lunedì 26 gennaio 2015

ESPERIENZA E EDUCAZIONE - John Dewey

Introduzione

            I due saggi di John Dewey Unity of Science as a social problem e Theory of Valuation sono stati pubblicati tra il 1938 e il 1939 nella raccolta di scritti curata da Otto Neurath dal titolo International Encyclopedia of Unified Science dall’University of Chicago Press.
            I due scritti sono da leggere all’interno del contesto dell’opera, l’Enciclopedia unificata della scienza, che rappresenta l’approdo della riflessione, che si sviluppò tra le due guerre ad opera di un gruppo di studiosi scienziati e filosofi che facevano riferimento come origine all’esperienza del Circolo di Vienna.
            L’Enciclopedia può a ragione essere considerata come un tentativo di raccogliere assieme le voci più autorevoli di quel movimento filosofico che avendo per obiettivo l’unità della scienza  paradossalmente, in relazione alle differenze tra i diversi autori viene definito, ora neopositivismo, ora positivismo logico e ancora come empirismo logico.
            L’Enciclopedia è  dunque un opera complessa che contiene lavori di taglio diverso il cui denominatore può essere ritrovato nel tentativo di raggiungere un metodo scientifico comune ed applicabile non solo nell’ambito delle discipline scientifiche in senso stretto, ma al complesso dell’attività umana e nell’attribuzione al linguaggio di una funzione detrminante in questo processo..
            Il neopositivismo si affermò nel periodo tra le due guerre mondiali a partire dalle riflessioni che un gruppo di pensatori, scienziati e filosofi , il Circolo di Vienna, sviluppò e diffuse. L’iniziativa del Circolo di Vienna, di cui facevano parte studiosi come Moritz Schlick, Hans Hahn, Otto Neurath, Philipp Frank, Rudolf Carnap, Victor Kraft, Felix Kaufmann, Kurt Reidmeister, Herbert Feigl, fu affiancata da un altro autorevole gruppo di pensatori della Scuola di Berlino (Hans Reichenbach, Alexander Hezberg, Walter Dubilav, Kurt Grelling, Kurt Lewin, Wofang Koeler, Carl Gustav Hempel).
            L’avvento del nazismo e il conseguente scioglimento dei due gruppi spostò la riflessione dal continente europeo negli Stati Uniti. In realtà il neopositivismo aveva già trovato accoglienza in America soprattutto per opera di Charles Morris, ma con l’abbandono dell’Europa da parte di pensatori come Carnap, Hampel, Reichenbach, Franck e Kaufmann il neopositivismo assume i caratteri di una corrente filosofica americana.
            L’impatto con il pensiero americano ed in particolare con il pragmatismo di Mead e di Dewey,  aiutò, come afferma Brancatisano, il neopositivismo a liberarsi degli ultimi residui metafisici ed a mettere a fuoco il rapporto tra discorso teoretico ed esperienza.
            Abbiamo sottolineato come la ricchezza e la varietà dei contributi che afferirono al neopositivismo non consentano di considerarlo come una scuola unitaria di pensiero, tuttavia è possibile identificare un denominatore comune nello sforzo di questi ricercatori che possiamo sistetizzare nella avversione per le posizioni irrazionali e preconcette e nello sforzo di trovare un linguaggio comune tra diversi settori di indagine tale da consentire una concezione scientifica del mondo.
            Il contributo di Dewey consiste appunto nel proporre l’esperienza e non solo quella di laboratorio, ma l’esperienza umana nel suo complesso, come banco di prova del metodo scientifico, che deve dunque poter trovare applicazione in tutti gli ambiti dell’esperienza umana. Dunque il discorso sull’unità della scienza deve necessariamente potersi estendere alle discipline umanistiche.


Il primo saggio si può leggere qui:


ESPERIENZA E EDUCAZIONE

PREFAZIONE

Tutti i movimenti sociali comportano conflitti che si riflettono in dibattiti intellettuali. Non sarebbe segno di salute se un tema di interesse sociale del peso dell'educazione non fosse dunque un campo di scontri, teorici e pratici. Ma per la teoria, almeno per la teoria che costituisce una filosofia dell'educazione, i conflitti pratici e le controversie sollevate a partire da questi conflitti, pongono unicamente un problema. Compito di una intelligente teoria dell'educazione è quello di accertare le cause dei conflitti in essere e poi, invece di prendere parte per gli uni o per gli altri, indicare un piano di interventi che proceda da un livello più profondo e più comprensivo di quello rappresentato dalle pratiche in conflitto.

Assegnare questo compito alla filosofia dell'educazione non significa che essa debba tentare di trovare un compromesso fra opposte scuole di pensiero, una specie di via media, e neppure una combinazione di elementi presi qua e là da tutte le scuole. Significa che è necessario introdurre un nuovo ordine di idee che avvii nuovi modi di pratica. È questa appunto la ragione perché è così difficile svolgere una filosofia dell'educazione, quando ci si allontana dalla tradizione o dal costume. Per questa ragione dirigere una scuola, che si ispira a un nuovo ordine di idee, è molto più difficile che indirizzarla per il sentiero battuto. Ne consegue che ogni movimento verso un nuovo ordine di idee e di attività dirette da esse provoca, prima o poi, un ritorno a quelle che sembrano le idee e le pratiche più semplici e fondamentali del passato - come lo attesta ora nell'educazione il tentativo di far risorgere i principi della Grecia antica e del medioevo.

In questo senso alla fine di questo volumetto ho suggerito a coloro che guardano innanzi a un nuovo movimento nell’educazione, adatto alle esigenze di un nuovo ordine sociale, che si preoccupino dell’educazione in sé e per sé e non già di qualche “ismo” concernente la educazione, come sarebbe per esempio il “progressismo”. Poiché, suo malgrado, ogni movimento che pensa ed opera in base a un “ismo” è talmente coinvolto nella reazione contro altri “ismi”, che finisce con l’essere involontariamente controllato da essi. Il che lo induce a formulare i suoi principi per reazione ad essi invece di muovere da una comprensiva visione costruttiva dei bisogni, dei problemi e delle possibilità effettive. Quale esso si sia, il valore di questo saggio consiste nel tentativo di richiamare l’attenzione su problemi dell’educazione di più largo respiro e più profondi, tali da suggerire il loro stesso inquadramento.


1. Educazione tradizionale - educazione progressiva

All'umanità piace di pensare per contrasto. Formula volentieri le sue fedi con termini di opposizione[1], fra i quali non sa scorgere possibilità intermedie. Quando è costretta a riconoscere che gli estremi non si possono realizzare, è ancora incline ad ammettere ch'essi hanno ragione in teoria, ma che quando si viene all'atto pratico si è costretti dalle circostanze al compromesso. Non fa eccezione la filosofia dell'educazione. La storia della teoria dell'educazione è caratterizzata dall'opposizione fra l'idea che l'educazione è svolgimento dal di dentro e l'idea ch'essa sia formazione dal di fuori; fra la tesi ch'essa è basata nelle doti naturali e la tesi che l'educazione è un processo di soggiogamento delle inclinazioni naturali e di sostituzione al loro posto di abiti acquisiti mediante la pressione esteriore.

Attualmente l'opposizione, per quanto concerne l'oggetto pratico della scuola, tende ad assumere la forma di contrasto fra l'educazione tradizionale e la progressiva. Le idee che stanno alla base della prima sono all'ingrosso, senza la precisione di una formulazione rigorosa, le seguenti: la materia dell'educazione consta di corpo di notizie e di abilità che sono stati elaborati in passato e, quindi, il compito precipuo della scuola è di trasmetterli alla nuova generazione. Nel passato sono state svolte norme e regole di condotta; l'addestramento morale consiste nel formare abiti di azione conformi a queste regole e norme. Insomma, il piano generale dell'organizzazione scolastica (con la quale intendo i rapporti degli scolari fra di loro e con gli insegnanti) fa della scuola un tipo di istituzione del tutto diverso da quello delle altre istituzioni sociali. Richiamate all'immaginazione un'aula scolastica consueta, i suoi orari, i suoi sistemi di classificazione, di esame e di promozione, le regole disciplinari; penso che intenderete che cosa voglio dire con «piano dell'organizzazione». Se poi contrapponete questa scena a quanto accade in famiglia, per esempio comprenderete che cosa si intende affermare quando si osserva che la scuola è un tipo di istituzione del tutto diversa dalle altre organizzazioni sociali.

Le tre caratteristiche che abbiamo testé elencate determinano i fini e i metodi dell'istruzione e della disciplina. Lo scopo o obiettivo principale è di preparare il ragazzo alle responsabilità future e al successo nella vita mediante l'acquisizione d'un insieme di conoscenze e di forme di abilità ben fondate che costituiscono il materiale dell'istruzione, dacché, la materia, come le norme della condotta, è trasmessa dal passato, l'attitudine dei discenti deve pur essere nell'insieme quella della docilità, della ricettività e dell'obbedienza. Ai libri, e specialmente ai manuali, spetta in particolar modo il compito di rappresentare il sapere e la saggezza del passato, mentre gli insegnanti sono il tramite che pone gli alunni a contatto col materiale. Gli insegnanti sono i mezzi attraverso i quali sono comunicate abilità e conoscenze e rafforzate le regole della condotta.

Non ho fatto questa breve esposizione con lo scopo di criticare la filosofia che sta alla base di questa educazione. Il sorgere di ciò che si suol chiamare nuova educazione e scuole progressive è di per sé un effetto del disagio che suscita l'educazione tradizionale. E' in sostanza una critica di essa. Quando la critica implicita è fatta esplicita si formula su per giù così: il sistema tradizionale, nella sua essenza, consiste in n'imposizione dall'alto e dal di fuori. Esso impone norme, programmi e metodi di adulti a individui che si avviano solo lentamente alla maturità. Il distacco è così grande che il programma e i metodi di apprendere e di comportarsi, che si esigono, rimangono estranei alle capacità effettive dell'alunno. Essi vanno al di là dell'esperienza ch'egli possiede. Gli devono dunque essere imposti, anche quando buoni insegnanti sanno con arte mascherare l'imposizione e addolcire i tratti brutali.

Ma l'abisso tra i prodotti del maturo e dell'adulto e le esperienze o abilità del ragazzo è così profondo che la situazione di fatto impedisce una molto attiva partecipazione degli alunni a ciò che vien loro insegnato. Tocca loro di apprendere coma ai Seicento della "Brigata leggera" toccava di morire. Imparare qui significa acquisire ciò che è incorporato nei libri e nelle teste degli adulti. Inoltre ciò che è insegnato è pensato come essenzialmente statico. Lo si impartisce come un prodotto finito, senza troppo curarsi della sua origine e dei cambiamenti che subirà certamente in avvenire. Esso, pur essendo in gran parte il prodotto culturale di società che muovevano dalla persuasione che il futuro sarebbe stato come il passato, si porge come alimento all'educazione di una società in cui il cambiamento è la regola e non l'eccezione.

Se si tenta di formulare la filosofia dell'educazione implicita nei procedimenti dell'educazione nuova, si può, a mio avviso, scoprire certi principi comuni fra la varietà di scuole progressive attualmente esistenti. All'imposizione dall'alto si oppongono l'espressione e la cultura dell'individualità; alla disciplina esterna la libera attività; all'imparare dai libri e dai maestri, l'apprendere attraverso l'esperienza; all'acquisto di abilità e di tecniche isolate attraverso l'esercizio si oppone in conseguimento di esse come mezzi per ottenere fini che rispondono a esigenze vitali; alla preparazione per un futuro più o meno remoto si oppone il massimo sfruttamento delle possibilità della vita presente; ai fini ed ai materiali statici è opposta la familiarizzazione con un mondo in movimento.

Ora, tutti i principi per se stessi sono astratti. Essi si fanno concreti soltanto nelle conseguenze della loro applicazione. Appunto perché i principi esposti sono così fondamentali e di larga portata, tutto dipende dal modo in cui si interpretano quando si applicano nella scuola e in casa. E' a questo punto che diventa peculiarmente pertinente il riferimento che abbiamo fatto innanzi alle filosofie dell'opposizione. La filosofia generale della nuova educazione può essere eccellente, e tuttavia la differenza nei principi astratti può non indicarne la via per tradurre in pratica la preferenza morale e intellettuale che essa implica. In un nuovo movimento c'è sempre il pericolo che nel respingere i fini e i metodi di quello che vuole soppiantare, esso sviluppi i suoi principi negativamente piuttosto che positivamente e costruttivamente. Allora muove in pratica da ciò che è rigettato anziché dallo svolgimento costruttivo della sua propria filosofia.

Considero pacifico che l'unità fondamentale della più recente filosofia sia nell'idea che c'è un'intima e necessaria relazione fra il processo dell'esperienza effettiva, e l'educazione. Se è così, lo svolgimento positivo e costruttivo della sua idea base dipende dall'avere una idea esatta dell'esperienza. Prendiamo, per esempio, il problema della materia di studio organizzata che sarà più particolarmente discussa più in là. Per l'educazione progressiva il problema è: quale è il posto e il significato della materia di studio e dell'organizzazione dentro l'esperienza? Come funziona la materia di studio? C'è nell'esperienza qualcosa che tende alla progressiva organizzazione dei suoi contenuti? Quali risultati si hanno quando i materiali dell'esperienza non sono organizzati progressivamente? Una filosofia che si limita a respingere, alla mera opposizione, trascurerà questi problemi. Tenderà a supporre che, siccome la vecchia educazione si fondava in un'organizzazione già bell'e fatta, basta respingere il principio dell'organizzazione in toto, invece di sforzarsi di scoprire che cosa esso significa e come vi si può pervenire muovendo dall'esperienza. Potremmo prendere in esame tutti i punti che differenziano la nuova e la vecchia educazione e giungeremmo sempre a conclusioni analoghe. Quando è rigettato il controllo esterno, il problema diventa quello di trovare i fattori del controllo nel seno dell'esperienza. Il ripudiare ogni autorità esterna non significa ripudiare qualsiasi autorità, ma cercare piuttosto una più effettiva fonte di autorità. Per il fatto che l'educazione di un tempo imponeva ai discendenti la conoscenza, i metodi e le norme di condotta degli adulti, non ne segue, se non in base all'estrema filosofia dell'opposizione, che la conoscenza e l'abilità degli adulti non possono servire di guida all'esperienza degli immaturi. Al contrario, col basare l'educazione sull'esperienza personale può darsi che si moltiplichino e si rendano più intimi che nella scuola tradizionale i contatti fra il maturo e l'immaturo e che per conseguenza si accresca piuttosto che diminuire il valore dell'essere guidati. Il problema è allora: come si possono istituire questi contatti senza violare il principio dell'imparare mediante l'esperienza? La soluzione di questo problema esige una filosofia bene a giorno dei fattori sociali che operano nella costituzione dell'esperienza individuale.

Nelle osservazioni che precedono abbiamo voluto far vedere che i principi generali della nuova educazione non possono risolvere di per sé nessuno dei problemi dell'effettiva e pratica gestione delle scuole progressive. Piuttosto essi pongono nuovi problemi che devono essere affrontati sulla base di una nuova filosofia dell'esperienza. I problemi non solo non sono risolti, ma non sono neppur posti, fino a che si ammette che basta ripudiare le idee e le pratiche della vecchia educazione per buttarsi all'estremo opposto. Eppure, sono sicuro che intenderete quel che voglio dire quando affermo che molte delle scuole nuove tendono a dare un peso minimo o nullo alla materia di studio organizzata; a comportarsi come se qualsiasi forma di direzione o di guida da parte degli adulti fosse un'usurpazione della libertà individuale; e come se l'idea che l'educazione deve riguardare il presente e l'avvenire implicasse che il passato ha poco a nulla da fare nella educazione. Senza spingere questi difetti alla esagerazione, essi almeno fanno intendere cosa significano una teoria ed una pratica dell'educazione che procedono negativamente o per reazione a ciò che suole accadere nell'educazione, anziché tendere a uno svolgimento costruttivo di fini, metodi e programmi sulla base di una teoria dell'esperienza e delle sue possibilità educative.

Non è troppo dire che una filosofia dell'educazione che professa di essere fondata nell'idea della libertà può diventare altrettanto dogmatica quanto l'educazione alla quale reagisce. Difatti qualsiasi teoria e qualsiasi sistema pratico è dogmatico quando non è basato in un esame critico dei propri fondamenti. Diciamo che la nuova educazione pone l'accento sulla libertà dell'allievo. Benissimo. Il problema è ora questo: che significa libertà e quali sono le condizioni sotto le quali essa si realizza? Diciamo pure che l'imposizione esteriore così comune nella scuola tradizionale limitava piuttosto che promuovere il progresso intellettuale e morale del ragazzo. Di nuovo, benissimo. Il riconoscere questo serio difetto pone un problema: Quale è la funzione del maestro e dei libri nel promuovere lo sviluppo educativo dell'immaturo? Ammettiamo pure che l'educazione tradizionale adoprava come materia studio fatti e idee così vincolanti al passato da recare poco aiuto per i problemi del presente e del futuro. Molto bene. Il nostro problema è ora di scoprire il nesso che esiste attualmente dentro l'esperienza fra i risultati del passato e i problemi del presente. Ci tocca di accertare in che modo la conoscenza del passato può essere trasformata in un potente strumento per agire effettivamente sul futuro. Quanto più dobbiamo rifiutare la conoscenza del passato come fine dell'educazione, tanto più dobbiamo insistere sull'importanza di essa come mezzo. Abbiamo dunque da fare con un problema nuovo nella storia dell'educazione: in che modo il ragazzo deve imparare a conoscere il passato per fare di questa conoscenza un potente ausilio per giudicare la vita presente?


2. La necessità di una teoria dell'esperienza

In breve, voglio sottolineare che il rifiutare la filosofia e la pratica dell'educazione tradizionale pone un nuovo tipo di difficile problema educativo a coloro che credono nel nuovo tipo di educazione. Noi continueremo ad operare alla cieca e nella confusione sino a che non avremo riconosciuto questo fatto, fino a che non ci saremo profondamente persuasi che il semplice svincolarsi dal passato non risolve nessun problema. Ciò che sarà detto nelle pagine che seguono è rivolto quindi a indicare qualcuno dei principali problemi cui deve far fronte la nuova educazione e a suggerire le vie maestre della loro soluzione. lo muovo dalla persuasione che fra tutte le incertezze c'è un punto fermo; il nesso organico fra educazione ed esperienza personale; ovvero, che la nuova filosofia dell'educazione si riattacca a qualche tipo di filosofia empirica e sperimentale. Ma esperienza e esperimento non sono idee ovvie di per se stesse. Piuttosto, il loro significato è parte del problema che deve essere dibattuto. Per conoscere il significato dell'empirismo dobbiamo comprendere che cosa è l'esperienza.
Credere che ogni educazione autentica proviene dalla esperienza non significa già che tutte le esperienze siano genuinamente o parimenti educative. Esperienza ed educazione non possono equivalersi. Ci sono difatti delle esperienze diseducative. È diseducativa ogni esperienza che ha l'aspetto di arrestare o fuorviare lo svolgimento dell'esperienza ulteriore. Un'esperienza può procurare incallimento; può diminuire la sensibilità e la capacità di reagire. In questi casi sono limitate le possibilità di avere una più ricca esperienza nel futuro. E ancora, una data esperienza può aumentare l'abilità automatica di una persona in una particolare direzione e tuttavia tendere a restringere la sua libertà di mosse: l'effetto è di nuovo di limitare il campo della futura esperienza. Un'esperienza può recare qualche beneficio immediato e tuttavia promuovere la fiacchezza e la negligenza; questo atteggiamento allora agisce sulla qualità delle future esperienze in modo da impedire all'individuo di trarne tutto il frutto che potrebbero dargli. E ancora, le esperienze possono essere così sconnesse fra di loro che, per quanto ognuna sia gradevole o anche stimolante in sé, esse non costituiscono un tutto ben saldo. L'energia allora si dissipa e l'attenzione si disperde. Le singole esperienze possono essere vive e "interessanti" e tuttavia la sconnessione fra le parti può generare artificialmente abiti dispersivi, disintegrati, centrifughi. La conseguenza della formazione di tali abiti è l'incapacità di controllare le esperienze future. Queste sono allora prese come vengono, sia come oggetto di divertimento sia come oggetto di scontentezza e di rivolta. In questa situazione non si può parlare di autocontrollo.

L'educazione tradizionale offre una moltitudine di esperienze dei tipi che abbiamo testé menzionato. È, un grande errore credere, anche tacitamente, che l'aula tradizionale non fosse un luogo dove gli alunni facessero esperienze. Eppure questo è tacitamente assunto, quando si oppone nettamente all'antica la nuova educazione come quella in cui si impara attraverso l'esperienza. Il punto da mettere in risalto è un altro, che le esperienze che venivano fatte, così, dagli alunni come dagli insegnanti, erano in gran parte cattive. Quanti studenti per esempio sono stati resi inetti alle idee e quanti hanno perduto l'appetito dell'apprendere a cagione del modo in cui ne fecero l'esperienza? Quanti hanno acquistato speciali abilità mercé l'addestramento automatico in modo tale che il loro potere di giudicare e la loro capacità ad agire intelligentemente in nuove situazioni si sono trovati limitati? Quanti hanno finito con associare l'idea dell'imparare a quella della noia e della stanchezza? Quanti hanno trovato ciò che imparavano così estraneo alle situazioni della vita del mondo da non dare loro nessun potere di controllo su di essa? Quanti hanno finito con l'associare i libri all'idea d'una fatica uggiosa, in modo da essere "manipolati" per tutto salvo che per l'oziosa lettura?

Se faccio queste domande, non è già per condannare in blocco la vecchia educazione. È per tutt'altro scopo. È, per accentuare il fatto, in primo luogo, che i ragazzi nelle scuole tradizionali hanno le loro esperienze; in secondo luogo, che il guaio non è l'assenza di esperienza, ma il carattere erroneo e difettivo di essa dal punto di vista della relazione con l'esperienza ulteriore. Il lato positivo di questo punto è ancora più importante per quanto concerne l'educazione progressiva. Non basta insistere sulla necessità dell'esperienza, e neppure sulla attività nell'esperienza. Tutto dipende dalla qualità della esperienza che si ha. La qualità di ogni esperienza ha due aspetti: da un lato può essere immediatamente gradevole o sgradevole, dall'altro essa esercita la sua influenza sulle esperienze ulteriori. Il primo è ovvio e facile a cogliere. Invece l'effetto di un'esperienza non lo si può conoscere subito. Pone un problema all'educatore. È suo compito disporre le cose in modo che le esperienze pur non allontanando il discente e impegnando anzi la sua attività non si limitino ad essere immediatamente gradevoli e promuovano nel futuro esperienze che si desiderano. Come nessun uomo vive e muore per se stesso, nessuna esperienza vive e muore per se stessa. In completa indipendenza dal desiderio o dall'intenzione ogni esperienza continua a vivere nelle esperienze future. Ne consegue che il problema centrale di un'educazione basata sull'esperienza è quello di scegliere il tipo di esperienze presenti che vivranno fecondamente e creativamente nelle esperienze che seguiranno.

Discuterò più innanzi in modo maggiormente particolareggiato, della continuità dell'esperienza o di quello che si può chiamare continuum sperimentale. Qui voglio semplicemente mettere in risalto l'importanza di questo principio per la filosofia dell'esperienza educativa. Una filosofia dell'educazione come qualsiasi teoria, deve essere espressa in parole, in simboli. Ma nella misura in cui è più di un insieme di parole è un piano educativo. Come ogni piano, non può costituirsi senza riferimento a ciò che si persegue e al come perseguirlo. Più si tien fermo, in modo definitivo e sicuro, che l'educazione è svolgimento dentro, mediante e per l'esperienza, più importa che sia ben chiarito che cosa l'esperienza è. Fino a che l'esperienza non è concepita in modo che quello che ne risulta sia un piano che permetta di decidere circa la materia di studio, i metodi d'istruzione e di disciplina, l'arredamento materiale e l'organizzazione sociale della scuola, essa è campata in aria. È ridotta a un contesto di parole che può eccitare dei sentimenti, ma che può essere sostituito egualmente bene con un'altra serie di parole che indichino operazioni da iniziarsi e da eseguirsi. Che l'educazione tradizionale fosse una "routine" in cui i piani e i programmi erano trasmessi dal passato, non implica affatto che l'educazione progressiva debba essere una improvvisazione.
La scuola tradizionale poteva tirare avanti anche senza una filosofia coerentemente svolta. Bastava allo scopo una serie di parole astratte: cultura, disciplina, grande patrimonio culturale, ecc.; a dirigerla infatti non erano esse, ma il costume e le routines stabilite. Appunto perché le scuole progressive non possono affidarsi a tradizioni cristallizzate e ad abiti istituzionali, se non vogliono procedere più o meno a casaccio, devono farsi dirigere da idee che, quando sono articolate in modo coerente, costituiscono una filosofia dell'educazione. La rivolta contro l'organizzazione caratteristica della scuola tradizionale implica la richiesta di un'organizzazione basata su idee. Io penso che basti una superficiale conoscenza della storia dell'educazione a dimostrare che soltanto i riformatori e gli innovatori della educazione hanno sentito il bisogno di una filosofia della educazione. Coloro che accettarono il sistema esistente avevano bisogno soltanto di poche parole ben risonanti per giustificare le pratiche in uso. L'opera effettiva era compiuta dalle abitudini che erano talmente fissate da essere istituzionali. Ne consegue che l'educazione progressiva ha molto più urgenza che non i novatori precedenti di una filosofia dell'educazione fondata in una filosofia dell'esperienza.

Ho osservato di passaggio che codesta filosofia, per parafrasare un detto di Lincoln sulla democrazia, è una filosofia educativa dell'esperienza, mediante l'esperienza per l'esperienza. Nessuno di questi termini: di, mediante, per è per sé evidente. Ognuno di essi è un invito a scoprire e ad attuare un principio di ordine e di organizzazione che consegue dalla comprensione di ciò che significa esperienza educativa.

È quindi molto più difficile di scoprire i tipi di materiali, di metodi e di relazioni sociali appropriati alla nuova educazione che non fosse il caso per l'educazione tradizionale. lo penso che molte delle difficoltà incontrate nella condotta delle scuole progressive e che molte delle critiche fatte ad essa provengano da questa fonte. Le difficoltà non possono non aggravarsi e le critiche aumentare quando si suppone che la nuova educazione deve essere in qualche modo più facile dell'antica. Immagino che questo modo di pensare sia più o meno diffuso. Esso è forse una nuova conferma di quella filosofia dell'opposizione, nate dall'idea che quel che conta, è di non fare quello che si suol fare nelle scuole tradizionali.

Ammetto di buon grado che la nuova educazione nel principio è più semplice dell'antica. Essa è in armonia coi principi della crescita, mentre c'era molto artificio nell'antica scelta e sistemazione delle materie di studio e dei metodi, e l'artificio conduce sempre ad una complessità non necessaria. Ma non bisogna confondere il facile col semplice. Scoprire quello che è realmente semplice e operare in base alla scoperta è un compito estremamente difficile. Quando l'artificiale e il complesso sono diventati istituzioni e si sono ingranati nel costume e nella routine è più facile battere i sentieri conosciuti che, scelto un nuovo punto di vista, operare in conformità ad esso. Il vecchio sistema astronomico di Tolomeo era più complicato, con i suoi cicli ed epicicli, del sistema copernicano. Ma sino che non si è compiuta l'organizzazione dei fenomeni astronomici in base al nuovo principio, la via più breve è stata di seguire la linea di minore resistenza offerta dall'antico abito intellettuale. Torniamo quindi all'idea che una coerente teoria della esperienza che fornisca una direzione positiva alla scelta ed all'organizzazione di metodi e materiali educativi appropriati, è indispensabile, se si vuole dare un nuovo indirizzo alle scuole. Il processo è lento e arduo. Si tratta di crescita e ci sono molti ostacoli che tendono ad impedire la crescita ed a farla deviare dalla linea giusta.

Più in là da dire qualcosa circa l'organizzazione. Ora, forse basta osservare che dobbiamo sottrarci alla tendenza a pensare all'organizzazione nei termini del tipo di organizzazione (sia riguardo al contenuto - o materia - sia riguardo ai metodi e alle relazioni sociali) che caratterizza l'educazione tradizionale. lo penso che una buona parte dell'attuale opposizione derivi dal fatto che è così difficile liberarsi dalla immagine degli studi della scuola antica. Appena si pronuncia la parola "organizzazione", l'immaginazione corre quasi automaticamente al genere di organizzazione che ci è familiare, e rivoltandoci contro di essa siamo condotti a ripudiare l'idea stessa di organizzazione. Dall'altro lato, i reazionari nell'educazione, che stanno ora raccogliendo le loro forze, si valgono della mancanza di una organizzazione intellettuale e morale adeguata nel nuovo tipo di scuola non solo per dimostrare che occorre un'organizzazione, ma per identificare qualsiasi specie di organizzazione con quella che invalse prima del sorgere della scienza sperimentale. Finora il fallimento dei tentativi di concepire un'organizzazione su base empirica e sperimentale dà ai reazionari una troppo facile vittoria. Ma il fatto che le scienze empiriche offrono ora il miglior tipo di organizzazione intellettuale e si possa trovare in qualsiasi campo attesta che non c'è ragione perché noi, che ci denominiamo empiristi, si sia dei "guastafeste" nell'ambito dell'ordine e dell'organizzazione.


3. Criteri dell'esperienza

Se c'è qualche verità in quanto è stato detto circa il bisogno di formare una teoria dell'educazione perché l'educazione possa essere diretta intelligentemente sulla base dell'esperienza, è chiaro che, a questo punto della discussione dobbiamo esporre i principi che sono più significativi per costituire questa teoria. Non mi scuserò quindi di impegnarmi in un certo numero di analisi filosofiche, che altrimenti sarebbero fuori posto. Vi posso tuttavia rassicurare in certo modo col dirvi che questa analisi non ha un fine in sé, ma è intrapresa per conseguire criteri da applicare poi a un certo numero di problemi concreti e, per il maggior numero di persone, più interessanti.


Ho già accennato a quella che ho chiamato la categoria della continuità o il continuum sperimentale. Questo principio è implicito, a quanto ho già detto, in ogni tentativo di distinguere le esperienze che hanno un valore educativo da quelle che non lo hanno. Sembrerà superfluo dimostrare che questa scelta è necessaria non solo per criticare il tipo tradizionale di educazione, ma anche per iniziare e svolgere un tipo differente. Tuttavia, è opportuno trattenersi un poco sull'idea che essa è necessaria. Si può ammettere che l'animo tranquillo, penso, che una delle ragioni che ha favorito il movimento progressivo è stato il fatto che esso sembra più conforme all'ideale democratico cui si attiene il nostro popolo che non i procedimenti della scuola tradizionale, che hanno un aspetto così autocratico. Un'altra ragione che ha contribuito a farlo accogliere favorevolmente è il fatto che i suoi metodi sono umani, paragonati alla rudezza dei sistemi della scuola tradizionale.


Vorrei domandarvi ora perché preferiamo i procedimenti democratici e umani a quelli autocratici e duri. E con la parola "perché" intendo accennare alla ragione della nostra preferenza non alle cause che ci hanno condotto alla preferenza. Una delle cause può essere che ci è stato insegnato non solo nelle scuole, ma sulla stampa, dal pulpito, dalla tribuna, nelle nostre leggi e nei nostri codici che la democrazia è la migliore istituzione sociale. Può darsi che siamo stati talmente imbevuti di questa idea per opera dell'ambiente circostante che essa è diventata una parte abituale del nostro assetto intellettuale e morale. Ma cause analoghe hanno condotto altre persone in differenti ambienti a conclusioni molto diverse, a preferire il fascismo, per esempio. La causa della nostra preferenza non è la stessa cosa della ragione per cui dobbiamo preferirla.

Non mi prefiggo qui di dilungarmi su la ragione. Ma vorrei porre un solo quesito: possiamo trovare qualche ragione che alla fin fine non faccia capo alla convinzione che gli ordinamenti sociali della democrazia promuovono una qualità superiore di esperienza umana, una esperienza più largamente accessibile e possibile che non le forme di vita sociale non democratiche e antidemocratiche? Il principio del rispetto per la libertà individuale e per la correttezza e la gentilezza nelle relazioni umane non risale in fondo alla convinzione che questi principi sono dovuti a una più alta qualità di esperienza da parte di un maggior numero che non i metodi di repressione o di coazione di forza? La ragione della nostra preferenza non è forse la nostra fede che la consultazione reciproca e le convinzioni ottenute mediante la persuasione rendono possibile una qualità di esperienze migliore di quella che possa essere altrimenti fornita su larga scala?
Se la risposta a questi quesiti è affermativa (e personalmente non vedo come possiamo giustificare altrimenti la nostra preferenza per la democrazia e l'umanità), la ragione ultima dell'accoglienza fatta all'educazione progressiva, a cagione della sua fiducia nell'uso di metodi umani e della sua parentela con la democrazia, risale alla discriminazione fatta fra i valori che ineriscono alle diverse esperienze. Ritorno quindi al principio della continuità della esperienza come a un criterio discriminante.

In sostanza, questo principio poggia sull'abitudine, se si dà dell'abitudine un'interpretazione biologica. La caratteristica fondamentale dell'abito è che ogni esperienza fatta e subita modifica chi agisce, e al tempo stesso questa modificazione affetta, lo vogliamo o no, la qualità delle esperienze seguenti. È difatti un poco modificato il soggetto che la intraprende. Così inteso il principio dell'abitudine va, è ovvio, più a fondo del concetto ordinario di un abito, vale a dire un modo più o meno stabilito di fare le cose, sebbene lo assuma sotto di sé come uno dei suoi casi particolari. Esso comprende la formazione di attitudini, attitudini che sono emotive e intellettuali; comprende le nostre sensibilità fondamentali e i modi di rispondere a tutte le condizioni in cui c'imbattiamo nella vita. Da questo punto di vista, il principio della continuità dell'esperienza significa che ogni esperienza riceve qualcosa da quelle che l'hanno preceduta e modifica in qualche modo la qualità di quelle che seguiranno.

Come afferma il poeta: «Ogni esperienza è un arco attraverso il quale raggia quel non percorso universo, il cui contorno vanisce via via ch'io avanzo».

Per ora, tuttavia, non abbiamo alcun mezzo per discernere le esperienze, in quanto il principio è di applicazione universale. C'è qualche genere di continuità in ogni caso. Gli è quando notiamo le differenti forme in cui opera la continuità dell'esperienza che poniamo la base di scelta fra le esperienze. Posso chiarire quel che intendo dire richiamandomi ad un'obiezione che è stata mossa alla seguente idea che ho proposto una volta: il processo educativo può essere identificato con la crescita a patto che questa sia espressa col participio presente "crescente".

La crescita, ovvero il crescere come svolgimento, non soltanto fisicamente ma anche intellettualmente e moralmente, è un esempio del principio di continuità. L'obiezione fatta è che quella crescita può prendere molte direzioni differenti: per esempio un uomo che s'inizia al banditismo può crescere in quella direzione, e con la pratica può diventare un espertissimo bandito. Donde si è tratta la conclusione che la "crescita" non è sufficiente; dobbiamo dunque specificare la direzione in cui cresce, il fine verso cui tende. Prima, però, di dedurne che l'obiezione è conclusiva, occorre analizzare il caso un po' più a fondo.

Non c'è dubbio che un uomo possa perfezionarsi sulla via dei banditismo, dei gangsterismo, della corruzione politica. Ma dal punto di vista della crescita, come educazione e della educazione come crescita si tratta di vedere se la crescita in questa direzione promuove o ritarda la crescita in generale. Questa forma di crescita crea le condizioni per una crescita ulteriore ovvero provoca condizioni che tolgono all'individuo, che è cresciuto in questa particolare direzione, il modo di valersi degli stimoli e delle opportunità che gli si offrono per crescere ulteriormente in nuove direzioni? Quale è l'effetto del crescere in una direzione speciale sulle attitudini e le abitudini che sole sono in grado di aprire vie di sviluppo in altre direzioni? Lascerò a voi di rispondere a questi quesiti, limitandomi a dire che, quando e soltanto quando lo svolgimento in una direzione particolare conduce alla continuazione della crescita, esso risponde al criterio dell'educazione come crescita. Difatti questa concezione deve trovare un'applicazione universale e non limitata a casi speciali.
Ritorno ora al problema della continuità come a criterio con cui discernere le esperienze che sono educative da quelle che sono diseducative. Come abbiamo veduto c'è qualche genere di continuità in ogni caso in quanto ogni esperienza influenza in bene o in male le attitudini che aiutano a decidere della qualità delle esperienze che seguiranno, col promuovere certe preferenze ed avversioni, e col rendere più facile o più difficile l'agire per questo o per quel fine. Inoltre, ogni esperienza influenza in qualche grado le condizioni obbiettive sotto le quali saranno fatte le esperienze future. Per esempio, un ragazzo che impara a parlare ha una nuova facilità e un nuovo desiderio. Ma egli ha anche ampliato le condizioni esterne dell'imparare ulteriore. Quando impara a leggere, egli s'apre ad un tempo un nuovo ambiente intorno e sé. Se uno decide di diventare insegnante, avvocato, medico o agente di cambio, appena si traduce questa intenzione negli atti, si determina necessariamente in qualche grado l'ambiente nel quale opererà in futuro. Egli si è reso più sensibile e più risponsivo a certe condizioni, e relativamente immune di fronte a quelle cose che avrebbero costituito per lui degli stimoli se avesse fatto un'altra scelta.

Ma, mentre il principio di continuità si applica in qualche modo in ogni caso, la qualità della esperienza presente influenza il modo in cui il principio si applica. Noi parliamo di guastare un ragazzo e di un ragazzo guastato. L'effetto di una soverchia indulgenza verso un ragazzo continua. Promuove un atteggiamento che agisce come un'automatica richiesta a persone e ad oggetti di soddisfare i suoi desideri e i suoi capricci in futuro. Le induce a cercare il genere di situazione che lo metta in grado di fare tutto quello che si sente di fare in questo o quel momento. Lo rende ostile e relativamente incompetente in situazioni che esigono sforzo e perseveranza nel superare ostacoli. Non c'è paradosso nel fatto che il principio della continuità dell'esperienza può operare in modo da arrestare un individuo su un basso piano di svolgimento, incapace di un'ulteriore crescita.

D'altra parte, se un'esperienza suscita curiosità, rafforza l'iniziativa e fa nascere desideri e propositi che sono sufficientemente intensi per trasportare un individuo al di là dei punti morti nel futuro, la continuità opera in un modo molto diverso. Ogni esperienza è una forza propulsiva. Il suo valore può essere giudicato solo in base all'oggetto verso cui o entro cui si muove. La maggior maturità dell'esperienza che dovrebbe possedere l'adulto in quanto educatore lo mette in grado di valutare ogni esperienza del giovane da un punto di vista il in cui non può porsi chi ha meno matura esperienza. Tocca allora all'educatore rendersi conto in quale direzione si muove un'esperienza. A che gli serve essere più maturo se invece di adoperare il suo maggiore discernimento per aiutare l'immaturo ad organizzare le condizioni della esperienza, lo sciupa? Mancare di cogliere la forza propulsiva di un'esperienza allo scopo di conoscerla e di indirizzarla sulla base di ciò a cui muove significa essere infedeli al principio dell'esperienza medesima. Questa infedeltà opera in due direzioni. L'educatore è venuto meno alla comprensione che avrebbe dovuto trarre dalla sua esperienza passata. Egli è pure infedele al fatto che ogni esperienza umana alla fin fine è sociale, e che essa implica contatto e comunicazione.La persona matura, per esprimermi in termini morali, non ha il diritto di sottrarre al giovane in date circostanze qualsiasi capacità di comprensione simpatica che la sua esperienza ha fornito.

Ma bisogna affrettarsi ad aggiungere, che c'è una tendenza a reagire verso l'altro estremo ed a prendere quel che è stato detto come la difesa di una qualche specie di imposizione dal di fuori. Vale la pena, dunque di dire qualcosa circa il modo in cui l'adulto può esercitare l'accorgimento che gli procura la sua più ampia esperienza senza imporre un controllo meramente esterno. Da un lato occorre stare all'erta per vedere quali attitudini e tendenze abituali si stanno creando. In questa direzione egli, se è un educatore, deve essere in grado di giudicare quali attitudini avviano di fatto ad un aumento di crescita e quali altre l'ostacolano. Deve poi, per di più, avere quella comprensione simpatica dell'individuo in quanto individuo che dà un'idea di quel che sta accadendo effettivamente negli spiriti di coloro che stanno imparando. È, fra l'altro, la necessità di queste abilità da parte dei genitori o dell'insegnante che rende il sistema dell'educazione basato sulla viva esperienza molto più difficile a seguire che non i modelli dell'educazione tradizionale.

Ma c'è un altro aspetto della cosa. L'esperienza non si compie semplicemente nell'interno della persona. Essa si svolge lì poiché influenza la formazione di attitudini di desideri e di propositi. Ma non è ancora tutto. Ogni esperienza autentica ha un aspetto attivo che cambia in qualche modo le condizioni obbiettive sotto cui si compie l'esperienza. La differenza fra la civiltà e lo stato selvaggio, per prendere un esempio di larga portata, consiste nel grado in cui le esperienze precedenti hanno cambiato le condizioni oggettive sotto le quali sono state compiute le esperienze posteriori. L'esistenza di strade, di mezzi di comunicazione e trasporti rapidi, di strumenti, di attrezzi, di mobilio, di luce e forza elettrica ne sono altrettanti esempi. Se si distruggessero le condizioni esterne della presente esperienza dei popoli civili, la loro civiltà retrocederebbe per un certo tempo allo stato dei popoli barbari.

In breve, noi viviamo dalla nascita alla morte in un mondo di persone e di cose che in larga misura è quel che è in virtù di ciò che è stato fatto e trasmesso dall'attività degli uomini che ci hanno preceduto. Quando lo si dimentica, l'esperienza la si considera come qualcosa che si compia dentro un corpo ed una mente individuali. Non dovrebbe essere necessario dire che l'esperienza non si compie nel vuoto. Ci sono fonti dell'esperienza fuori dell'individuo. Essa è costantemente alimentata da tali fonti. Nessuno metterà in dubbio che un ragazzo cresciuto in una stamberga ha un'esperienza diversa da quello cresciuto in una casa civile, che il garzoncello di campagna ha una esperienza diversa da quella del ragazzo di città, o il fanciullo che vive sul mare dell'abitatore delle praterie dell'interno. Di solito consideriamo questi fatti come luoghi comuni. Ma a chi ne colga la importanza pedagogica, essi indicano il secondo modo di dirigere l'esperienza degli alunni senza ricorrere all'imposizione. Una delle principali responsabilità dell'educatore è che egli non solo deve essere attento al principio generale della formazione dell'esperienza mediante le condizioni circostanti, ma che riconosca pure in concreto quali sono le condizioni che facilitano le esperienze conducenti alla crescita. Sopra tutto, egli dovrebbe conoscere in che modo utilizzare la situazione circostante, fisica e sociale, per estrarne tutti gli elementi che debbono contribuire a promuovere esperienze di valore.

L'educazione tradizionale non aveva da affrontare questo problema; poteva sistematicamente sottrarsi alla sua responsabilità. L'ambiente scolastico fatto di banchi, di lavagne, di un piccolo cortile pareva sufficiente. Non si chiedeva che il maestro s'informasse a fondo delle condizioni di vita circostante, fisica, storica, economica, professionale, per utilizzarle a scopo educativo. Un sistema d'educazione basato sul necessario nesso della educazione con l'esperienza deve invece, se è fedele al proprio principio, prendere costantemente in considerazione queste cose. Questa partecipazione attiva che la educazione progressiva esige dall'insegnante è un'altra ragione della sua maggiore difficoltà nei confronti del sistema tradizionale. È possibile tracciare piani di educazione che in modo discretamente sistematico subordinino le condizioni oggettive a quelle che risiedono negli individui da educare. Questo accade ogni volta che il posto e la funzione dell'insegnante, dei libri, del materiale e dell'equipaggiamento, di tutto ciò che rappresenta i prodotti della più matura esperienza degli adulti, è sistematicamente subordinato alle inclinazioni ed ai sentimenti immediati degli educandi. Ogni teoria che ritiene poter essere assegnata importanza a questi fattori oggettivi solo a patto di imporre un controllo esterno e di limitare la libertà dagli individui, si fonda alla fin fine nella nozione che l'esperienza è vera esperienza solo quando le condizioni oggettive sono subordinate a ciò che si verifica nell'interno degli individui che hanno l'esperienza.

Non voglio dire che si suppone che le condizioni oggettive si possano eliminare. Si ammette che esse ci devono stare: è una concessione all'ineliminabile fatto che viviamo in un mondo di cose e di persone. Ma io penso che l'osservazione di ciò che accade in certe famiglie e in certe scuole rivelerebbe che certi genitori e certi insegnanti agiscono con l'idea che le condizioni oggettive devono essere subordinate a quelle interne. In questo caso si ammette non solo che queste ultime sono le più importanti, il che in un certo senso è vero, ma che durante la loro durata fissano l'intero processo educativo.

Permettetemi di chiarire la cosa con l'esempio di un bimbo. I bisogni che ha un bimbetto, di nutrirsi, di riposare, di agire sono certo di primaria importanza e decisivi sotto un certo rispetto. Si deve provvedere di che nutrirlo, gli si deve procurare un sonno tranquillo e così via. Ma questo non significa che il genitore nutrirà il bimbo ogni volta che egli mostra stizza o malumore, che non ci sia un orario regolare per la nutrizione, per il sonno ecc. La madre avveduta tien conto dei bisogni del bambino senza però sottrarsi alle sue responsabilità per regolare le condizioni oggettive sotto le quali i bisogni sono soddisfatti. E se essa è una madre accorta sotto questo aspetto, si baserà sulle passate esperienze degli esperti non meno che sulle proprie per rendersi conto quali sono le esperienze che meglio promuovono lo svolgimento normale dei bambini. Queste condizioni, invece di essere subordinate ai subitanei impulsi interni del piccolino, sono predisposte in modo che ci possa essere una particolare specie di interazione fra esse e questi subitanei stati interni.

La parola "interazione", che ho usato, esprime il secondo principio essenziale, che permette d'interpretare una esperienza nella sua funzione ed efficacia educativa. Essa assegna eguali diritti ai due fattori dell'esperienza: le condizioni obbiettive e le interne. Qualsiasi esperienza normale è un gioco reciproco di queste due serie di condizioni. Prese insieme, e nella loro interazione, costituiscono quella che io chiamo situazione. Il guaio dell'educazione tradizionale non consisteva già nel porre l'accento sulle condizioni esterne che partecipano al controllo delle e esperienze, ma che si facesse così poca attenzione ai fattori interni che pure fanno sentire il loro peso sul genere di esperienza che si avrà. Si violava il principio dell'interazione da una parte. Ma questa violazione non è una buona ragione perché la nuova educazione violi il principio dall'altra parte, a meno che si accetti la filosofia dell'educazione dell'"aut-aut", che già abbiamo menzionato.
L'esempio tratto dal bisogno di regolare le condizioni obbiettive dello svolgimento di un bimbo indica, in primo luogo, che i genitori hanno la responsabilità di sistemare le condizioni in cui si compie l'esperienza del nutrimento, del sonno ecc., e, in secondo luogo, che assolvano il proprio dovere con l'utilizzare l'esperienza accumulata del passato, quale essa è rappresentata ad esempio dal consiglio di medici competenti e di altri che hanno dedicato studio speciale alla crescita normale del corpo. Viene forse limitata la libertà della madre, quando essa si giova dell'insieme di conoscenze che si è procurata in questo modo per regolare le condizioni oggettive del nutrimento e del sonno? O piuttosto l'ampliamento della sua intelligenza nell'adempiere il compito materno accresce la sua libertà? Indubbiamente se informazione e consigli diventassero feticci, in modo da trasformarsi in imperativi intangibili da cui non fosse lecito allontanarsi in nessuna condizione, si verificherebbe una diminuzione di libertà così della madre come del figlio. Ma questa restrizione sarebbe pure una limitazione dell'intelligenza che è esercitata nel giudizio personale.

Sotto quale rispetto la regolamentazione delle condizioni oggettive limita la libertà del piccolo? Certo si limitano i suoi movimenti e le sue inclinazioni immediate, quando lo si pone nella culla nel momento in cui desidererebbe continuare a giocare, o non gli si dà da mangiare quando ne manifesta il desiderio o non lo si prende in braccio o non lo si dondola nell'atto in cui richiama la nostra attenzione con gli strilli. Ma c'è restrizione di libertà anche quando la madre o la istitutrice afferrano il bambino che sta per cadere nel fuoco. Ritornerò ancora più a lungo sul problema della libertà. Qui mi limito a chiedere se per libertà si deve intendere qualcosa che si collega con incidenti relativamente fuggitivi o se essa si deve piuttosto riporre nella continuità di svolgimento dell'esperienza.

Dire che gli individui vivono in un mondo significa, in concreto. che essi vivono in una serie di situazioni. E quando si dice che essi vivono in queste situazioni, il significato della parola "in" è diverso dal significato che essa ha quando si afferma che ci sono dei soldi "in" tasca o della tinta "in" un bidone. Ancora una volta significa che è in corso un'interazione fra un individuo e oggetti e altre persone. La situazione e l'interazione non si possono concepire l'una scissa dall'altra. Un'esperienza è sempre quel che è in virtù di una transazione che si stabilisce fra un individuo, sia che quest'ultimo consista in persone con cui sta parlando di un argomento o di un avvenimento, e in questo caso l'argomento fa parte della situazione, sia che consista in giochi cui attende; in un libro che sta leggendo (nel quale le condizioni circostanti in quel momento possono essere l'Inghilterra o la Grecia antica o una regione immaginaria), ovvero in materiali di un esperimento in corso. L'ambiente, in altre parole, sono le condizioni, quali si siano, che interagiscono con i bisogni, i desideri, i propositi e le capacità personali per creare la esperienza che si compie. Anche quando un individuo costruisce un castello in aria, interagisce con gli oggetti che costruisce nella sua fantasia.

I due principi della continuità e dell'interazione non sono separati l'uno dall'altro. Essi si collegano e uniscono. Essi sono, per così dire, gli oggetti longitudinale e laterale dell'esperienza. Situazioni differenti si succedono l'una all'altra, ma in virtù del principio della continuità qualcosa passa da quella che precede a quella che segue. Via via che un individuo passa da una situazione a un'altra, il suo mondo, il suo ambiente si espande o si contrae. Egli non si trova già a vivere in un altro mondo, ma in una diversa parte o in un diverso aspetto del suo medesimo mondo. Quello che ha acquistato in conoscenza e abilità in una situazione diventa strumento di comprensione di effettiva azione nella situazione che segue. Il processo continua quanto la vita e l'apprendere. Se non è così, il corso dell'esperienza è disordinato, poiché il fattore individuale, che è parte dell'esperienza, è spezzato. Un mondo diviso, un mondo le cui parti e i cui aspetti non si legano l'un l'altro, è ad un tempo sintomo e causa di una personalità scissa. Quando questa scissione raggiunge un certo punto noi diciamo che l'individuo è pazzo. D'altra parte una personalità è pienamente una solo nel caso che le successive esperienze si siano integrate l'una nell'altra. Essa può essere costruita soltanto come è costruito un mondo di oggetti che sono in relazione vicendevole.

La continuità e l'interazione nella loro attiva unione reciproca porgono la misura del significato e del valore educativo di un'esperienza. L'immediata diretta preoccupazione di un educatore è la situazione in cui ha luogo l'interazione. L'individuo, che entra a far parte di essa, è quel che è in quel dato momento. È l'altro fattore, quello delle condizioni oggettive, che può essere fino ad un certo punto regolato dall'educatore. Come ho già notato la frase "condizioni oggettive" ha un senso molto lato. Implica quel che è fatto e il modo in cui è fatto, non soltanto le parole dette, ma il tono della voce con cui sono dette. Implica arredamento, libri, attrezzi, giocattoli, giochi. Implica i materiali con cui l'individuo interagisce e, più importante di tutti, il totale assetto sociale delle situazioni in cui una persone è impegnata.

Quando diciamo che le condizioni oggettive sono quelle che l'educatore ha il potere di regolare, intendiamo, naturalmente, che la sua abilità di influenzare direttamente l'esperienza degli altri e quindi la loro educazione, gli impone il dovere di determinare quell'ambiente che interagirà con le capacità e i bisogni che posseggono coloro a cui insegna, per creare un'esperienza che abbia valore. Il guaio dell'educazione tradizionale non era già che gli educatori si assumessero la responsabilità di provvedere un ambiente. Il guaio si era che non consideravano l'altro fattore nel creare un'esperienza, vale a dire i poteri e i propositi di quelli cui insegnavano. Si muoveva dal presupposto che una certa serie di condizioni fosse intrinsecamente desiderabile ma si estraeva dalla sua capacità di evocare una certa qualità di riposta negli individui. Questo difetto di mutuo adattamento rendeva accidentale il processo dell'insegnare e dell'apprendere. Coloro per i quali le condizioni che si erano provviste erano adatte riuscivano ad imparare. Gli altri se la cavavano come potevano. La responsabilità di scegliere condizioni oggettive porta allora con sé la responsabilità di comprendere i bisogni e le attitudini degli individui che imparano in un dato tempo. Non basta che certi materiali e metodi si siano mostrati efficaci, con altri individui in altri tempi. Ci deve essere una ragione per pensare che essi funzioneranno nel provocare un'esperienza che ha qualità educativa con dati individui in un dato tempo.

Non incide sulla qualità nutritiva della bistecca il dire che essa non è cibo per bambini. Il dire che non insegniamo la trigonometria nella prima o nella quinta classe, non significa offenderla. Non già l'oggetto per sé è educativo o promuove la crescita. A nessuna materia di studio in sé e per sé, astraendo dal grado di svolgimento raggiunto da chi impara, si può attribuire un intrinseco valore educativo. Al vezzo di non prendere nel debito conto la necessità di adattarsi ai bisogni e alle attitudini degli individui risale l'idea che certe materie di studio e certi metodi siano intrinsecamente culturali o intrinsecamente buoni per la disciplina mentale. L'idea che certi oggetti di studio e certi metodi e che la conoscenza di certi fatti e di certe verità posseggono valore educativo in sé e per sé è la ragione per cui l'educazione tradizionale ha ridotto in gran parte il materiale dell'educazione ad una dieta di materiali predigeriti. Sulla base di questa idea, si è creduto che bastasse regolare la quantità e la difficoltà del materiale offerto secondo un piano di gradualità quantitativa, di mese in mese e di anno in anno. Si è supposto che l'alunno l'avrebbe preso in base alle dosi prescritte dall'esterno. Se egli si rifiutava di prenderlo, se disertava fisicamente la scuola, se la disertava mentalmente col fantasticare e finalmente mostrava un senso di ripugnanza per l'argomento di studio, lo si imputava a colpa sua. Nessuno si chiedeva se l'inconveniente non risalisse alla materia offerta e al modo in cui veniva offerta. Il principio dell'interazione ci fa intendere che il mancato adattamento del materiale ai bisogni e alle attitudini degli individui può provocare una esperienza non educativa quanto il mancato adattamento di un individuo al materiale.

Il principio di continuità nella sua applicazione alla educazione significa tuttavia che il futuro deve essere tenuto presente in ogni gradino dei processo educativo. Questa idea è facilmente travisata e stravolta in malo modo nell'educazione tradizionale. Essa ammette che l'acquisto di certe abilità e l'apprendimento di certe materie che sarebbero necessarie più tardi (forse durante gli studi superiori, forse nell'età matura) preparano naturalmente gli alunni ad affrontare le esigenze e le occorrenze del futuro. Ora "preparazione" è un'idea che si presta ad equivoci. In un certo senso ogni e esperienza dovrebbe in qualche modo preparare gli individui l'individuo alle esperienze posteriori più profonde e più ampie. È questo il vero significato di crescita, continuità, ricostruzione dell'esperienza. Ma è erroneo supporre, che la mera acquisizione di una certa quantità di nozioni di aritmetica, di geografia, di storia ecc., insegnate e studiate allo scopo di essere utili ad un certo momento del futuro, abbia questo effetto. E non è meno erroneo supporre che l'acquisto di abilità nel leggere e nel disegnare metta automaticamente in grado di usarle in modo corretto e redditizio, in altre condizioni molto diverse da quelle in cui sono state acquistate.

Quasi ognuno ha avuto l'occasione di volgere uno sguardo indietro sul periodo scolastico e di osservare con meraviglia a che s'era ridotta la conoscenza che supponeva di avere accumulato in quegli anni, e di chiedersi perché avrebbe dovuto riapprendere in nuova forma le abilità tecniche già acquisite, se avesse voluto giovarsene. È fortunato colui che non scopre che, per progredire, per procedere innanzi col suo pensiero, deve disimparare molto di quello che aveva appreso a scuola. Né si risolve il problema col dire che quelle nozioni non sono state effettivamente apprese; esse lo sono state almeno quanto è bastato per porre l'alunno in grado di superare l'esame su di esse. Uno dei guai è che le materie di cui si parla sono state apprese isolatamente; ognuna di esse, per così dire, in un compartimento stagno. Quando ci si chiede, poi, che cosa essa è diventata, dove è andata a finire, c'è una sola risposta da dare; essa è tuttora in quello speciale compartimento in cui è stata ficcata in origine. Se si ripetessero le medesime condizioni del momento in cui è stata acquisita, essa riapparirebbe e ce ne potremmo servire. Ma nell'atto in cui è stata acquisita è stata segregata ed ora è così scissa dal resto dell'esperienza da essere inservibile nelle condizioni della vita attuale. È contrario alle leggi dell'esperienza che l'apprendere di questo tipo, anche se profondamente ingranato, prepari sul serio.

Né il difetto nella preparazione si limita a questo. Forse il maggiore degli errori pedagogici è il credere che un individuo impari soltanto quel dato particolare che studia in quel momento. L'apprendimento collaterale, la formazione di attitudini durature e di repulsioni, può essere e spesso è molto più importante. Codeste attitudini sono difatti quel che conta veramente nel futuro. L'attitudine che più importa sia acquistata è il desiderio di apprendere. Se l'impulso in questa direzione viene indebolito anziché rafforzato, ci troviamo di fronte a un fatto molto più grave che a un semplice difetto di preparazione. L'alunno viene effettivamente privato delle native capacità, che altrimenti lo avrebbero messo in grado di cavarsela nelle circostanze della vita. Non è raro il caso di incontrare persone che hanno frequentato poco le scuole e che da questa deficienza hanno tratto un beneficio positivo. Esse hanno conservato il buon senso e l'accorgimento nativi, il cui esercizio nelle condizioni in cui sono state chiamate a vivere ha dato loro un prezioso dono: la capacità di apprendere dalle loro esperienze. Che beneficio c'è ad accumulare le prescritte notizie di geografia e di storia, ad apprendere a leggere ed a scrivere, se con questo l'individuo perde la sua anima, il discernimento delle cose buone, dei valori cui queste cose si riferiscono; se perde il desiderio di applicare ciò che ha appreso e, soprattutto, se ha perduto la capacità di estrarre il significato dalle esperienze future in cui via via si imbatterà?

Quale è dunque il vero significato della preparazione sul piano educativo? Il primo luogo, un individuo, giovane o vecchio, deve trarre dalla sua esperienza presente tutto quanto essa gli offre in quel momento. Se si considera che il fine che controlla è la preparazione alla vita le possibilità deI presente sono sacrificate a un ipotetico futuro. Ogni volta che questo accade, l'attiva preparazione per il futuro vien meno o è falsata. L'ideale di adoperare il presente unicamente come preparazione al futuro è in sé contraddittorio. Significa omettere o persino eliminare le sole condizioni che permetterebbero a un individuo di preparare il proprio avvenire. Noi viviamo sempre nel nostro tempo e non in un altro: solo estraendo in ogni momento il pieno significato di ogni esperienza presente ci prepariamo a fare altrettanto nel futuro. È questa l'unica preparazione che a lungo andare concluda qualche cosa. Tutto questo significa che deve essere rivolta attenta cura alle condizioni che danno ad ogni esperienza presente un significato degno di considerazione. Invece di affermare che poco conta quel che è l'esperienza presente, se essa appaga, bisogna concludere proprio l'opposto. Ecco un altro caso in cui è facile sdrucciolare per reazione da un estremo nell'altro. Non già perché le scuole tradizionali tendevano a sacrificare il presente al futuro remoto e più o meno ignoto, se ne deve concludere che l'educatore ha poca responsabilità per il genere di esperienze presenti cui è sottoposto l'alunno. La relazione fra presente e futuro non è un "aut-aut". Il presente fa sempre sentire la sua influenza sul futuro. E persone che dovrebbero avere un'idea del nesso fra i due sono quelle che sono pervenute alla maturità. A loro dunque, spetta la responsabilità di creare le condizioni per un genere di esperienza presente che abbia un effetto favorevole sul futuro. L'educazione in quanto crescita o maturità dovrebbe essere un processo sempre presente.


4. Controllo sociale

Se si considera l'educazione come un'esperienza di vita, come ho detto, i piani e i progetti educativi devono ispirarsi a una teoria intelligente o, se preferite, a una filosofia dell'esperienza. Altrimenti sono alla mercé di ogni soffiar vento intellettuale. Ho tentato di chiarire il bisogno di tale teoria col richiamare l'attenzione su due principi che sono fondamentali nella costituzione dell'esperienza: i principi della interazione e della continuità. Se mi si chiede, perché ho speso tanto tempo a esporre una filosofia piuttosto astratta, risponderò che i tentativi pratici di fondere scuole basate sull'idea che l'educazione ha le radici nella esperienza della vita non potranno sottrarsi a incoerenze e a confusioni, sino a che non si faranno dirigere da una concezione di ciò che l'esperienza è, e di ciò che distingue nettamente l'esperienza educativa dalla non educativa e diseducativa. Vengo ora a un gruppo di problemi educativi effettivi la cui discussione, spero, offrirà argomenti e materiale che saranno più concreti della discussione fatta finora.

I due principi della continuità e dell'interazione come criteri per valutare l'esperienza sono così intimamente connessi che non è facile dire con quale problema educativo speciale si debba cominciare. Può anche darsi che la comoda divisione fra problemi della materia di studio e problemi dei metodi di insegnare e di apprendere non regga nella scelta e nell'organizzazione dei soggetti da discutere. Ne consegue che il succedersi degli argomenti di studio non potrà sottrarsi ad un certo arbitrio. lo comincerò, ad ogni modo, con il vecchio problema della libertà individuale e del controllo sociale per passare poi ai problemi che ne scaturiscono naturalmente.
Spesso giova, quando si prendono in esame i problemi dell'educazione, cominciare dimenticando momentaneamente la scuola e pensando ad altre situazioni umane. Considero pacifico per tutti che il buon cittadino medio sia notevolmente soggetto al controllo sociale e che una considerevole parte di questo controllo non sia sentita da lui come una restrizione della libertà personale. Lo stesso anarchico teorico, che è indotto dalla sua filosofia a pensare che il controllo dello stato e del governo è un male senza rimedio, crede che, abolito lo stato politico, dovrebbero sorgere altre forme di controllo sociale: in vero, la sua opposizione all'ordinamento governativo, nasce dalla sua convinzione che, abolito lo stato, agirebbero altri e per lui più normali modi di controllo.

Senza assumere questa posizione estrema, esaminiamo qualche esempio di controllo sociale che opera nella vita quotidiana, e indaghiamo su quali principi si regga. Cominciamo dai ragazzi medesimi. Essi durante la ricreazione o dopo scuola giocano, dal gioco del nascondino a quello della palla o del calcio. I giochi implicano regole, e queste regole pongono un ordine nella loro condotta. I giochi non si fanno a caso o con un seguito di improvvisazioni. Senza regola non c'è gioco. Se nasce un contrasto c'è un arbitro cui appellarsi ovvero si prende una decisione dopo una discussione ed una specie di arbitrato altrimenti il gioco è interrotto, non prosegue.

In tali situazioni ci sono certi tratti che caratterizzano un ovvio controllo, i quali meritano attenzione. Il primo è che le regole sono parte del gioco. Non sono fuori di esso. Senza regole, niente gioco; regole diverse, gioco diverso. Sino a che il gioco si svolge in modo ragionevolmente liscio, i giocatori non avvertono di essere sottomessi a una imposizione esterna, ma soltanto di fare il loro gioco. Ma in secondo luogo può accadere che uno di essi senta che la decisione non è giusta e può anche darsi che se ne irriti. Egli però non si oppone alla regola, ma a quella che proclama una violazione di essa, un atto parziale e ingiusto. In terzo luogo, le regole e di conseguenza la condotta del gioco sono per così dire elevate a modello. Si accettano certi modi di calcolare, di scegliere le parti, certe posizioni da prendere, dati movimenti da fare, ecc. Queste regole hanno la sanzione della tradizione. Coloro che giocano hanno veduto, forse, gare di professionisti e desiderano emulare i più anziani. Un elemento che è convenzionale ha una certa forza. Di solito, un gruppo di giovani cambia le regole con cui gioca soltanto quando il gruppo di adulti, cui guardano come a modello, ha introdotto dei mutamenti nelle regole, a condizione che si supponga almeno che il mutamento introdotto dai più anziani sia destinato a facilitare il gioco ed a renderlo più interessante per gli spettatori.

Ora, la conclusione generale che vorrei trarre è che il controllo delle azioni individuali è fatto dall'intera situazione in cui -gli individui sono compresi, di cui sono parte e di cui sono cooperatori e interattori. Perfino in un gioco di competizione c'è un certo genere di partecipazione, di collaborazione in un'esperienza comune. In altre parole, coloro che vi partecipano non avvertono di dover sottostare a un individuo o di essere soggetti alla volontà di una persona che sovrasta dal di fuori. Non sorgono dispute violente, di solito, se non nel caso che l'arbitro o qualche persona dall'altra parte commetta ingiustizia; in altre parole, se non nel caso che un individuo tenti di imporre altrui la sua volontà personale.

Può parere che si dia soverchio peso ad un singolo caso il concludere che codesto esempio metta in chiaro il principio generale del controllo sociale sopra l'individuo senza violazione della sua libertà. Ma se si procedesse a fondo con lo stesso sistema per un certo numero di casi, penso che sarebbe giustificata la conclusione che questo esempio particolare illustra un principio generale. I giuochi implicano di solito competizione. Se scegliessimo esempi di attività cooperative, cui prendono parte tutti i membri di un gruppo, come accade ad esempio nella vita di una famiglia ben ordinata nella quale la confidenza è reciproca, il punto sarebbe ancora più chiaro. In tutti questi casi non è la volontà o il desiderio di una persona che mette ordine, ma lo spirito motore dell'intero gruppo. Il controllo è sociale, ma gli individui sono parte della comunità, non sono fuori di essa.

 Non intendo con questo che non ci siano occasioni in cui l'autorità, per esempio dei genitori, non debba intervenire e esercitare un controllo per così dire diretto. Ma dico, in primo luogo, che il numero di queste occasioni è limitato a paragone di quelle in cui il controllo si trova esercitato non da un'autorità personale ma da situazioni cui tutti prendono parte. E, quello che più importa ancora, l'autorità di cui si parla quando viene esercitata in una casa ben regolata o in altro gruppo comunitario, non è una manifestazione di volontà meramente individuale; il genitore o l'insegnante la esercita in quanto rappresenta ed è l'esecutore degli interessi del gruppo come un tutto. Riguardo al primo punto, in una scuola bene ordinata la principale fiducia di controllare questo o quell'individuo s'ha da riporre nel controllo esercitato sulle attività che vi si esplicano e sulle situazioni di cui queste attività fanno parte. L'insegnante riduce al minimo le occasioni in cui deve esercitare un'autorità personale. Quando è necessario, in secondo luogo, di parlare e di agire fermamente, lo fa in nome dell'interesse del gruppo, non per far mostra di un potere personale. Ecco ciò che differenzia l'azione arbitraria da quel che è giusto e leale.

Inoltre, non è necessario che la differenza sia formulata con parole, tanto dall'insegnante quanto dall'allievo, per essere avvertita nell'esperienza. Piccolo è il numero dei ragazzi che non avvertono la differenza (anche se essi non la sanno formulare e ridurre a un principio intellettuale) fra un'azione motivata dal potere personale e dal desiderio di imporla e l'azione che è giusta perché suggerita dall'interesse di tutti. Inclinerei anzi a dire che, nell'insieme, i ragazzi sono più sensibili che non gli adulti alle manifestazioni ed ai sintomi di questa differenza. I ragazzi imparano la differenza quando giocano fra loro. Essi sono inclini, spesso fin troppo inclini, ad accogliere suggerimenti di un ragazzo e a farlo capo, se la sua condotta aggiunge qualcosa al valore sperimentato di ciò che stanno facendo, mentre si risentono contro ogni tentativo di imposizione. In quest'ultimo caso si ritirano e quando si chiede loro il perché, rispondono: «fa troppo il padrone».

Non voglio riferirmi alla scuola tradizionale per farne una caricatura invece di un ritratto. Ma penso che sia giusto dire che se i comandi dell'insegnante erano spesso illegittimi e l'ordine che vi regnava era per lo più supina acquiescenza alla volontà di un adulto, ciò risaliva al fatto che l'insegnante vi era di solito costretto dalla situazione. La scuola non era un gruppo o una comunità tenuta insieme dalla partecipazione alle attività comuni. Mancavano quindi le varie condizioni normali di controllo. Alla loro mancanza si suppliva e vi si doveva in notevole misura supplire mediante il diretto intervento dell'insegnante, che si diceva, «teneva l'ordine». Egli lo teneva perché l'ordine era nelle mani dell'insegnante, anziché nella partecipazione collettiva al lavoro.

La conclusione è che in quelle che denominiamo scuole nuove, la fonte principale del controllo sociale è riposta nella natura stessa del lavoro inteso come un'impresa sociale, in cui tutti gli individui hanno modo di prender parte e di cui si sentono responsabili. La maggior parte dei ragazzi è naturalmente "socievole". L'isolamento pesa più ancora ad essi che agli adulti. Una schietta vita di comunità ha le sue radici in questa socialità naturale. Ma la vita di comunità non si organizza durevolmente in modo meramente spontaneo. Esige pensiero e piani precisi. L'educatore deve, sulla sua responsabilità, conoscere tanto gli individui quanto la materia di studio, conoscenza che gli permette di trarre le attività che si prestano all'organizzazione sociale, ad un'organizzazione cui ogni individuo può portare il suo contributo e nella quale le attività, cui tutti partecipano, sono i mezzi principali del controllo.

Non m'illudo talmente nei riguardi dei ragazzi da supporre che tutti gli alunni risponderanno o che tutti i ragazzi di impulsi normali risponderanno in ogni occasione. Taluni di essi indubbiamente, quando iniziano la scuola, sono già vittime di condizioni esterne sfavorevoli, e sono diventati così passivi e inopportunamente docili che non sono più in grado di collaborare. Altri, per colpa d'esperienze anteriori, sono presuntuosi, indisciplinati e, forse, apertamente ribelli. Ma questi casi non possono certo mettere in forse il principio generale dei controllo sociale. È altresì vero che non ci sono regole generali per trattare questi casi. L'insegnante ha da regolarsi nei loro riguardi caso per caso. Essi rientrano in classi generali, ma non ce ne sono due identici. L'educatore deve scoprire meglio che può le cause delle abitudini di recalcitrare. Se il processo dell'educazione deve aver corso, egli non può farne un'occasione di opposizione di una volontà ad un'altra per il gusto di vedere quale è la più forte, né può permettere che allievi turbolenti e spiritualmente assenti ostacolino di continuo le attività educative degli altri. L'esclusione è forse l'unica misura che si conviene in certi casi, ma non è una soluzione. Può difatti rafforzare proprio le cause che hanno dato origine all'indesiderabile atteggiamento antisociale, per esempio al desiderio di richiamare l'attenzione su di sé o di mettersi in evidenza.

Raramente le eccezioni confermano la regola o danno il filo che ci mostri quel che essa deve essere. Non vorrei dunque annettere troppa importanza a questi casi eccezionali, per quanto sia vero oggi che le scuole progressive debbano spesso avere più che la loro parte di questi casi; difatti i genitori, come ultimo scampo, possono inviare i figli a queste scuole. Non credo che la insufficiente disciplina in certe scuole progressive derivi da questi casi eccezionali. È molto più probabile che si debba far risalire alla mancata predisposizione del genere di lavoro (con la quale parola intendo qualsiasi tipo di attività in cui si è impegnati) suscettibile di creare situazioni che tendono automaticamente a esercitare controllo su ciò che fa ogni alunno e sul modo in cui lo fa. Questa omissione per lo più risale a insufficiente meditazione del piano propostosi. Le cause di questa insufficienza sono varie. Una, che è particolarmente importante menzionare qui, è l'idea che non occorre predisporre un piano, che anzi esso contrasti intimamente con la legittima libertà di coloro che vengono istruiti.
Naturalmente può darsi benissimo che il piano predisposto dall'insegnante lo sia stato in un modo così rigido e intellettualmente inflessibile da ridursi a un'imposizione dell'adulto, che non cessa di essere esterna per il fatto che è esercitata con tatto e con apparente rispetto della libertà individuale. Ma questa specie di pianificazione non deriva affatto implicitamente dal principio medesimo. Io non so a che servirebbe la maggiore maturità dell'insegnante e la sua più estesa conoscenza del mondo, delle materie di studio e degli individui, se egli non fosse in grado di disporre le condizioni che promuovono, l'attività della comunità e l'organizzazione che esercita controllo sugli impulsi individuali per il mero fatto che tutti sono impegnati in progetti comuni. Non è già perché un dato piano è stato predisposto in forma così meccanica da lasciare poco spazio al libero gioco del pensiero indipendente o ai contributi dell'esperienza individuale, che s'ha da respingere ogni idea di piano. Al contrario, incombe all'educatore il dovere di predisporre un genere di piano molto più intelligente, e di conseguenza molto più difficile. Deve esaminare la capacità e i bisogni del gruppo di allievi con cui ha da fare e disporre nello stesso tempo le condizioni che forniscano materia di studio e contenuto per esperienze che appaghino questi bisogni e sviluppino queste capacità. Il piano deve essere abbastanza flessibile per permettere il libero gioco dell'esperienza individuale e abbastanza fermo per indirizzare verso uno svolgimento continuo del potere.

Colgo l'occasione per dire qualche cosa delle attribuzioni e dell'ufficio dell'insegnante. Il principio che lo sviluppo dell'esperienza si compie attraverso l'interazione indica che l'educazione è essenzialmente un processo sociale. Essa lo diventa tanto meglio quanto più gli individui formano un gruppo comunitario. È assurdo escludere l'insegnante dai membri del gruppo. In quanto egli è il più maturo membro del gruppo egli ha la specifica responsabilità di dirigere le interazioni e le intercomunicazioni, che costituiscono la vera vita del gruppo in quanto comunità. I fanciulli sono individui di cui occorre rispettare la libertà e la persona più matura non dovrebbe godere nessuna libertà come individuo? Ecco un'idea assurda che non merita di essere confutata. La tendenza a togliere all'insegnante una parte positiva e dominante nella direzione delle attività della comunità di cui egli è membro è un altro esempio di reazione da un estremo all'altro. Quando gli alunni erano una classe piuttosto che un gruppo sociale, l'insegnante era costretto ad agire in gran parte al di fuori e non già in veste di direttore di processi di scambio in cui tutti hanno la loro parte. Se l'educazione è basata sull'esperienza e l'esperienza educativa viene concepita come un processo sociale, la situazione cambia radicalmente. L'insegnante perde la sua posizione esterna di padrone o di dittatore per assumere quella di direttore di attività associate.

Discutendo della condotta nel gioco come esempio di normale, abbiamo accennato alla presenza di un fattore convenzionale standardizzato. Nella vita di scuola a questo fattore fa riscontro il problema delle maniere, specialmente delle buone maniere nelle manifestazioni di garbatezza e di cortesia. Più impariamo a conoscere i costumi di diverse parti del mondo in tempi diversi, più ci accorgiamo quanto differiscono le maniere nei diversi luoghi e nei diversi tempi. Questo fatto attesta che in questi cambiamenti la convenzione ha una parte notevole. Ma non c'è gruppo in qualsiasi tempo e luogo che non abbia il suo codice di maniere, per esempio circa il modo in cui conviene salutare. La forma particolare di convenzione non ha nulla di fisso né di assoluto. Ma l'esistenza stessa di qualche forma di convenzione non è una convenzione. Essa accompagna ogni relazione sociale. In ultima analisi, è l'olio che previene e riduce le frizioni.

È possibile, naturalmente, che queste forme sociali diventino, come si dice, "mere formalità". Esse possono diventare pura apparenza esteriore, senza alcun intrinseco significato. Ma respingere le forme vuotamente ritualisti che delle relazioni sociali non significa rinunciare a ogni elemento formale. Attesta piuttosto l'esigenza che si sviluppino forme di relazione fra gli uomini che siano intrinsecamente appropriate alle situazioni sociali. Certi visitatori di scuole progressive sono urtati dal difetto di creanza che osservano. Un conoscitore più addentro nella situazione s'accorge che l'assenza di essa è dovuta in larga parte ad un interesse più vivo dei ragazzi per quello che stanno facendo. Nel loro fervore per esempio possono urtarsi l'un l'altro al passaggio e urtare persino i visitatori senza dire una parola di scusa. Si potrà dire che questa condizione è migliore di un'ostentazione di mero ossequio esterno congiunto a una totale assenza intellettuale e sentimentale di interesse per l'opera scolastica. Ma essa rappresenta anche una deficienza nella educazione, una deficienza nell'apprendimento di una delle più importanti lezioni della vita, quella di sapersi acconciare e adattare reciprocamente. L'educazione procede per una via unilaterale, poiché quegli abiti sono nel processo di formazione quelli che ostacolano il futuro apprendere che nasce dal facile e pronto contatto e comunicazione con altri.


5. La natura della liberta'

A rischio di ripetere quello che è stato detto spesso desidero fare qualche osservazione circa l'altro lato del problema del controllo sociale, vale a dire la natura della libertà. La sola libertà che ha durevole importanza è la libertà dell'intelligenza vale a dire la libertà di osservare e di giudicare esercitata nei riguardi di piani che hanno un valore intrinseco. Il più comune errore per quanto concerne la libertà è quello, penso, di identificarla con la libertà di movimento o con il lato esterno o fisico dell'attività. Ora, questo lato esterno e fisico dell'attività non può essere separato dal lato interno di essa, dalla libertà di pensare, di desiderare, di fare progetti. La limitazione imposta esternamente dalle disposizioni immutabili della tipica aula scolastica tradizionale, con le immutabili file di banchi e col regime militare degli alunni, cui era concesso di muoversi soltanto a certi dati segni, poneva una grave restrizione alla libertà intellettuale e morale. Se si voleva creare un terreno propizio allo svolgimento degli individui, alle sorgenti intellettuali della libertà, senza di cui non esiste sicurezza di crescita, occorreva farla finita con i metodi della camicia di forza e della corvée.

Non è meno vero però che una maggiore libertà di moto esterno è un mezzo non un fine. Il problema educativo non è risolto quando si è ottenuta questa forma di libertà. Tutto dipende, per quanto concerne l'educazione, da ciò che si fa con questa maggiore libertà. Parliamo anzitutto dei benefici che ci sono potenzialmente nell'accrescimento della libertà esterna. In primo luogo, senza di essa è praticamente impossibile che un insegnante impari a conoscere l'individuo con cui ha che fare. La calma e l'obbedienza imposte impediscono agli allievi di rivelare la loro natura. Esse rafforzano l'uniformità artificiale. Sacrificano l'essere al parere. Premiano le apparenze esterne dell'attenzione, del decoro e dell'obbedienza. Tutti coloro che hanno pratica di scuole in cui vige questo sistema, sanno bene che pensieri, immaginazioni, desideri e attività clandestine continuano ad avere libero corso dietro questa facciata. Il maestro se ne accorge soltanto quando qualche atto malaccorto lo mette allo scoperto. Basta paragonare questa situazione altamente artificiale con le relazioni normali che corrono fra gli uomini fuori della classe, per esempio in una casa ben ordinata, per comprendere quanti ostacoli vi trovi l'insegnante alla conoscenza ed alla comprensione degli individui che dovrebbe educare. Eppure, senza questa conoscenza è un mero caso se il materiale di studio e i metodi adoperati nell'istruzione si adatteranno all'alunno in modo tale da assicurare lo sviluppo del suo intelletto e del suo carattere. L'uniformità meccanica degli studi e dei metodi genera una specie di immobilità uniforme e questa, a sua volta, contribuisce a perpetuare l'uniformità degli studi e delle ripetizioni, mentre, dietro questa uniformità imposta, le tendenze individuali operano in forme irregolari più o meno proibite. L'altro importante beneficio dell'aumentata libertà esteriore consiste nella natura stessa del processo di apprendere. Abbiamo già accennato al fatto che gli antichi metodi premiano la passività e la ricettività. L'immobilità fisica accentua paurosamente questi tratti. L'unico modo di sottrarsi ad essi in una scuola standardizzata è l'attività irregolare e, forse, indisciplinata. Non c'è completa quiete in un laboratorio o in un'officina. Il carattere non sociale della scuola tradizionale appare in questo, che essa fa del silenzio una delle sue prime virtù. Può esistere, naturalmente, un'intensa attività intellettuale non accompagnata da attività esteriore del corpo. Ma questa capacità intellettuale è conquista relativamente tarda, in seguito a un lungo periodo di tirocinio. Perfino il ragazzo dovrebbe disporre di brevi intervalli di tempo da dedicare alla riflessione pacata. Ma essi sono momenti di schietta riflessione soltanto quando seguono a periodi di più esterna azione e sono usati per organizzare quel che è stato guadagnato in periodi di attività in cui, oltre il cervello, si sono adoperati le mani e altre parti del corpo. La libertà di movimento è dunque importante come mezzo per mantenere la normale salute fisica e mentale. Noi abbiamo ancora da imparare dall'esempio dei greci che hanno colto chiaramente la relazione fra un corpo sano e un'anima sana. Ma sotto tutti i rispetti la libertà di azione esterna è mezzo alla libertà del giudizio e del potere di eseguire fini deliberatamente scelti. La quantità di libertà esterna necessaria varia da individuo a individuo. Naturalmente essa tende a diminuire col crescere dell'età, sebbene la mancanza totale di essa impedirebbe anche ad un uomo maturo di avere quei contatti che gli fornirebbero i nuovi materiali sui quali egli potrebbe esercitare la propria intelligenza. La quantità e la qualità di questo genere di libera attività come mezzo di crescita è un problema che deve esser presente al pensiero dell'educatore in ogni stadio di svolgimento.

Non ci può essere però più grande errore che quello di considerare tale libertà come un fine in sé. Esso tende a distruggere le attività che si svolgono a gruppi, che sono la sorgente normale dell'ordine. D'altra parte fa della liberà, che dovrebbe essere positiva, alcunché di negativo. Poiché la libertà dal limite, l'aspetto negativo, non ha valore se non in quanto è un mezzo alla libertà che è potere, potere di fare progetti, di giudicare con assennatezza, di misurare i desideri dalle loro conseguenze; potere di scegliere e ordinare i mezzi per realizzare i fini scelti.

Gli impulsi e i desidera naturali costituiscono in ogni caso il punto di partenza. Ma non c'è crescita intellettuale senza qualche ricostruzione, qualche rifacimento degli impulsi e dei desideri, nella forma in cui si manifestarono la prima volta. Questo rifacimento implica inibizione dell'impulso nella sua forma prima. C'è alternativa fra l'inibizione imposta dall'esterno e l'inibizione conseguita attraverso la riflessione e il giudizio individuale. Il vecchio adagio «se vuoi pensare fermati» è psicologicamente esatto. Il pensare è difatti arresto dell'immediata manifestazione dell'impulso sino a che quell'impulso sia stato messo in rapporto con le altre possibili tendenze attive, sino a che si sia formato un più comprensivo e coerente piano d'attività. Qualcuna delle altre tendenze all'azione conduce all'uso dell'occhio, dell'orecchio e della mano e mena ad osservare le condizioni oggettive; altre conducono al richiamo di ciò che è accaduto in passato. Pensare è così posporre l'immediata azione ed effettuare nel frattempo l'interno controllo dell'impulso mediante un'unione di osservazione e di memoria, unione che è il cuore della riflessione. La meta ideale dell'educazione è la creazione del potere di autocontrollo. Ma la mera rimozione del controllo esterno non basta a far nascere l'autocontrollo. È facile cadere dalla padella nella brace. È facile in altre parole sottrarsi ad una forma di controllo esterno per incappare in un'altra e più pericolosa forma di controllo esterno. Gli impulsi e i desideri che non sono disciplinati dall'intelligenza sono sotto il controllo di circostanze accidentali. Può essere una perdita piuttosto che un guadagno sottrarsi al controllo di un'altra persona soltanto per abbandonarsi all'impero della stravaganza e del capriccio immediato, cioè alla mercé di impulsi nella cui formazione non è entrato il giudizio dell'intelletto. Una persona la cui condotta è controllata in questo modo ha tutt'al più la mera illusione della libertà. Effettivamente è diretta da forze che non riesce a dominare.

A rischio di ripetere quello che è stato detto spesso desidero fare qualche osservazione circa l'altro lato del problema del controllo sociale, vale a dire la natura della libertà. La sola libertà che ha durevole importanza è la libertà dell'intelligenza vale a dire la libertà di osservare e di giudicare esercitata nei riguardi di piani che hanno un valore intrinseco. Il più comune errore per quanto concerne la libertà è quello, penso, di identificarla con la libertà di movimento o con il lato esterno o fisico dell'attività. Ora, questo lato esterno e fisico dell'attività non può essere separato dal lato interno di essa, dalla libertà di pensare, di desiderare, di fare progetti. La limitazione imposta esternamente dalle disposizioni immutabili della tipica aula scolastica tradizionale, con le immutabili file di banchi e col regime militare degli alunni, cui era concesso di muoversi soltanto a certi dati segni, poneva una grave restrizione alla libertà intellettuale e morale. Se si voleva creare un terreno propizio allo svolgimento degli individui, alle sorgenti intellettuali della libertà, senza di cui non esiste sicurezza di crescita, occorreva farla finita con i metodi della camicia di forza e della corvée.

Non è meno vero però che una maggiore libertà di moto esterno è un mezzo non un fine. Il problema educativo non è risolto quando si è ottenuta questa forma di libertà. Tutto dipende, per quanto concerne l'educazione, da ciò che si fa con questa maggiore libertà. Parliamo anzitutto dei benefici che ci sono potenzialmente nell'accrescimento della libertà esterna. In primo luogo, senza di essa è praticamente impossibile che un insegnante impari a conoscere l'individuo con cui ha che fare. La calma e l'obbedienza imposte impediscono agli allievi di rivelare la loro natura. Esse rafforzano l'uniformità artificiale. Sacrificano l'essere al parere. Premiano le apparenze esterne dell'attenzione, del decoro e dell'obbedienza. Tutti coloro che hanno pratica di scuole in cui vige questo sistema, sanno bene che pensieri, immaginazioni, desideri e attività clandestine continuano ad avere libero corso dietro questa facciata. Il maestro se ne accorge soltanto quando qualche atto malaccorto lo mette allo scoperto. Basta paragonare questa situazione altamente artificiale con le relazioni normali che corrono fra gli uomini fuori della classe, per esempio in una casa ben ordinata, per comprendere quanti ostacoli vi trovi l'insegnante alla conoscenza ed alla comprensione degli individui che dovrebbe educare. Eppure, senza questa conoscenza è un mero caso se il materiale di studio e i metodi adoperati nell'istruzione si adatteranno all'alunno in modo tale da assicurare lo sviluppo del suo intelletto e del suo carattere. L'uniformità meccanica degli studi e dei metodi genera una specie di immobilità uniforme e questa, a sua volta, contribuisce a perpetuare l'uniformità degli studi e delle ripetizioni, mentre, dietro questa uniformità imposta, le tendenze individuali operano in forme irregolari più o meno proibite. L'altro importante beneficio dell'aumentata libertà esteriore consiste nella natura stessa del processo di apprendere. Abbiamo già accennato al fatto che gli antichi metodi premiano la passività e la ricettività. L'immobilità fisica accentua paurosamente questi tratti. L'unico modo di sottrarsi ad essi in una scuola standardizzata è l'attività irregolare e, forse, indisciplinata. Non c'è completa quiete in un laboratorio o in un'officina. Il carattere non sociale della scuola tradizionale appare in questo, che essa fa del silenzio una delle sue prime virtù. Può esistere, naturalmente, un'intensa attività intellettuale non accompagnata da attività esteriore del corpo. Ma questa capacità intellettuale è conquista relativamente tarda, in seguito a un lungo periodo di tirocinio. Perfino il ragazzo dovrebbe disporre di brevi intervalli di tempo da dedicare alla riflessione pacata. Ma essi sono momenti di schietta riflessione soltanto quando seguono a periodi di più esterna azione e sono usati per organizzare quel che è stato guadagnato in periodi di attività in cui, oltre il cervello, si sono adoperati le mani e altre parti del corpo. La libertà di movimento è dunque importante come mezzo per mantenere la normale salute fisica e mentale. Noi abbiamo ancora da imparare dall'esempio dei greci che hanno colto chiaramente la relazione fra un corpo sano e un'anima sana. Ma sotto tutti i rispetti la libertà di azione esterna è mezzo alla libertà del giudizio e del potere di eseguire fini deliberatamente scelti. La quantità di libertà esterna necessaria varia da individuo a individuo. Naturalmente essa tende a diminuire col crescere dell'età, sebbene la mancanza totale di essa impedirebbe anche ad un uomo maturo di avere quei contatti che gli fornirebbero i nuovi materiali sui quali egli potrebbe esercitare la propria intelligenza. La quantità e la qualità di questo genere di libera attività come mezzo di crescita è un problema che deve esser presente al pensiero dell'educatore in ogni stadio di svolgimento.

Non ci può essere però più grande errore che quello di considerare tale libertà come un fine in sé. Esso tende a distruggere le attività che si svolgono a gruppi, che sono la sorgente normale dell'ordine. D'altra parte fa della liberà, che dovrebbe essere positiva, alcunché di negativo. Poiché la libertà dal limite, l'aspetto negativo, non ha valore se non in quanto è un mezzo alla libertà che è potere, potere di fare progetti, di giudicare con assennatezza, di misurare i desideri dalle loro conseguenze; potere di scegliere e ordinare i mezzi per realizzare i fini scelti.

Gli impulsi e i desidera naturali costituiscono in ogni caso il punto di partenza. Ma non c'è crescita intellettuale senza qualche ricostruzione, qualche rifacimento degli impulsi e dei desideri, nella forma in cui si manifestarono la prima volta. Questo rifacimento implica inibizione dell'impulso nella sua forma prima. C'è alternativa fra l'inibizione imposta dall'esterno e l'inibizione conseguita attraverso la riflessione e il giudizio individuale. Il vecchio adagio «se vuoi pensare fermati» è psicologicamente esatto. Il pensare è difatti arresto dell'immediata manifestazione dell'impulso sino a che quell'impulso sia stato messo in rapporto con le altre possibili tendenze attive, sino a che si sia formato un più comprensivo e coerente piano d'attività. Qualcuna delle altre tendenze all'azione conduce all'uso dell'occhio, dell'orecchio e della mano e mena ad osservare le condizioni oggettive; altre conducono al richiamo di ciò che è accaduto in passato. Pensare è così posporre l'immediata azione ed effettuare nel frattempo l'interno controllo dell'impulso mediante un'unione di osservazione e di memoria, unione che è il cuore della riflessione. La meta ideale dell'educazione è la creazione del potere di autocontrollo. Ma la mera rimozione del controllo esterno non basta a far nascere l'autocontrollo. È facile cadere dalla padella nella brace. È facile in altre parole sottrarsi ad una forma di controllo esterno per incappare in un'altra e più pericolosa forma di controllo esterno. Gli impulsi e i desideri che non sono disciplinati dall'intelligenza sono sotto il controllo di circostanze accidentali. Può essere una perdita piuttosto che un guadagno sottrarsi al controllo di un'altra persona soltanto per abbandonarsi all'impero della stravaganza e del capriccio immediato, cioè alla mercé di impulsi nella cui formazione non è entrato il giudizio dell'intelletto. Una persona la cui condotta è controllata in questo modo ha tutt'al più la mera illusione della libertà. Effettivamente è diretta da forze che non riesce a dominare.


6. Il significato del proposito

Coglie dunque giusto l'istinto che identifica volontà e potere di concepire propositi e di eseguirli o di portarli a compimento. Questa libertà è, a sua volta, identica con l'autocontrollo; poiché la formazione di propositi l'organizzazione di mezzi per eseguirli sono opera dell'intelligenza. Platone ha detto una volta che lo schiavo è colui che eseguisce i propositi di un altro e, come è stato esattamente osservato, è schiava quella persona che è tiranneggiata dai ciechi desideri. Non c'è, penso, nella filosofia dell'educazione progressiva nessun punto più significativo dell'accento posto sull'importanza della partecipazione dell'educando alla formazione dei progetti che dirigono le sue attività nel processo dell'apprendere, come non c'è maggior difetto nell'educazione tradizionale, che la sua incapacità ad assicurarsi l'attiva cooperazione dell'alunno nella costruzione dei progetti che sono impliciti nel suo studio. Ma il significato dei propositi e dei fini non è di evidenza immediata e non si coglie da sé. Più si accentua la loro importanza educativa, più importante è intendere che cosa è un proposito, come sorge e come funziona nell'esperienza.
Un autentico proposito trova sempre il suo punto di partenza in u impulso. L'impedimento all'immediato appagamento di un impulso lo converte in un desiderio. Tuttavia né impulso né desiderio sono in sé un proposito. Il proposito è la visione di un fine. Vale a dire involge una previsione dalle conseguenze che risulteranno dall'operare in base a un impulso. La previsione delle conseguenze implica attività dell'intelligenza. Essa richiede, in primo luogo, osservazione delle condizioni e delle circostanze obbiettive. Difatti impulso e desiderio producono conseguenze non per se stessi soltanto, ma anche attraverso l'interazione o la cooperazione con le condizioni circostanti. L'impulso ad un'azione così semplice come il camminare non può essere appagato se non mercé un collegamento attivo col suolo su cui si posano i piedi. In condizioni normali, non facciamo molta attenzione al suo «Se il terreno si fa difficile dobbiamo osservare con cura gli accidenti di esso, come nell'inerpicarsi per una montagna scoscesa e impervia non solcata ancora da piste. Allora l'esercizio dell'osservazione è una condizione della trasformazione dell'impulso in proposito. Così al segnale di un passaggio a livello ci dobbiamo fermare, guardare, ascoltare.
Ma l'osservazione sola non basta. Dobbiamo comprendere il significato di ciò che vediamo, udiamo e tocchiamo. Questo significato risulta dalle conseguenze dell'azione che si intraprende. Un piccino può vedere lo splendore di una fiamma ed essere attratto ad afferrarla. Il significato della fiamma è allora non il suo splendore ma il potere di bruciare, come risulterà dal fatto di toccarla. potere di bruciare, come risulterà dal fatto di toccarla. Possiamo essere fatti avvertiti dalle conseguenze soltanto in base alle esperienze anteriori. Nei casi resi familiari da numerose esperienze antecedenti non dobbiamo fermarci a ricordare quali sono state codeste esperienze. Una fiamma significa per noi luce e calore senza doverci richiamare espressamente ad esperienze passate di calore e di scottatura. Ma nei casi straordinari, è difficile dire con precisione quali potranno essere le conseguenze delle condizioni osservate, a meno di richiamare alla memoria le esperienze passate, a meno di riflettere su di esse, di intendere che c'è in loro alcunché di simiIe alle presenti e di formulare un giudizio su ciò che si può attendere nella situazione presente.

La formazione di propositi è, dunque, un'operazione intellettuale piuttosto complessa. Essa implica osservazione delle condizioni circostanti; conoscenza di ciò che è accaduto in passato in situazioni analoghe, conoscenza ottenuta in parte con il ricordo e in parte con l'informazione, la notizia, l'avvertimento di coloro che hanno fatto una più ampia esperienza; e giudizio che raccoglie insieme quel che è stato osservato e quel che è stato richiamato per vedere che cosa significano. Un proposito differisce da un impulso e da un desiderio originale per il fatto di venire tradotto in un piano e metodo d'azione basato sulla previsione delle conseguenze dell'operare sotto certe condizioni date in un certo modo. «Se i desideri fossero cavalli, tutti i mendichi cavalcherebbero». Il desiderio di qualcosa può essere intenso. Può essere così forte da impedire un'esatta valutazione delle conseguenze che deriveranno dal soddisfacimento di esso. Non si ha da cercare qui il modello dell'educazione. Il problema cruciale dell'educazione è quello di ottenere che l'azione non segua immediatamente il desiderio, ma sia preceduta dall'osservazione e dal giudizio. Se non erro, questo punto ha un'importanza decisiva per le scuole progressive. La soverchia accentuazione della attività in generale, anziché dell'attività intelligente come fine dell'educazione conduce a identificare la libertà con l'esecuzione immediata di impulsi e desideri. Codesta identificazione conduce ad una confusione di impulso con proposito; mentre che, come abbiamo or ora detto, non c'è proposito sino a che l'azione non è proposta alla previsione delle conseguenze che l'esecuzione dell'impulso reca con sé, previsione che è impossibile senza osservazione e giudizio. La mera previsione, anche se prende la forma di accurata predizione, non è, naturalmente, sufficiente. L'anticipazione intellettuale, l'idea delle conseguenze deve mescolarsi al desiderio ed all'impulso per acquistare forza propulsiva. Essa dà allora direzione a ciò che altrimenti è cieco, mentre il desiderio dà alle idee impeto e intensità. Allora un'idea diventa proposito dentro e per l'attività da promuovere.
Supponiamo un individuo che abbia il desiderio di assicurarsi una dimora, diciamo col costruire una casa. Per quanto sia forte il suo desiderio, non lo può realizzare direttamente. Egli deve formarsi un'idea del genere di casa che desidera, compresi il numero e la sistemazione delle stanze, ecc. Deve tracciare un piano, fare la pianta e ritoccarla. Tutto questo potrebbe essere un ozioso passatempo, se non conoscesse bene le sue risorse. Deve considerare la relazione dei mezzi a sua disposizione e delle sue possibilità di credito con l'esecuzione del suo piano. Egli deve informarsi dei luoghi adatti, del loro prezzo, della loro vicinanza al centro dei suoi interessi, se il vicinato gli va a genio, se ci sono scuole ecc. ecc.; bisogna fare i conti con tutto questo: la sua capacità di pagare, l'ampiezza e i bisogni della sua famiglia, le possibili località, ecc. ecc., sono fatti obbiettivi. Non sono parte del desiderio originale. Ma essi devono essere presi in esame e giudicati prima che il desiderio possa essere convertito in proposito e il proposito in piano d'azione.
Ognuno di noi ha desideri, almeno sino a che non siamo caduti in uno stato patologico di completa apatia. Questi desideri sono in fondo le vere spinte all'azione. Un uomo d'affari desidera di riuscire, un generale desidera di vincere la battaglia; un padre di famiglia di avere una comoda dimora per la sua famiglia, e di educare i suoi figli, e così all'infinito. La intensità del desiderio misura l'intensità dello sforzo che sarà fatto. Ma i desideri sono vuoti castelli in aria sino a che non vengono trasformati in mezzi con cui possono essere realizzati. Il problema del quando o dei mezzi prende il posto del fine progettato nell'immaginazione, e poiché i mezzi sono obbiettivi, occorre studiarli e comprenderli se si deve formare un autentico proposito.

L'educazione tradizionale tendeva a ignorare l'importanza dell'impulso e del desiderio personale come spinta iniziale all'azione. Ma non è questa una buona ragione perché l'educazione progressiva identifichi impulsi e desiderio con proposito e trascuri quindi alla leggera il bisogno di accurata osservazione, di estesa informazione, di giudizio, se gli alunni devono partecipare ai propositi che li mettono in atto. In un piano educativo, l'esistenza di un desiderio e di un impulso non è lo scopo finale. È un'occasione, è la richiesta della formazione di un proposito e di un metodo di attività. Un tale proposito, lo ripeto, può essere formato soltanto con lo studio delle condizioni e col procurarsi tutte le informazioni che occorrono.
Il compito dell'insegnante è quello di vigilare perché sia colta l'occasione. Poiché c'è libertà nelle operazioni dell'osservazione intelligente e nel giudizio con cui viene sviluppato un proposito, l'indirizzo che dà l'insegnante all'esercizio dell'intelligenza dell'alunno è un aiuto alla libertà, non una limitazione di essa. Talvolta pare che gli insegnanti temano persino di dare suggerimenti ai membri di un gruppo circa quello che dovrebbero fare. Ho sentito parlare di casi in cui gli alunni sono messi fra gli oggetti e i materiali e abbandonati interamente a se stessi, ripugnando all'insegnante di suggerire quel che si può fare coi materiali nel timore di violare la libertà. Ma allora, perché fornire materiali, dato che anch'essi non possono non suggerire qual cosa? Ma quel che più importa è che il suggerimento, da cui prende le mosse il lavoro degli alunni, deve pure provenire in ogni caso da qualche parte. Non si capisce perché un suggerimento che proviene da uno che ha una più larga esperienza e un più esteso orizzonte non debba essere almeno altrettanto valido quando un suggerimento che provenga da una fonte più o meno accidentale.
È possibile naturalmente abusare del proprio ufficio e costringere i ragazzi a operare secondo direttive imposte dal proposito dell'insegnante piuttosto che da quello degli scolari. Ma il mezzo per evitare questo pericolo non consiste nel ritirarsi dell'adulto. La via, per l'insegnante, è, in primo luogo, di rendersi intelligentemente conto delle capacità, dei bisogni e delle esperienze passate degli alunni e, in secondo luogo, di permettere alla suggestione trattane di trasformarsi in un piano e in un proposito mediante gli ulteriori suggerimenti forniti e organizzati in un tutto dai membri del gruppo.
Il piano, in altre parole, é un'impresa cooperativa e non un'imposizione: la sollecitazione dell'insegnante non e una forma per ferro fuso, ma è un punto da cui prender le mosse per svilupparlo in un piano attraverso i contributi che provengono dall'esperienza di tutti quanti sono impegnati col processo dell'apprendere. Lo svolgimento si compie attraverso un reciproco "dare e prendere"; l'insegnante prende, ma non teme anche di dare. Il punto essenziale è che il proposito nasca e prenda forma attraverso il processo dell'intelligenza sociale.


7.  Organizzazione progressiva della materia di studio

È stato accennato più volte di sfuggita alle condizioni oggettive implicite nell'esperienza e alla loro funzione nel promuovere o meno l'accrescimento e l'arricchimento della esperienza posteriore. Codeste condizioni oggettive sia di osservazione, di memoria, di informazione procurata dagli altri, che di immaginazione sono state implicitamente identificate con la materia dello studio e del sapere; o, parlando più generalmente, con la materia del corso degli studi. Tuttavia non è stato detto nulla esplicitamente intorno alla materia di studia come tale. Dobbiamo ora trattare di essa. Quando l'educazione è concepita in termini di esperienza una considerazione deve dominare chiaramente tutte le altre. Tutto ciò che può essere chiamato materia di studio, aritmetica, storia, geografia, scienze naturali, deve essere tratto dal materiale che rientra nell'ambito dell'ordinata esperienza quotidiana. Sotto questa riguardo la nuova educazione contrasta nettamente coi procedimenti che muovono da fatti e da verità che sono fuori dell'ambito dell'esperienza di coloro che vengono istruiti, donde sorge il problema di scoprire vie e mezzi per portarli nell'esperienza. Indubbiamente una delle ragioni principali del grande successo dei nuovi metodi nella prima educazione elementare è stata l'osservanza del principio opposto.
Ma trovare il materiale per l'insegnamento entro la esperienza é soltanto il primo passo. In un secondo momento ciò che è stato sperimentato deve progressivamente assumere una forma più piena e ricca e meglio organizzata, una forma che gradualmente si avvicini a quella in cui la materia del sapere si presenta ad una persona competente, matura. Che questo cambiamento sia possibile senza allontanarsi dal legame che avvince organicamente l'educazione con l'esperienza è attestato dal fatto che questa trasformazione si compie fuori della scuola e di quella che si suol chiamare educazione. Il bimbo, per esempio, all'inizio è circondato da oggetti molto limitati nello spazio e nel tempo. Codesto mondo che lo circonda si estende costantemente con l'estendersi dell'esperienza stessa senza aiuto di istruzione scolastica. Mentre il bimbo impara a protendersi, a strascinarsi per terra, a camminare, a parlare, l'intrinseco contenuto della sua esperienza si amplia e si approfondisce. Entra in contatto con nuovi oggetti ed eventi che suscitano nuove forze, mentre l'esercizio di queste forze a sua volta raffina ed allarga il contenuto della sua esperienza. Lo spazio e la durata della sua vita si dilatano. Il mondo circostante, il mondo dell'esperienza si fa sempre più largo e, per così dire, più fitto. L'educatore, che riceve il ragazzo alla fine di questo periodo, deve trovare il modo di fare consapevolmente e deliberatamente quel che la "natura" compie nei primi anni.

È appena necessario insistere sulla prima delle due condizioni che abbiamo indicato. È un precetto cardinale _della nuova scuola, che gli inizi dell'istruzione si riattacchino all'esperienza che gli educandi già posseggono; che questa esperienza e le capacità che sono state sviluppate per suo mezzo forniscano il punto da cui deve muovere tutto il sapere posteriore. Non sono sicuro che l'altra condizione, lo svolgimento ordinato verso l'espansione e l'organizzazione del sapere attraverso l'esperienza, riceva altrettanta attenzione. Tuttavia il principio di continuità della esperienza educativa esige che eguale pensiero ed attenzione siano dedicati alla soluzione di codesto aspetto del problema educativo. Indubbiamente questa fase del problema è più difficile dell'altra. Coloro che hanno a che fare con gli istituti prescolastici, col bimbo dei giardino di infanzia e col ragazzo e con la ragazza dei primi anni della scuola elementare non incontrano molta difficoltà a determinare quale è stata l'esperienza del passato o a trovare attività che si connettano con essa in modo vitale. Con ragazzi di età più avanzata ambedue i fattori del problema offrono maggiori difficoltà all'educatore. È più difficile rendersi conto dello sfondo dell'esperienza dell'individuo e più gravoso scoprire precisamente come si potrà dirigere il sapere già contenuto nell'esperienza presente verso orizzonti più larghi e in forme meglio organizzate.

È, erroneo supporre che il principio che ogni esperienza avvia a qualcosa di diverso sia adeguatamente soddisfatto col dare agli alunni delle nuove esperienze. Forse che acquistano maggiore perizia e facilità per il fatto di manipolare cose che sono già loro familiari? È dunque essenziale che i nuovi oggetti ed eventi siano intellettualmente riferiti a quelli delle esperienze precedenti, il che significa che ci deve essere qualche progresso nella consapevole articolazione di fatti e di idee. In tale modo compito dell'educatore diventa quello di discernere, nell'ambito dell'esperienza attuale, quelle cose che contengono la promessa e la possibilità di presentare nuovi problemi, i quali con lo stimolare nuove vie d'osservazione e di giudizio allargheranno il campo dell'esperienza futura. Egli deve costantemente considerare quello che è già acquisito non già come un possesso statico, ma come un mezzo ed uno strumento per aprire nuovi campi, i quali esigono nuovi sforzi dai poteri dell'osservazione e dall'intelligente uso della memoria. Continuità nella crescita deve essere il suo motto d'ordine costante.
Più di qualsiasi altra attività l'educazione esige che si guardi lontano. Un medico può considerare esaurito il suo compito quando ha ridato la salute al paziente. Egli ha certamente il dovere di suggerirgli come deve vivere per evitare ricadute in futuro. Ma dopo tutto, la condotta del paziente è affar suo e non del medico; e, quel che più importa in questo momento si è, che il medico il quale bada a istruire e dar consigli al paziente per il futuro assume la funzione di educatore. L'avvocato ha il compito di vincere la causa per il suo cliente o di trarlo fuori dagli impicci in cui s'è andato a ficcare. Se oltrepassa il caso che gli è presentato, si trasforma a sua volta in educatore. L'educatore per la stessa natura della sua attività è costretto a considerare il suo compito attuale in funzione di ciò che esso produrrà o meno in un avvenire i cui oggetti sono strettamente congiunti con quel del presente.

Qui, di nuovo, il problema per l'educatore progressivo è più arduo che per l'insegnante della scuola tradizionale. Anche quest'ultimo doveva guardare innanzi a sé. Ma, a meno che la sua personalità e il suo entusiasmo lo portassero al di là dei limiti della scuola tradizionale, poteva contentarsi di pensare al prossimo periodo d'esami o alla promozione alla classe superiore. Poteva prospettarsi il futuro nei termini dei fattori che rispondono alle esigenze del sistema scolastico convenzionale. Pesa sull'insegnante che congiunge educazione ed esperienza effettiva un compito ben più serio e duro. Egli deve conoscere quali possibilità ci sono di introdurre gli allievi in nuovi campi che appartengono ad esperienze già fatte, e deve servirsi di questa conoscenza come di criterio per scegliere di disporre le condizioni che influenzano la loro presente esperienza.

Siccome gli studi della scuola tradizionale consistevano in argomenti che venivano scelti e ordinati sulla base dei giudizio degli adulti circa ciò che sarebbe stato utile per i giovani nel futuro, il materiale da studiare era stabilito senza tener conto dell'attuale esperienza di vita di chi imparava. Ne conseguiva che esso aveva da fare col passato: era quello che aveva dimostrato di essere utile agli uomini nelle età trascorse. Per reazione, giustificate probabilmente dalle circostanze, per quanto deplorevole, si è caduti in un eccesso opposto: la sana idea che l'educazione dovrebbe derivare il suo materiale dall'esperienza attuale e mettere chi impara in condizione di far fronte ai problemi del presente e del futuro è stata spesso trasformata in quest'altra, che le scuole progressive possono molto largamente ignorare il passato. Se il presente potesse essere tagliato fuori dal passato, questa conclusione sarebbe ragionevole. Ma soltanto quel che ha compiuto il passato ci offre i mezzi per intendere il presente. Come l'individuo deve rievocare nella memoria il suo passato, se vuol intendere le condizioni in cui si trova come individuo, così gli avvenimenti e i problemi della vita sociale presente sono così intimamente e direttamente congiunti col passato che i discenti non possono essere preparati a intendere o questi problemi o la miglior via di risolverli senza scavare a fondo, sino alle loro radici, nel passato. In altre parole, il sano principio che gli obbiettivi dell'apprendere sono nel futuro e i suoi immediati materiali sono nell'esperienza presente, può realizzarsi solo nel grado in cui l'esperienza presente si allunghi, per così dire, all'indietro. Si può espandere nel futuro solo a patto che essa sia tanto allargata da comprendere il passato.
Se il tempo me lo permettesse, renderei più precisa e concreta questa affermazione generale con un esame degli avvenimenti politici ed economici cui la generazione attuale sarà costretta a far fronte. Non si può intendere la natura di questi avvenimenti, se non sappiamo come essi hanno avuto origine. Le istituzioni e i costumi che esistono oggi e provocano i malanni e le perturbazioni sociali del presente non sono nati d'un tratto. Hanno una lunga storia dietro di sé. Tentare di comportarsi con essi semplicemente sulla base di quel che appaiono oggi significa adottare misure superficiali che alla fin fine non faranno che rendere più acuti gli attuali problemi e più difficili a risolvere. Una politica che muova semplicemente dalla conoscenza del presente scisso dal passato è la controparte della negligenza stordita nella condotta individuale. L'unica via di uscire dai sistemi scolastici che fanno del passato un fine in sé è quello di imparare a conoscere il passato come un mezzo per intendere il presente. Sino a che non si riceverà questo problema, continuerà l'attuale conflitto fra idee e pratica educativa. Da un lato ci saranno i reazionari che protesteranno che il principale se non l'unico compito dell'educazione è di trasmettere il patrimonio che dovremmo ignorare il passato e preoccuparci unicamente del presente e del futuro.

Che fino ad oggi il punto più debole nelle scuole progressive sia stato la scelta e l'organizzazione della materia di studio penso sia inevitabile nelle circostanze in cui ci troviamo. È altrettanto inevitabile quanto è giusto ed ovvio che esse debbano farla finita col materiale staccato e inaridito che ha costituito il nucleo della vecchia educazione. Aggiungerò, che il campo dell'esperienza è molto ampio ed esso varia nel suo contenuto da luogo a luogo e da tempo a tempo. Un singolo corso di studi per tutte le scuole progressive è fuori discussione; significherebbe abbandono del principio fondamentale della connessione con le esperienze della vita. Di più, le scuole progressive sono di data recente. Esse non hanno avuto dietro di sé più di una generazione per svilupparsi. Era del tutto ovvio quindi che si verificassero incertezza e indeterminatezza nella scelta e nell'organizzazione della materia di studio. Non c'è ragione di far critiche a fondo o di dolersene troppo.

Le critiche sono invece legittime quando il movimento dell'educazione progressiva non riconosce che il problema della scelta e dell'organizzazione della materia d''insegnamento è fondamentale. L'improvvisazione che trae profitto dalle occasioni impedisce all'insegnare e all'apprendere di cadere in orme stereotipe e morte. Ma il materiale di studio fondamentale non può essere raccolto frettolosamente. Se c'è libertà intellettuale, non mancano le occasioni, che non sono e non possono essere previste. Ed esse devono essere utilizzate. Ma c'è una radicale differenza fra l'adoperarle lungo una linea di attività svolgentesi ininterrottamente e l'affidare ad esse il compito di fornire gran parte del materiale di studio.

Se una data esperienza non introduce in un campo non ancora familiare non sorgono problemi; i problemi difatti sono lo stimolo a pensare. Che le condizioni trovate nell'esperienza presente debbano essere adoperate come fonti di problemi è una caratteristica che differenzia l'educazione basata nell'esperienza dall'educazione tradizionale. In quest'ultima difatti i problemi erano posti dal di fuori. Tuttavia la crescita dipende dalla presenza di difficoltà da superare mediante l'esercizio dell'intelligenza. Ancora una volta, fa parte della responsabilità dell'educatore di tener presenti due cose ad un tempo: in primo luogo, che il problema nasca dalle condizioni dell'esperienza presente e si contenga entro il raggio della capacità degli alunni; in secondo luogo, che esso sia di tal natura da suscitare nell'educando una richiesta attiva di informazioni e da stimolarlo a produrre nuove idee. I nuovi fatti e le nuove idee che si ottengono in tal modo diventano la base per ulteriori esperienze che danno origine a nuovi problemi. Il processo è una spirale senza fine. L'insopprimibile vincolo del presente col passato è un principio la cui applicazione non si limita allo studio della storia. Prendete, per esempio, la scienza della natura. La vita sociale contemporanea è quel che è in gran parte in seguito ai risultati dell'applicazione della scienza fisica. L'esperienza di ogni ragazzo e di ogni giovane, in campagna e in città, è quel che è oggi, in virtù delle applicazioni che utilizzano elettricità, calore e processi chimici. Il bambino non mangia cibo che non implichi nella sua preparazione e nella sua assimilazione principi chimici e fisiologici. Non legge alla luce artificiale o non sale su un auto o su un treno senza imbattersi in operazioni e processi prodotti dalla scienza.

È buon principio educativo che gli alunni siano introdotti allo studio delle scienze e siano iniziati ai fatti ed alle leggi di esse muovendo dalle quotidiane applicazioni che la società ne vien facendo. L'attenersi a questo metodo è non soltanto il mezzo più diretto per intendere la scienza in sé, ma per l'alunno cresciuto in età è anche la via più sicura per sollevarsi alla comprensione dei problemi economici e industriali della società attuale. Questi difatti sono in larga misura il prodotto dell'applicazione della scienza alla produzione e alla distribuzione e alla distribuzione di beni e servizi, mentre queste ultime sono il fattore più importante nel determinare le presenti relazioni fra gli esseri umani e fra i gruppi sociali. È assurdo, allora, pensare che processi simili a quelli studiati in laboratori e in istituti di ricerca non siano una parte dell'esperienza della vita quotidiana dei ragazzi e non debbano quindi rientrare nell'ambito dell'educazione basata sull'esperienza. Che l'immaturo non possa studiate fatti e principi nel mondo in cui li studia l'adulto competente va da sé. Ma questo fatto, invece di esentare l'educatore dalla responsabilità di adoperare le esperienze presenti in modo da condurre gradualmente il discente, attraverso l'estrazione di fatti e di leggi, alla esperienza di ordine scientifico, gli pone uno dei problemi più importanti.
Poiché, se è vero che l'esperienza presente nei particolari e anche nel suo complesso è quel che è in virtù dell'applicazione delle scienze, in primo luogo, ai processi di produzione e di distribuzione dei beni e dei servizi, e poi alle relazioni sociali reciproche fra gli esseri umani, è impossibile imparare a comprendere le forze sociali (prima condizione per dominarle e dirigerle) senza una educazione che conduca i discenti alla conoscenza di quegli stessi fatti e principi che nella loro organizzazione finale costituiscono le scienze. Né l'importanza del principio che gli educandi dovrebbero essere familiarizzati con l'insegnamento scientifico vien meno per il fatto che si addentrano nei problemi della società presente. I metodi della scienza indicano quali misure e direttive possono condurre all'instaurazione di un ordine sociale migliore. Le applicazioni scientifiche che hanno prodotto in larga misura le condizioni sociali esistenti non hanno esaurito tutte le loro possibilità. Poiché finora la scienza è stata applicata più o meno casualmente e sotto l'influsso di fini come il vantaggio e la potenza privata, che sono retaggio delle istituzioni di un'età prescientifica.

Ci si ripete quasi ogni giorno e da molte parti che è quasi impossibile per l'essere umano dirigere intelligentemente la sua vita quotidiana. Ci dicono che, da un lato, la complessità delle relazioni umane, domestiche e internazionali, e dall'altro il fatto che gli uomini sono per lo più creature emotive ed abitudinarie, rendono impossibile di pianificare la società su larga scala e di affidare la direzione della nostra condotta all'intelligenza. Questo punto di vista sarebbe più accettabile se si fosse già tentato qualche sforzo sistematico, muovendo dalla prima educazione e salendo su su ininterrottamente sino allo studio e all'insegnamento dei giovani, per fare del metodo dell'intelligenza, che vediamo esemplificato nelle scienze, il metodo supremo dall'educazione. Non c'è nulla nella natura intrinseca dell'abitudine che impedisca al metodo intelligente di diventare esso stesso abituale; e non c'è nulla nella natura dell'emozione che impedisca all'emozione di subordinarsi al metodo.
Il caso della scienza è adoperato qui come un esempio della progressiva selezione della materia di studio, tratta dall'esperienza presente, verso l'organizzazione: un'organizzazione che è libera, non imposta dall'esterno, perché procede d'accordo con la crescita dell'esperienza stessa. L'utilizzazione della materia di studio tratta dall'esperienza della vita presente dell'alunno per avviarla alla scienza è forse il migliore esempio che si può addurre del principio fondamentale, che occorre usare l'esperienza esistente come mezzo per avviare il discente verso un mondo circostante, fisico e umano, più ampio, più purificato, meglio organizzato, di quel che si trova nelle esperienze da cui muove la crescita educativa. La recente opera di Hogben, Matematiche per le masse, mostra come la matematica, se la si considera specchio della civiltà e mezzo importante per il progresso di essa, può recare il suo contributo al fine desiderato non meno delle scienze fisiche. In ogni caso l'ideale che sta a fondamento di essa è la progressiva organizzazione della conoscenza. È probabilmente in riferimento all'organizzazione della conoscenza che possiamo trovare entrambe o le filosofie particolarmente attive. Nella pratica, se non con tanta abbondanza di parole, si tiene spesso per certo che siccome l'educazione tradizionale si basava su un concetto dell'organizzazione della conoscenza che disprezzava in modo quasi assoluto l'esperienza presente della vita, l'educazione fondata nell'esperienza della vita dovrebbe disprezzare l'organizzazione di fatti e idee.
Quando, poco fa, ho chiamato questa organizzazione un ideale, intendevo, da un punto di vista negativo, che l'educatore non può prendere le mosse dalla conoscenza già organizzata per distribuirla in pillole. Ma in quanto ideale il processo attivo di organizzazione di fatti e di idee è un processo educativo che non vien mai meno. Un'educazione che non tenda tanto a conoscere un maggior numero di fatti e ad accogliere un maggior numero di idee quanto a meglio ordinarli non è educativa. Non è vero che l'organizzazione è un principio estraneo all'esperienza. In questo caso l'esperienza sarebbe non meno dispersiva che caotica. L'esperienza dei ragazzi ha per centro le persone e la casa domestica. Il perturbamento dell'ordine normale delle relazioni familiari, come sanno gli psichiatri, è una fonte feconda, più tardi, di disordini mentali ed emotivi. Fatto questo che attesta quanto sia reale per i ragazzi questa forma di organizzazione. Uno dei grandi benefici della prima educazione scolastica nei giardini d'infanzia e nei primi gradi, si è ch'essa preserva il centro sociale ed umano dell'organizzazione dell'esperienza, impedendo che, come accadeva un tempo, il centro di gravità venga violentemente cambiato. Ma uno dei problemi più importanti dell'educazione, come della musica, è la modulazione. Nel caso dell'educazione, modulazione significa movimento da un centro sociale e umano verso un piano intellettuale più obbiettivo di organizzazione, tenendo però sempre fermo, che l'organizzazione intellettuale non è fine in sé ma è il mezzo con cui le relazioni sociali, legami e vincoli schiettamente umani, possono essere compresi e più intelligentemente ordinati.
Quando l'educazione è basata in teoria e in pratica sopra l'esperienza, va da sé che la materia del sapere organizzato dell'adulto e dello specialista non può costituire il punto di partenza. Rappresenta tuttavia la mèta verso la quale l'educazione dovrebbe muovere ininterrottamente. È appena necessario dire che uno dei principi fondamentali dell'organizzazione scientifica della conoscenza è il principio di causa ed effetto. Il modo in cui il principio è colto e formulato dallo scienziato specialista è certamente molto diverso da quello da cui lo può accostare nell'esperienza il ragazzo. Ma né la relazione né il suo significato sono estranei all'esperienza del ragazzo anche piccolo. Quando un bimbo di due o tre anni impara a non avvicinarsi troppo alla fiamma e tuttavia si avvicina alla stufa quanto basta per goderne il calore, egli coglie la relazione causale e se ne vale. Non c'è attività intelligente che non si conformi alle esigenze di questa relazione, ed essa è intelligente nella misura non soltanto in cui vi si conforma ma in cui vi si conforma consapevolmente.
Nelle prime forme di esperienza la relazione causale non si presenta in astratto, ma nella forma di relazione tra mezzi impiegati e fini raggiunti; nella forma della relazione di mezzi a conseguenze. Progresso nel giudicare e nell'intendere è essenzialmente progresso nell'abilità di fare propositi e di scegliere e ordinare mezzi per realizzarli. Le esperienze più elementari dei ragazzi sono riempite di casi di relazione di mezzi e conseguenze. Non c'è cottura di cibo o impiego di illuminazione che non sia un esempio di codesta relazione. L'inconveniente nell'educazione non è già però l'assenza di situazioni in cui la relazione causale è esemplificata nella relazione di mezzi e conseguenze. È invece piuttosto nell'incapacità, ancora troppo comune, di sfruttare le situazioni per condurre gli alunni a cogliere la relazione in quei determinati casi di esperienza. I logici chiamano "analisi e sintesi" le operazioni con cui sono scelti e organizzati i mezzi in relazione a un proposito.

Questo principio determina l'ultima fondazione per l'utilizzazione delle attività nella scuola. Nulla è più assurdo da un punto di vista educativo che insistere per una varietà di occupazioni attive nella scuola e nello stesso tempo screditare il bisogno di organizzazione progressiva della documentazione e delle idee. Attività intelligente è distinta dall'attività senza mèta per il fatto che implica una scelta di mezzi - analisi - attivi nella varietà di condizioni esistenti, e la loro sistemazione - sintesi - per conseguire uno scopo o un progetto che ha di mira. È ovvio che quanto più sarà immaturo il discente, tanto più semplici saranno i fini da perseguire e più rudimentali i mezzi impiegati. Ma il principio dell'organizzazione dell'attività nei termini di una certa percezione della relazione delle conseguenze ai mezzi vale anche per i piccolissimi. Altrimenti un'attività cessa di essere educativa perché è cieca. Col crescere della maturità, il problema della relazione reciproca fra i mezzi diventa più urgente. Nella misura in cui l'osservazione intelligente è trasferita dalla relazione di mezzi a fini al più complesso problema della relazione dei mezzi fra di loro, l'idea di causa ed effetto diventa preminente ed esplicita. La giustificazione finale del laboratorio, della cucina, e così via nella scuola non è già nel fatto che favoriscono questa specie di attività o l'acquisizione di quelle abilità meccaniche che avviano gli alunni a fare attenzione alle relazioni fra mezzi e fini, e quindi alla considerazione del modo in cui le cose interagiscono fra loro per produrre certi effetti. In principio si tratta della medesima ragione che giustifica l'esistenza di laboratori per la ricerca scientifica.
Se non si riuscirà a risolvere il problema dell'organizzazione intellettuale sulla base dell'esperienza, si verificherà certamente una reazione a favore dei metodi di organizzazione imposti dall'esterno. Ci sono già sintomi di questa reazione. Ci si dice che le nostre scuole, vecchie e nuove, falliscono nel loro compito fondamentale. Non sviluppano, si dice, il discernimento critico e la capacità di ragionare. L'attitudine a pensare, si aggiunge, è soffocata dal cumulo delle informazioni disparate mal digerite, e dalla pretesa di acquistare forme di perizia da operare immediatamente negli affari e nel commercio. Si afferma che questi guai derivano dall'influsso della scienza e dal soverchio peso dato alle esigenze del presente a scapito dello sperimentato retaggio culturale trasmessoci dal passato. Se ne deduce che la scienza ed il suo metodo debbono tenere un posto subordinato; che dobbiamo tornare alla logica dei principi primi quali sono formulati nella logica di Aristotele e di S. Tommaso, perché i giovani possano disporre di un saldo punto di appoggio nella loro vita intellettuale e morale, e non siano alla mercé di ogni soffio di brezza passeggera.
Se il metodo della scienza fosse stato adoperato con maggiore coerenza e continuità nel lavoro quotidiano della scuola, in tutte le materie, sarei maggiormente impressionato da questo appello appassionato. In fondo non vedo che due alternative fra cui l'educazione deve scegliere, se non vogliamo andare alla deriva senza mèta. L'una consiste nel tentativo di indurre gli educatori a ritornare ai metodi e agli ideali intellettuali che sorsero secoli e secoli prima che apparisse il metodo scientifico. L'esortazione a farlo può avere un successo temporaneo in un periodo in cui l'inquietudine generale, tanto sentimentale e intellettuale quanto economica, è al colmo. In queste condizioni risorge vivo il bisogno di affidarsi a una salda autorità. Tuttavia, esso è così estraneo a tutte le condizioni della vita moderna che considero stoltezza cercare la salvezza in questa direzione. L'altra alternativa é la sistematica utilizzazione del metodo scientifico considerato come modello ed ideale dell'intelligente esplorazione e sfruttamento delle possibilità implicite nella esperienza.
Il problema si pone con una forza particolare per le scuole progressive. Se non si dedica un'attenzione costante allo svolgimento del contenuto intellettuale delle esperienze e al conseguimento di un'organizzazione incessantemente crescente di fatti e idee, in fondo non si fa che rafforzare la tendenza all'autoritarismo intellettuale e morale. Non è questo né il momento né il luogo per approfondire la natura del metodo scientifico. Ma certi tratti di esso sono così strettamente legati con qualsiasi piano di educazione basato sull'esperienza che essi non possono non essere noti.

Anzitutto il metodo sperimentale della scienza dedica non minore, ma maggiore importanza alle idee in quanto idee di qualsiasi altro metodo. Non ci può essere quel che si dice esperimento in senso scientifico senza un'idea che diriga l'azione. Il fatto che le idee adoperate siano ipotesi e non verità definitive, è la ragione per cui le idee sono più gelosamente esaminate e verificate nella scienza che altrove. La ragione di esaminarle scrupolosamente cessa soltanto dal momento in cui sono accolte come verità. Come verità definitivamente fissate devono essere ricevute e non se ne parla più. Ma sino a che sono ipotesi devono essere costantemente soggette alla verificazione ed alla revisione. Il che implica che esse siano accuratamente formulate.

In secondo luogo, idee o ipotesi sono verificate dalle conseguenze che provoca la loro attuazione. Il che significa che occorre osservare con cura e discernimento le conseguenze dell'azione. Un'attività che non è arrestata per osservare quali sono le sue conseguenze può suscitare gioia per un momento. Ma intellettualmente non reca nessun frutto. Non fornisce conoscenza alle situazioni in cui si compie l'azione e non può condurre al chiarimento e alla espansione delle idee.

In terzo luogo, il metodo dell'intelligenza quale si manifesta nelle diverse tappe del procedimento sperimentale esige che si conservino tracce delle idee, delle attività e delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione riconsideri e compendi operazioni che comprendono tanto il discernimento quanto il ricordo dei tratti più significativi di un'esperienza in corso. Riconsiderare significa riesaminare retrospettivamente quel che è stato fatto in modo da estrarne i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l'intelligenza nelle esperienze future. È qui il cuore dell'organizzazione intellettuale e della disciplina mentale.
Sono stato costretto ad esprimermi in termini generali e spesso astratti. Ma quel che è stato detto è strettamente connesso con la seguente richiesta: le esperienze per essere educative devono sfociare in un mondo che si espande in un programma di studio, programma di fatti, di notizie e di idee. A questa condizione si soddisfa solo a patto che l'educatore consideri insegnare e imparare come un continuo processo di ricostruzione dell'esperienza. Questa condizione a sua volta può essere soddisfatta solo a patto che l'educatore guardi lontano dinanzi a sé, e consideri ogni esperienza presente come una forza propulsiva per le esperienze future. So che l'accento che ho posto sul metodo scientifico può dar luogo ad erronee interpretazioni; si può supporre che io intenda riferirmi alla tecnica speciale delle ricerche di laboratorio come è esercitata dalla gente del mestiere. Ma il risalto ch'io ho dato al metodo scientifico ha poco a che fare con le tecniche degli specialisti. Vuol significare soltanto che il metodo scientifico è l'unico mezzo autentico a nostra disposizione per cogliere il significato delle nostre esperienze quotidiane del mondo in cui viviamo. Vuol significare che il metodo scientifico offre un modello efficace del modo in cui e delle condizioni sotto le quali sono adoperate le esperienze per ampliare sempre più il nostro orizzonte. L'adattare il metodo agli individui di vari gradi di maturità è problema dell'educatore, e i fattori costanti del problema sono la formazione delle idee, operanti sulle idee, l'osservazione delle condizioni che ne risultano e l'organizzazione di fatti e idee per l'uso futuro. Né le idee, né le attività, né le osservazioni, né l'organizzazione sono le medesime per un individuo di sei, di dodici o di diciotto anni, per tacere dello scienziato adulto. Ma in tutti i gradi, se l'esperienza è effettivamente educativa si constata un processo d'espansione dell'esperienza. Ne consegue che, quale sia il grado della esperienza, non abbiamo altra scelta: o agire in conformità del modello ch'essa ci offre o trascurare la funzione dell'intelligenza nello sviluppo e nel controllo di un'esperienza vivente e propulsiva.



8. L’esperienza mezzo e fine dell'educazione

In quel che ho detto ho preso per concessa la solidità dal principio che l'educazione per conseguire i suoi fini così nei riguardi dell'alunno singolo come in quello della società, deve essere basata sull'esperienza della vita di qualche individuo. Non ho perorato a favore di questo principio né ho tentato di giustificarlo. I conservatori non meno dei radicali nell'educazione sono profondamente insoddisfatti della presente situazione dell'educazione presa nel suo complesso. C'è almeno fondamentale accordo fra persone intelligenti di ambedue gli indirizzi educativi. Il sistema educativo deve prendere l'una via o l'altra, o retrocedere ai principi intellettuali e morali di un'età prescientifica o avanzare verso un'utilizzazione sempre maggiore del metodo scientifico per promuovere le possibilità di un'esperienza in via d'accrescimento e di espansione. Mi sono limitato a mettere in rilievo qualcuna delle condizioni che devono essere assolte in modo soddisfacente, se l'educazione si pone per la seconda via.

Ho tale fiducia nelle capacità di un'educazione che sia diretta intelligentemente a sviluppare le possibilità implicite nell'esperienza ordinaria che non credo necessario criticare qui l'altro indirizzo né addurre argomenti a favore di chi prende la via dell'esperienza. C'è una sola eventualità in cui l'indirizzo ch'io propugno potrebbe fallire, che si concepiscano in modo inadeguato esperienza e metodo sperimentale. Non c'è nel mondo disciplina più severa della disciplina dell'esperienza assoggettata al controllo di uno svolgimento e di una direzione intelligente. Ne consegue che l'unico motivo di una temporanea reazione contro le norme, i fini e i metodi della nuova educazione non potrà essere che l'incapacità degli insegnanti che l'hanno adottata a interpretarla in modo fedele nella pratica della loro scuola. Come ho messo in risalto più di una volta, la via della nuova educazione non è più agevole dell'antica; essa è più penosa e difficile. E così rimarrà sino a che non avrà raggiunto la maggiore età e questa non sarà raggiunta se non dopo molti anni di seria e attiva collaborazione di tutti coloro che aderiscono ad essa. Il maggior pericolo, per il suo futuro, io credo sia l'idea che essa è una via agevole, così agevole che la si può improvvisare, se non all'istante, per lo meno di giorno in giorno, di settimana in settimana. Per questa ragione invece di celebrare i suoi principi, mi sono dedicato a mostrare talune delle condizioni che devono essere adempite, se essa deve ottenere il successo che ha diritto di aspettarsi.

Ho adoperato spesso nelle pagine precedenti le parole educazione "progressiva" o "nuova". Ma prima di chiudere desidero ricordare la mia ferma fede, che il punto essenziale non è già la contrapposizione di educazione nuova e vecchia, di educazione progressiva e tradizionale, ma il problema che cosa si deve fare perché il nostro fare meriti il nome di educazione. Non sono, spero e credo, favorevole a certi fini o a certi metodi semplicemente perché si possono denominare progressivi. Il problema fondamentale concerne la natura dell'educazione senza aggettivi. Quel che desideriamo e che ci occorre è l'educazione pura e semplice, e faremo progressi più sicuri e definitivi quando ci applicheremo a scoprire che cosa sia propriamente l'educazione e quali condizioni l'educazione cessi di essere un nome o uno slogan per diventare una realtà. Per questa ragione unicamente ho insistito sulla necessità di una solida filosofia dell'esperienza.





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