Da: https://pagineesteri.it - Marco Santopadre, giornalista, già direttore di Radio Città Aperta di Roma, è un analista dell’area del Mediterraneo, del Medio oriente e del Nord Africa. Collabora con il Manifesto, Catarsi e Berria. Scrive, tra le altre cose, di Spagna e movimenti di liberazione nazionale.
La competizione economica e geopolitica tra Stati Uniti e Cina sta scivolando sempre più velocemente verso il confronto sul piano militare.
Mentre la tensione si alza soprattutto intorno a Taiwan – la provincia ribelle di cui Pechino pretende la reintegrazione nel territorio nazionale – Washington rafforza le sue posizioni nel quadrante Indo-Pacifico dando vita ad una vera e propria tenaglia che accerchia la Repubblica Popolare dal Giappone fino all’Australia, passando per la Corea del Sud e le Filippine.
Al di fuori del proprio territorio nazionale Washington possiede, caso unico al mondo, circa 700 installazioni militari distribuite in 80 diversi paesi nei cinque continenti. Solo in Corea del Sud gli Stati Uniti possono contare su 56 mila soldati, ai quali occorre aggiungere i 25 mila dispiegati in Giappone.
Nelle ultime settimane, poi, gli Stati Uniti hanno rafforzato in maniera consistente la propria presenza nelle Filippine, suscitando la dura reazione di Pechino.
Per Washington quattro nuove basi militari nelle Filippine
All’inizio di aprile, il governo di Manila ha formalizzato l’ubicazione di altre quattro basi militari sul proprio territorio nelle quali le forze armate statunitensi potranno schierare le proprie truppe sulla base dell’Accordo di cooperazione militare rafforzata (Enhanced Defence Cooperation Agreement, Edca) siglato con Washington nel 2014 e dell’Accordo sulle forze in visita (Vfa) del 1998.
L’Edca, che i due paesi hanno informato di voler ulteriormente potenziare, consentiva già a un elevato numero di militari statunitensi di utilizzare cinque basi filippine per portare avanti varie attività e per realizzare piste di decollo, magazzini, alloggi ed altre infrastrutture. Washington, tra l’altro, aveva già annunciato lo stanziamento di 82 milioni di dollari per potenziare le infrastrutture nelle cinque basi già utilizzate, che formalmente rimangono sotto il controllo di Manila.
Poi, lo scorso 2 febbraio, i due governi hanno annunciato l’estensione dell’accordo dopo un incontro nella capitale filippina tra il presidente Ferdinando Marcos Jr e il segretario americano alla Difesa, Lloyd Austin.
Tre dei nuovi siti militari – situati a Isabela, Zambales e Cagayan – concessi alle truppe statunitensi si trovano nell’isola settentrionale di Luzon, a soli 400 km da Taiwan, e comprendono la base navale di Santa Ana e l’aeroporto di Lal-lo. La quarta infrastruttura militare invece si trova sull’isola di Balabac, nella provincia di Palawan, la più vicina all’atollo delle Spratly, al centro di un aspro contenzioso territoriale tra Cina e Filippine. Pechino infatti adduce rivendicazioni storiche per rivendicare la propria sovranità su quasi tutto il Mar Cinese Meridionale, pur essendo stata sconfessata nel 2016 dalla Corte permanente arbitrale dell’Aja (ONU) che ha dato ragione alle Filippine.
Nelle scorse settimane la tensione nell’area è tornata ad accendersi. Il 6 febbraio la guardia costiera delle Filippine ha accusato un’imbarcazione militare cinese, impegnata in un’operazione di pattugliamento, di aver puntato una “luce laser” contro l’equipaggio di un naviglio filippino nel Mar Cinese Meridionale, a circa 20 km dalle isole Spratly.
Il dietrofront di Manila
Durante il suo mandato, il discusso presidente Rodrigo Duterte aveva dato vita ad una svolta nelle relazioni internazionali, allontanandosi da Washington e stringendo maggiori relazioni con Pechino. Ma da quando è entrato in carica nel luglio del 2022 il nuovo presidente Ferdinando Marcos Jr (figlio dell’ex dittatore Ferdinando Marcos, deposto nel 1986) ha invertito la rotta ripristinando e sviluppando la tradizionale alleanza politica e militare con gli Stati Uniti.
D’altronde le Filippine sono state formalmente una colonia statunitense dalla fine del XIX secolo – quando furono cedute a Washington dalla Spagna dopo la sconfitta di quest’ultima in un conflitto diretto con gli USA – fino al 1946, per rimanere comunque nell’area di influenza della superpotenza. All’inizio degli anni ’90 si assistette a una forte riduzione della presenza militare statunitense nell’arcipelago, con il ritiro della maggior parte dei 15 militari presenti da decenni nelle due grandi basi di Clark Field e Subic Bay.
La situazione è cambiata con la firma dell’Accordo di cooperazione militare tra Manila e Washington del 2014 che ha permesso agli Stati Uniti di tornare a schierare un gran numero di truppe nell’arcipelago asiatico.
Washington: “contenere l’espansionismo della Cina”
«I nuovi siti rafforzeranno l’interoperabilità degli Stati Uniti e le forze armate filippine e ci consentiranno di rispondere assieme (…) a una serie di sfide condivise nella regione dell’Indo-Pacifico, inclusi i disastri naturali e umanitari”, ha dichiarato la vice portavoce del Pentagono Sabrina Singh, ma è più che ovvio che l’accordo risponde principalmente alla necessità di Washington di rafforzare il proprio dispositivo militare nella regione per contrastare l’influenza cinese.
Il comandante della Difesa delle Filippine, Carlito Galvez, ha messo le mani avanti, affermando che il patto militare che concede agli USA l’usufrutto a tempo indeterminato di quattro nuove basi punta esclusivamente a rafforzare la deterrenza. «La situazione geopolitica diventa sempre più precaria. I nostri progetti nell’ambito dell’Edca (…) non sono concepiti per l’aggressione. Non ci stiamo preparando per la guerra. Piuttosto, puntiamo a sviluppare le nostre capacità di difesa contro eventuali minacce alla nostra sicurezza».
Il capo di stato maggiore congiunto delle forze armate statunitensi, Mark Milley, è stato più sincero. La Repubblica Popolare, ha accusato il generale nel corso di un’audizione al Senato federale di Washington, «sta tentando di diventare la potenza regionale egemone (…) Per questo puntiamo ad accedere alle basi e alla supervisione, e siamo impegnati in un riposizionamento nel Pacifico occidentale». «I paesi della regione si stanno armando, e tutti, con rarissime eccezioni, vogliono la presenza degli Stati Uniti nella regione» ha affermato Milley citando l’acquisto di una flotta di sottomarini a propulsione nucleare da parte dell’Australia e la corsa agli armamenti intrapresa dal Giappone.
A rincarare la dose, nel corso di un’intervista alla Cnn, è stato l’ambasciatore USA a Tokyo, Rahm Emanuel. «Si guardi all’India, alle Filippine, all’Australia, agli Stati Uniti, al Canada o al Giappone. Negli ultimi tre mesi tutti questi Paesi hanno avuto un confronto di qualche tipo con la Cina. A Pechino non possono essere scioccati dal fatto che questi stessi Paesi assumano delle iniziative per proteggersi o per scoraggiare attacchi» ha accusato il diplomatico.
La reazione di Pechino
Ovviamente, il rafforzamento della presenza militare statunitense nelle Filippine ha suscitato la dura reazione del governo della Repubblica Popolare Cinese. A marzo una delegazione del Ministero degli Esteri di Pechino in visita a Manila ha avvertito che l’estensione dell’Edca «trascinerà il paese negli abissi del conflitto geopolitico e finirà col danneggiarne l’economia». Nel corso di una conferenza stampa, l’ambasciatore cinese a Manila Huang Xilian è stato ancora più esplicito quando ha affermato che le Filippine stanno soffiando sul fuoco delle tensioni regionali: «Ovviamente, gli Usa vogliono approfittare dei nuovi siti militari per interferire nella situazione nello Stretto di Taiwan, per perseguire i propri obiettivi geopolitici e portare avanti la propria agenda anti-cinese a spese della pace e dello sviluppo delle Filippine e della regione».
Esercitazioni congiunte tra USA e Filippine
La scorsa settimana le forze armate delle Filippine e degli Stati Uniti hanno realizzato le più massicce esercitazioni militari congiunte di sempre, mobilitando circa 17500 soldati di entrambi i paesi (di cui più di 12 mila statunitensi) più un centinaio di australiani, il doppio rispetto al 2022. Le imponenti manovre, denominate “Balikatan” (spalla a spalla), hanno simulato operazioni di sbarco anfibio e di combattimento aereo, includendo attività di addestramento a fuoco vivo. Nei giorni precedenti le forze armate cinesi avevano invece simulato, poche centinaia di km più a nord, attacchi missilistici e incursioni aeree contro obiettivi a Taiwan.
Contemporaneamente, alla fine di una riunione interministeriale – che ha coinvolto i titolari degli Esteri e della Difesa – tra Washington e Manila i due paesi hanno diffuso un comunicato congiunto in cui accusano Pechino di compiere alcune “manovre illegali” nel Mar Cinese Meridionale. A tal proposito, il presidente filippino Marcos Jr ha usato toni belligeranti: «Questo Paese non perderà un centimetro del suo territorio. Continueremo a difendere la nostra integrità territoriale e sovranità in conformità con la nostra Costituzione e con il diritto internazionale».
Nel corso della riunione gli Stati Uniti hanno formalizzato un piano volto alla consegna alle Filippine, nei prossimi anni, di radar, droni, aerei da trasporto militare e sistemi di difesa aerea e costiera.
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