Se siamo convinti che esiste un’unica strada per uscire dal capitalismo e dalla sua disumanità, dato che esso appare sempre più irriformabile e avvitato in una spirale devastante, dato che le terze vie sono tutte fallite, occorre riconquistare la nostra identità sbriciolatasi in numerose e debolissime varianti, che si fanno genericamente paladine del popolo, degli sfruttati, degli umili. Nonostante il marxismo abbia una storia complessa e contraddittoria, che bisognerebbe apprendere a fondo, il suo nucleo centrale sembra costituire ancora oggi, in un orizzonte alquanto diverso da quello ottocentesco, un’adeguata chiave interpretativa della società contemporanea: il concetto di classe e il suo derivato la lotta di classe. Basti un esempio. Numerosi marxisti hanno interpretato la fase neoliberale come il tentativo riuscito di una restaurazione di classe dinanzi alla crisi dell’accumulazione, che non poteva più tollerare il compromesso keynesiano tra capitale e lavoro del dopoguerra. E hanno anche collegato tale impresa socio-economica all’imposizione di ideologie elogiative dell’individualismo identitario, miranti alla frammentazione dei lavoratori, del resto già divisi e separati da barriere quali il sesso, l’appartenenza etnica, religiosa ecc. Ideologie che purtroppo hanno profondamente colonizzato la cosiddetta nuova sinistra, che le ha fatte proprie soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il ripudio dello stalinismo, facendosi affascinare dal culturalismo contrapposto in maniera binaria e semplicistica al volgare economicismo.
Due osservazioni su questi temi. Le barriere cui ho fatto cenno sono ovviamente superabili, se si recupera un elemento unificante e questo non può che essere l’appartenenza di classe, la cui “scoperta” non può che funzionare come punto di partenza per la costruzione di nuova coscienza senza la quale non si possono stabilire obiettivi e modalità di lotta comune. Seconda osservazione relativa al fallimento del socialismo sovietico, seppure a mio parere e di quello più autorevole del Che Guevara, si trattasse di un socialismo non compiuto e con inevitabili aspetti problematici. La fine dell’Unione Sovietica fu dovuta – come scrive lo storico Luciano Beolchi (La de-modernizzazione della Russia, p. 6, in “Alternative per il socialismo”, n. 64, 2022) – alla “crisi della transizione dal sistema socialista a quello di mercato non pianificato”; quindi non crisi del socialismo in sé, ma disarticolazione voluta e eterodiretta di un sistema economico sicuramente da riformare, ma certamente da non distruggere.
Ebbene, credo che in assenza, di tale gravosa e ardua ricostruzione di un’entità legata al marxismo, non abbia alcun senso, in particolare nell’attuale situazione italiana, dominata da una classe politica rozza e inconcludente, proporre un qualche sostegno politico a coloro che a prima vista ci appaiono “i meno peggio”, come per esempio i 5 Stelle o il PD apparentemente ringiovanito dalla nuova segretaria, Elly Schlein. E ciò per due ragioni fondamentali. In primo luogo, data la nostra inconsistenza numerica, politica, culturale, dovuta a numerosi fattori anche oggettivi, non saremmo in grado di esercitare nessuna pressione e finiremmo a livello individuale inghiottiti in logiche opportunistiche e carrieristiche, come è accaduto già molte volte. In secondo luogo, questo passo non ci consentirebbe di avvicinarci alle masse dato che – come è risultato già dalla recenti elezioni regionali caratterizzate da una straordinaria astensione – “chi è più povero non vota” e giustamente, perché sa che l’esito elettorale per lui non cambierebbe nulla.
Secondo Massimo Alberti e Simone Fana lo stesso meccanismo è individuabile nel voto che ha portato la Schlein alla segreteria del PD, la quale “ha potuto avvalersi di un pezzo di borghesia istruita, concentrato nel centro-nord e nelle aree urbane”. Settore che i diritti sociali già li possiede e che fantastica sul libertarismo e sull’eccentricità del “diverso”. La stessa Schlein ha osservato che l’astensione (alle ultime primarie ci sono stati 500.000 voti in meno rispetto alle precedenti) è direttamente proporzionale al reddito, proponendosi di conquistare questi astenuti poveri per ampliare il suo sostegno politico. Immagina forse che chi ha visto i servizi sociali devastati, concordi con lei che è necessario spendere al giorno più di 100 milioni di euro per sostenere la “democratica Ucraina”?
Inoltre, come interpretare le sue critiche, per esempio sul trattamento riservato ai poveri migranti, al governo Meloni? Sono sincere o tese a distinguersi in qualche modo, e alla parole seguiranno i fatti e quali? Purtroppo siamo abituati a troppe menzogne, a parole dette solo per emergere e conquistare magari qualche misero punto nei sondaggi.
Approfondendo l’interessante tema “chi ha votato per la Schlein?”, scopriamo un altro dato interessante e su cui riflettere: secondo la Noto Sondaggi metà di coloro che hanno votato per lei non è un elettore del PD e il 22% di questi alle ultime elezioni politiche aveva optato per il Movimento 5 Stelle. Sembrerebbe che questi ultimi siano quasi 242.000 sulmilione dei voti ricevuti dalla nuova segretaria. Mentre un altro sondaggio (Candidate & Leader Selection) evidenzia che ha anche ricevuto il 13% delle preferenze dal gruppo dei Verdi e Sinistra.
Ora è inutile tornare sull’ambiguità dei 5 Stelle, che hanno avuto a suo tempo un grande successo soprattutto nel meridione grazie al reddito di cittadinanza, cancellato dalla Meloni, e che sulla guerra tra NATO e Russia vacillano indecisi tra l’invio delle armi e l’apertura di negoziati (probabilmente se prendessero un’aperta posizione antioccidentale sparirebbero dall’orizzonte politico). C’è un aspetto che mi pare importante sottolineare e che riguarda anche personaggi più o meno sinistrorsi, come la stessa Schlein o come Nicola Fratoianni, il quale non giustifica la Nato per tutto quello che ha fatto, ma reputa Putin assai peggiore della prima. Questo aspetto – è decisivo rilevare – riguarda la natura delle loro analisi politiche, che non colgono mai la radice dei problemi, e del resto non sarebbe possibile, data la loro compromissione con il sistema dominante, che li gratifica con la posizione di cui godono. Si potrebbe dire che, rispetto a quelle spietate delle destre, sono maggiormente venate di buonismo per mantenersi in sintonia con l’attuale papa e il mondo cattolico. Nel caso della questione dei migranti, mai viene fatto riferimento alle reali origini del fenomeno che nei prossimi anni probabilmente riguarderà circa 700 milioni di persone al mondo, se si tiene conto anche di quelli che dal Sud fuggono verso gli USA per ragioni climatiche, ambientali, economiche. Talvolta qualcuno ricorda “le colpe dell’occidente”, senza precisi riferimenti per esempio all’implementazione del caos creato in medio oriente. Chi ci dice ancora che gli USA continuano a stare illegittimamente in Siria di cui rubano il petrolio e i prodotti agricoli?
Quanto all’attuale guerra per procura chi ci spiega le legittime preoccupazioni della Federazione Russa per la sua sicurezza? È evidente che le analisi dell’asinistra non solo non portano a nulla, ma – come si vede ogni giorno – rendono i problemi sempre più ardui e mettono sempre più a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’Europa. E allora che senso ha avvicinarsi, sia pure con tutte le cautele, a questi politici impreparati, oscillanti che si schierano solo per mantenere lo status quo?
Recentemente è un uscito un breve ma denso articolo di Vladimiro Giacchè intitolato Quattro priorità per rilanciare il marxismo in occidente (“Marx XXI”, n. 3/2022), in cui prende le mosse dalla dissoluzione dell’URSS e dalla gravissima crisi del marxismo; fenomeni che, tuttavia, sono stati seguiti a breve termine dall’aumento delle criticità del capitalismo, che agli occhi di molti ha perso il suo appeal ed è stato delegittimato.
Riprendendo la classica opposizione tra marxismo occidentale e marxismo orientale, Giacchè scrive che nel nostro emisfero sarebbe opportuno si sviluppasse – come era un tempo e come avviene in Cina – “un rapporto organico tra pensiero marxista e prassi politica”, considerando il primo da un punto di vista olistico, senza rinnegare acriticamente le esperienze socialiste del passato (v. supra Beolchi), e operando per un profondo rinnovamento della nostra tradizione. Altri elementi che mi sembrano importanti, presenti nell’articolo su menzionato, sono l’importante constatazione – fatta da Deng Xiaoping e da Walter Ulbricht – che il socialismo costituisce un periodo storico lungo e complesso da costruire. Opinione sostenuta anche dal Che Guevara che rimarcava la dimensione etica del socialismo e la necessità di dar vita a “un uomo nuovo”, del tutto diverso dall’unilaterale homo oeconomicus. Infine, per combattere le concezioni economiche dominanti, il filosofo italiano ritorna sulla “centralità della lotta di classe” – tema da cui siamo partiti – rispetto ad altre contraddizioni come la questione ecologica o quella tanto propagandata dei diritti civili.
Purtroppo i contesti orientale e occidentale (ammesso che valga questa abusata parola) sono assai differenti e da noi, se operano ancora importanti e raffinati studiosi marxisti, un movimento di classe è tutto da ricostruire. Non se ne vedono neppure le avvisaglie, tranne in Francia e in Inghilterra dove il movimento è ancora troppo legato a questioni sindacali, ma che certamente potrebbe evolvere.
Infine, sempre nella prospettiva di auspicare un netto ritorno alle questioni di classe, vorrei citare un bell’articolo di Raul Mordenti dedicato a Il concetto di “popolo” in Gramsci e il “populismo”, nel quale l’autore mette correttamente in luce l’estraneità di questa categoria dalla riflessione di Marx e di Lenin, mentre è presente nella Rivoluzione francese ed è – aggiungiamo noi – stancamente ripreso da tutti quei politici di destra e della meglio definibile asinistra, quando vogliono suscitare una qualche emozione popolare.
Sempre seguendo l’analisi di Mordenti, nell’opera di Gramsci il concetto di popolo riconquista il suo posto nella lotta politica e ideologica, così come è centrale anche nel pensiero di Mao, che considera il popolo la forza motrice della storia. Ed è inteso in entrambi i casi in maniera precisa: “popolo significa la classe operaia e i suoi alleati”, ossia i protagonisti di quel blocco sociale (ancora le classi) che per l’autore sardo avrebbe dovuto intraprendere la grande trasformazione sociale. Ora, mi pare, oggi tale blocco sociale sia nell’occidente capitalistico improponibile per la mancanza della materia prima (i contadini), largamente presenti invece in America Latina dove non a caso Gramsci continua a godere di grande successo. Nel mondo altamente industrializzato le aziende agricole hanno bisogno di scarsa manodopera.
Complessivamente oggi abbiamo a che fare con 3 miliardi e 300 milioni di salariati con diversissimi rapporti di lavoro (dai 15 anni in su), frantumati, divisi e talvolta anche in contrasto tra loro, molti dei quali nel lavoro informale senza nessuna protezione sociale (2 miliardi nel 2022), tuttavia spesso non distinguibili per condizioni economiche e per livello culturale dai ceti professionali e intellettuali profondamente declassati. E dagli anni Ottanta nei paesi a capitalismo avanzato, come l’Italia, è diminuito il numero dei lavoratori nell’industria, nel commercio e nell’agricoltura, dove lavorano circa un milione di persone, spesso non italiane, mentre è aumentato quello nei servizi; una tendenza che negli USA è apparsa già negli anni Cinquanta.
I processi che hanno caratterizzato la forza lavoro complessiva mondiale sono la sua sottoutilizzazione, la riduzione dei salari e quindi l’inevitabile impoverimento, il peggioramento delle condizioni lavorative e di vita, l’aumento della disoccupazione, la diminuzione della quota globale del reddito da lavoro. Naturalmente è riscontrabile una grande variabilità a seconda del continente di appartenenza, ragione per la quale oggi ci sono ancora 608 milioni di aziende agricole a conduzione familiare in feroce lotta con le grandi aziende mondiali che sfruttano il 70% dei terreni coltivabili.
Mi sembra che anche questi dati sommari ci dovrebbero spingere verso una riformulazione del blocco sociale su cui fondare la nostra strategia politica, tenendo conto pure del fatto che, per le grandi trasformazioni sociali degli ultimi anni, la cultura dei subalterni non è più rappresentata dal mitico e per tanti versi apprezzabile folclore, concezione nata dallo “spirito di scissione” rispetto alle classe dominanti, come sosteneva Gramsci. In molti casi essa è entrata nel mondo dello spettacolo e del turismo, e quindi è stata snaturata, oppure non è più creazione autonoma e significativa del “popolo”, ma prodotto del complesso imprenditoriale e dominato dai mass media e dai social.
Concludendo, credo che anche il “popolo” di Gramsci sia scomponibile nelle classi – come vien fatto mirabilmente nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte – mentre il “popolo” del populismo si oppone a questa disgregazione, perché dietro di esso sta il fragile capitalismo nazionale che ha bisogno di unità e di coesione, per tentare di resistere alla vorticosa onda del capitale transnazionale, che mira alla sua spoliazione e alla centralizzazione.
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