Si è utilizzata questa edizione: Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1955, sesta edizione, p. xv + 203. I saggi che compongono questo volume furono scritti da Gramsci nel 1930, in uno dei primi Quaderni del carcere, e poi ritrascritti con alcuni ritocchi e modificazioni. Attualmente sono raccolti in: Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 2014, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Giarratana, pp. LXVIII + 3370.
RIASSUNTO
L’intellettuale organico
Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo
sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali? Il problema è complesso,
perché il processo storico reale di formazione delle diverse categoria di intellettuali ha
assunto finora due forme diverse. Abbiamo innanzitutto gli intellettuali “organici”, che
sono espressione della classe sociale dominante. Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno
originario di una funzione essenziale della produzione economica, sviluppa come proprio
organo un ceto intellettuale che gli dà omogeneità e consapevolezza della propria funzione
storica non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico.
Per fare un esempio, l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo
scienziato dell’economia politica, l’organizzatore di una nuova cultura e di un nuovo diritto.
Occorre notare che l’imprenditore possiede già una certa capacità intellettuale, di tipo
dirigenziale e tecnico. Egli deve avere una certa capacità tecnica non solo nella sfera
circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, ma anche in altre sfere, almeno in quelle
più vicine alla produzione economica: dev’essere un organizzatore di masse d’uomini;
dev’essere un organizzatore della “fiducia” dei risparmiatori nella sua azienda e dei
compratori della sua merce.
Se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere anche una capacità di
organizzatore della società in generale, compreso l’organismo statale, per la necessità di
creare le condizioni più favorevoli all’espansione della propria classe. O quantomeno deve
possedere la capacità di scegliere i “commessi”, cioè degli impiegati specializzati cui
affidare questa attività organizzatrice dei rapporti esterni all’azienda.
Gli intellettuali come ceto autonomo
Anche i signori feudali erano detentori di una particolare capacità tecnica, quella militare,
ed è appunto dal momento in cui l’aristocrazia perde il monopolio della capacità tecnicomilitare
che inizia la crisi del feudalesimo. La categoria intellettuale organicamente legata
all’aristocrazia fondiaria è però quella degli ecclesiastici, che era equiparata giuridicamente
all’aristocrazia, di cui divideva l’esercizio della proprietà feudale della terra e l’uso dei
privilegi legati alla proprietà. La massa dei contadini, pur svolgendo una funzione essenziale
non elabora però propri intellettuali “organici”, anche se dalla massa dei contadini gli altri
gruppi sociali traggono molti dei loro intellettuali.
Queste varie categorie di intellettuali tradizionali possono però sentire con “spirito di
corpo” la loro ininterrotta continuità storica e la loro qualifica. Essi si pongono così come
autonomi e indipendenti dal gruppo sociale dominante. Questa auto-posizione ha delle
conseguenze di vasta portata nel campo ideologico e politico. Così come il papa e l’alta
gerarchia della Chiesa si credono più legati a Cristo e agli apostoli di quanto non lo siano
agli esponenti della classe dominante, allo stesso modo gli attuali esponenti della filosofia
idealista, come Gentile e Croce, sono l’espressione di questa utopia sociale per cui gli
intellettuali si sentono indipendenti, autonomi, più legati ad Aristotele e a Platone che agli
esponenti dalla classe sociale dominante: ma in realtà il Croce non nega di essere legato ai
senatori Agnelli e Benni, e in ciò è appunto da ricercare il carattere più rilevante della sua
filosofia.
I caratteri specifici degli intellettuali
Qual è il criterio per distinguere le attività intellettuali dalle altre? Non bisogna guardare
agli aspetti intrinseci dell’attività svolta, quanto ai rapporti sociali che gli intellettuali
intrattengono con il resto della società. Infatti in qualsiasi lavoro, sia in quello puramente
meccanico dell’operaio sia in quello dell’imprenditore, esiste un minimo di qualifica tecnica, cioè di attività intellettuale creatrice. In senso lato, i non-intellettuali non
esistono, perché non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento
intellettuale. Non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens perché, al di fuori della
sua professione specifica, ognuno è a suo modo «un filosofo, un artista, un uomo di gusto,
partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale,
quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare
nuovi modi di pensare» (p. 6-7).
Quando si distingue tra intellettuali e non-intellettuali ci si riferisce in realtà alla loro
funzione sociale. Si potrebbe dire che tutti gli uomini sono intellettuali, ma non tutti gli
uomini hanno nella società la funzione di intellettuali. Se non svolge una funzione politica
e sociale, l’intellettuale rimane solo uno specialista. Egli diventa un membro “dirigente” nel
momento in cui aggiunge una funzione politica a quella di specialista. La creazione di un
nuovo ceto intellettuale richiede quindi di elaborare criticamente l’attività intellettuale che
in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, per farne un’attività pratica generale
finalizzata a innovare perpetuamente il mondo fisico e sociale, e a diventare il fondamento
di una nuova e integrale concezione del mondo.
L’intellettuale tradizionale e l’intellettuale moderno
L’intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l’artista e perciò i giornalisti, che
ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali.
Nel mondo moderno, tuttavia, è la formazione tecnica strettamente legata al lavoro
industriale che deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale. Il successo del
settimanale L’Ordine Nuovo si deve non poco al lavoro svolto per delineare questo nuovo
concetto di intellettuale. La sua impostazione corrispondeva evidentemente ad aspirazioni
latenti ed era conforme alle esigenze della vita reale. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza,
motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni. Egli deve essere un
costruttore, un organizzatore, un persuasore che si mescola attivamente alla vita pratica.
Dalla tecnica-lavoro deve arrivare alla tecnica-scienza e infine a una concezione umanistica
storica, senza la quale rimane specialista e non diventa dirigente.
La scuola è lo strumento da cui nascono gli intellettuali di vario grado. Così come
l’industrializzazione di un paese si misura dalle sue macchine e attrezzature sempre più
complesse e precise, analogamente la complessità della funzione intellettuale nei diversi
Stati si misura dalla quantità delle scuole specializzate e dalla loro gerarchizzazione: quanto
più è estesa l’area scolastica e quanto più numerosi i gradi verticali della scuola, tanto è più
complesso il mondo culturale, la civiltà, di un determinato Stato.
I diversi tipi di scuole, classiche e professionali, e le diverse aspirazioni dei ceti sociali
determinano o danno forma alla produzione dei diversi rami di specializzazione
intellettuale. Così in Italia la borghesia rurale produce specialmente funzionari statali e
liberi professionisti, mentre la borghesia cittadina produce tecnici per l’industria. Perciò
l’Italia meridionale produce specialmente funzionari e professionisti, l’Italia settentrionale
specialmente tecnici.
Anche nella produzione intellettuale, tuttavia, la quantità non può scindersi dalla qualità.
La necessità di creare la più larga base possibile per la selezione delle più alte qualifiche
intellettuali, di dare cioè alla cultura e alla tecnica superiore una struttura democratica, non
è senza inconvenienti. Si crea infatti la possibilità di vaste crisi di disoccupazione degli strati
medi intellettuali, come avviene di fatto in tutte le società moderne.
Nel mondo moderno la categoria degli intellettuali si è infatti ampliata in modo inaudito. Il
sistema sociale democratico-burocratico ha generato delle masse imponenti, non tutte
giustificate dalle necessità sociali della produzione, anche se giustificate dalle necessità politiche del gruppo fondamentale dominante. Queste masse di lavoratori
improduttivi sfruttano la loro posizione per farsi assegnare taglie ingenti sul reddito
nazionale. La formazione di massa ha standardizzato gli individui dal punto di vista della
qualifica individuale e delle psicologia, determinando gli stessi fenomeni di tutte le altre
masse standardizzate: sovrapproduzione scolastica, eccesso di concorrenza che pone la
necessità di organizzazioni professionali di difesa, disoccupazione, emigrazione e così via.
La lotta per l’egemonia culturale
Si formano così storicamente delle categorie specializzate per l’esercizio della funzione
intellettuale, in connessione con tutti i gruppi sociali ma specialmente con quello
dominante. Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l’egemonia politica,
tende a conquistare alla propria ideologia l’intellettuale tradizionale mentre, nello stesso
tempo, forma i propri intellettuali organici. Si può affermare che la lotta per l’assimilazione
e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali condotta dal gruppo sociale che
tende all’egemonia è tanto più rapida ed efficace, quanto più questo gruppo elabora
simultaneamente i propri intellettuali organici.
L’organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo
sociale cui essi fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civile, cioè l’insieme degli
organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all’acquisizione
del consenso, quanto nella società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando
che si esprime nello Stato e nel governo giuridico.
Gli intellettuali sono così “i commessi” del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni
finalizzate alla conquista dell’egemonia sociale e del governo politico. Gli obiettivi sono
due: da un lato, il consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione
all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; dall’altro
l’apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono né attivamente né passivamente. Il consenso “spontaneo” nasce
storicamente dal prestigio e dalla fiducia derivante al gruppo dominante dalla sua posizione
e dalla sua funzione nel mondo della produzione. L’apparato di coercizione statale è invece
costituito per tutta la società in previsione dei momenti di crisi nel comando e nella
direzione, quando il consenso spontaneo viene meno.
Il ruolo del partito politico
All’interno dell’apparato politico lo Stato tende a trasformare gli intellettuali tradizionali in
propri intellettuali organici. Nella società civile la stessa funzione viene svolta dai partiti
politici, i quali elaborano «i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e
sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti,
organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società
integrale, civile e politica» (p. 12). All’interno di un partito politico questa saldatura avviene
anzi ancor più compiutamente e organicamente che nello Stato. Un intellettuale che entra
a far parte del partito politico di un determinato gruppo sociale, infatti, si confonde e si
lega strettamente con gli intellettuali organici del gruppo stesso, assai di più di quanto
avviene con la partecipazione alla vita statale.
Tutti i membri di un partito politico devono essere considerati intellettuali, anche se questa
affermazione può prestarsi allo scherzo e alla caricatura. Vi sono certamente distinzioni di
grado, ma non è questo che importa. Il punto è che in un partito tutti svolgono una funzione
direttiva, organizzativa, educativa e quindi intellettuale. Un commerciante non entra a far
parte di un partito politico per fare del commercio, né un industriale per produrre di più e
a costi minori, né un contadino per apprendere nuovi metodi per coltivare la terra, dato
che per questi scopi, entro certi limiti, esiste il sindacato professionale. Nel partito politico
gli elementi di un gruppo socio-economico vanno oltre questo aspetto per diventare agenti
di attività generali, di carattere nazionale o internazionale.
La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani
La formazione storica degli intellettuali tradizionali è il problema storico più interessante.
Roma attirò i migliori intellettuali di tutto l’impero, dando inizio a quella categoria di
intellettuali “imperiali”, che continuerà nel clero cattolico e lascerà tante tracce nella storia
degli intellettuali italiani, con la loro caratteristica di cosmopolitismo fino al XVIII secolo. Il
fatto centrale dell’Italia è appunto la funzione internazionale o cosmopolita dei suoi
intellettuali, che è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola
dalle invasioni barbariche fino al 1870.
Dopo la caduta dell’impero romano, l’uso del latino come lingua dotta è legato al
cosmopolitismo cattolico. Si verifica una frattura fra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo
e la cultura. I libri religiosi sono scritti in latino, così che anche le discussioni religiose
sfuggono al popolo. Della religione il popolo vede i riti e ascolta le prediche, ma non può
seguire le discussioni e gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta. In Italia dal
600 d.C., quando si può presumere che il popolo non comprendesse più il latino dei dotti,
fino al 1250, quando comincia la fioritura del volgare, cioè per più di seicento anni, il popolo
non comprende i libri e non può partecipare al mondo della cultura.
Il fiorire del Comuni dà sviluppo alle lingue volgari e l’egemonia intellettuale di Firenze dà
unità al volgare, cioè crea un volgare illustre, che è fiorentino di vocabolario e di fonetica,
ma latino di sintassi. La vittoria del volgare sul latino non sarà facile, perché i dotti italiani,
eccettuati i poeti, scrivevano per l’Europa cristiana e non per l’Italia. Erano cioè una
concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali.
La caduta dei Comuni e l’avvento delle Signorie, con la creazione di una casta di governo
staccata dal popolo, cristallizza questo volgare. Dopo la breve parentesi delle libertà
comunali, in cui c’è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari e borghesi, c’è un
riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale. Nei secoli successivi la Chiesa contribuisce ulteriormente alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in
due modi: positivamente, come organismo universale che prepara il personale a tutto il
mondo cattolico; negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali che non
vogliono sottomettersi alla disciplina controriformistica.
Nel ‘700 il cosmopolitismo degli intellettuali italiani è in funzione di una particolare
posizione che viene attribuita all’Italia rispetto agli altri paesi, in quanto l’Italia è concepita
come complementare alle altre nazioni, come produttrice di bellezza e di cultura per tutta
l’Europa. Per molti secoli, dunque, l’Italia ebbe quindi una funzione internazionale europea.
Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non
nazionali. Uomini di stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un
carattere nazionale ma cosmopolita. Non vi è ragione di pensare che questo debba
diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata, e
non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori. Avere una funzione europea: ecco il
carattere del “genio” italiano dal ‘400 alla Rivoluzione francese.
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