono che, a dispetto
dei luoghi comuni ideologici, la mobilità sociale nell’America del
XX secolo e all’inizio del XXI (nazione che presenta la maggiore
disparità dei redditi da lavoro), sia molto bassa ed inferiore a
quella dell’Europa. Ciò viene messo in relazione con l’elevato
costo degli studi universitari, proibitivo per le classi popolari e
medie, ed in particolare di quelli più prestigiosi (ad Harvard, che
non è nemmeno l’università più cara, le quote di iscrizione
ammontavano a 54000 dollari nel 2013). Certamente l’accesso
esclusivo agli studi più qualificati e prestigiosi impedisce
qualsiasi vera mobilità sociale, accelerando ed aggravando piuttosto
il processo di riproduzione intergenerazionale (altro che opposizione
tra generazioni o divisione della ricchezza sulla base dell’età,
come pure viene affermato ideologicamente!). Ma c’è di più: gli
economisti ad esempio, soprattutto i più quotati, provengono proprio
dalle classi più privilegiate e svolgono un ruolo tecnico per i
decisori politici, oltre a quello di insegnamento e divulgazione. La
loro appartenenza di classe comporta pertanto anch’essa,
indirettamente, un’azione di autorigenerazione delle stesse
disuguaglianze. A tal proposito Piketty sostiene che teorie e
metodologie nella scienza economica risentano profondamente di tali
interessi e cita l’utilizzo diffuso di indicatori astratti di
disuguaglianza, quali il Coefficiente
di Gini o il
Principio di Pareto
o i rapporti interdecili, i quali si propongono di edulcorare le
stesse disuguaglianze, presentandole come naturali, ovvie, eterne.
Nel testo viene smentito anche il mito, riduttivo e infondato,
dell’accumulazione come “ciclo di vita”, suggerito
dall’economista italiano Modigliani, apologeta del liberismo
economico, secondo cui il capitale sarebbe accumulato nel corso della
vita lavorativa mediante il risparmio, per essere utilizzato
interamente, dopo il pensionamento, per mantenere il tenore di vita,
anziché essere destinato a trasmettersi con l’eredità.
Le
grandi ricchezze generano ovviamente potere e capacità di lobbying e
ciò è certamente una delle spiegazioni della tendenza alla
riduzione della progressività delle imposte che a sua volta aumenta
di fatto il reddito netto della classe più benestante (si pensi,
passando all’attualità, alla drastica riduzione delle imposte alla
imprese americane stabilita dal tycoon
Trump, o, nel piccolo, alla assurda proposta di una flat
tax, nella campagna
elettorale italiana in corso, da parte del magnate Silvio
Berlusconi). Un altro fattore di divergenza deriva dal fatto che i
capitali maggiori rendono di più di quelli piccoli o minimi
(immaginiamo i tassi di interesse irrisori, spese a parte, di un
conto corrente bancario o postale), grazie alla maggiore economia di
scala nei costi della gestione finanziaria come pure al migliore
accesso di informazioni sui mercati finanziari, riservate e non. In
più al crescere della dimensione dei capitali aumenta la capacità
di evasione fiscale, legale ed illegale (si pensi ai cosiddetti
paradisi fiscali,
ma anche
alla costituzione di fondazioni private e di trust
funds o allo
spostamento delle sedi fiscali delle società o della residenza
personale dove conveniente, ecc.). Tutto ciò comporta, in un circolo
vizioso, una crescita esponenziale dei patrimoni più grandi.
Piketty
sostiene, a ragione, contro Pareto, che non esiste un limite
“naturale” al livello di disuguaglianza della distribuzione di
redditi e ricchezze, non esistono fattori automatici di regolazione
che lo stabilizzino, ma sono i fattori esogeni che giocano. D’altra
parte non ritiene verosimile la teoria del futuro crollo automatico
del capitalismo come conseguenza della marxiana caduta tendenziale
del saggio di profitto. Tale andamento infatti può essere attenuato
o persino temporaneamente bloccato o invertito da una serie di
controtendenze tra cui lo sviluppo tecnologico o le politiche
neoliberiste pro capitale.
La
soluzione preferibile formulata da Piketty sarebbe, in sostanza, una
imposta annuale individuale sul capitale fortemente progressiva, a
tassi quasi confiscatori per le maggiori ricchezze ed estesa a
livello mondiale. Per rendere ciò attuabile, sottolinea l’Autore,
occorre però creare strumenti nuovi, fondati teoricamente su un
sistema altamente trasparente di scambi automatici di informazioni
bancarie, affidabili e globali, sulla distribuzione dei patrimoni, in
mano al potere pubblico e che svolga interessi generali. Questo
secondo l’Autore sarebbe l’unico modo, non certo semplice da
attuarsi, che consentirebbe alla democrazia di riprendere il
controllo del capitalismo finanziario globale, salvaguardando allo
stesso tempo il dinamismo imprenditoriale. E sarebbe pertanto una
soluzione più “pacifica” di quella, peraltro definita
fallimentare, attuata dall’Unione Sovietica nel XX secolo. L’Autore
suggerisce anche che la soluzione illustrata consentirebbe di
rimborsare tutto o in parte l’astronomico debito pubblico,
accumulato da molti Paesi del sud Europa tra cui l’Italia. In
maniera condivisibile questi afferma che il debito pubblico
costituisce una ricchezza privata che grava sulla povertà pubblica e
va incontro agli interessi di chi dispone di mezzi finanziari per
prestare soldi allo Stato, a cui sarebbe stato invece meglio far
pagare le imposte.
Tuttavia
non è chiaro come possa essere imposta una tale soluzione, che non è
certo tecnica ma politica, la quale in pratica significherebbe la
perdita del controllo del potere da parte del capitalista e la sua,
pur graduale, espropriazione. Tant’è vero che oggi, in effetti,
prevale un senso di impotenza da parte delle classi popolari e delle
classi medie, e, all’opposto di quanto auspicato, persino a livello
europeo gli Stati entrano in concorrenza, divisi dall’esigenza,
penalizzante, di attrarre capitali, come lo stesso testo ci espone.
Assistiamo
infatti ormai ad una gara continua per ridurre le imposte sui redditi
delle imprese e per detassare i redditi finanziari, al punto che già
oggi il prelievo fiscale sui vertici della gerarchia sociale di fatto
ha già perso ogni progressività. Il modo di produzione
capitalistico si è sviluppato e si regge, possiamo dire, non perché
sia più efficiente di altri modi di produzione, ma perché esso
fornisce ai capitalisti il più grande profitto e il più grande
potere. Consentiranno mai i capitalisti di attuare la soluzione
proposta da Thomas Piketty che, pur mantenendo il capitalismo,
eliminerebbe i più grandi privilegi alla classe detentrice del
potere, cioè a loro stessi?
In
ultimo, il titolo del testo non può non richiamare la maggiore opera
filosofica di Marx, ma naturalmente la distanza tra di esse, a parte
qualche minore analogia (quali diversi richiami alla letteratura
francese ottocentesca) e minimi riferimenti allo stesso Marx, rimane
siderale: l’indagine di Piketty, pur attenta alle dinamiche del
processo storico, si svolge da una prospettiva strettamente
socio-economica e quantitativa ed è lontana da qualsiasi profondità
valutativa filosofica. Chiarito ciò, il testo dell’autore francese
può essere indubbiamente uno strumento molto utile come punto di
partenza per una discussione politica, in considerazione dei
drammatici dati oggettivi e del loro andamento generati dal sistema
capitalistico ed opportunamente qui mostratici.
Per
concludere, si potrebbe dire che le soluzioni individuate da Piketty,
posto che risolverebbero il problema della ingiusta distribuzione
della ricchezza nel sistema capitalistico e della connessa perdita
della democrazia, siano l’ultima possibilità di dimostrare
l’eventuale riformabilità del capitalismo. Ad oggi, a quasi cinque
anni dalla pubblicazione dell’opera, che pure ha venduto nel mondo
oltre un milione di copie, passi avanti anche minimi verso
l’applicazione delle ricette qui proposte non risulta siano state
fatti, e questo deve far riflettere.
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