martedì 2 dicembre 2014

Danaro, lavoro, macchine in Hegel - Remo Bodei

Vedi anche:  http://www.filosofia.it/argomenti/danaro-lavoro-macchine-in-hegel


Il modello hegeliano di sistema quale «circolo di circoli» - che non è chiusura al nuovo, ma piuttosto la sua costante assimilazione per espansione e ritorno in sé - ha il suo fondamento analogico nella natura del danaro. La circolarità del sistema è, infatti, un ininterrotto processo di «arricchimento», analogo alla «ricchezza circolante», la quale aumenta ogni volta la sua massa in proporzione alle dimensioni già raggiunte, inglobando il concreto, attraverso contraddizioni che non sembrano attualmente trovare una soluzione. 

Tale arricchimento del pensiero, mediante ‘circolazione allargata’ è anche storicamente lo schema di sviluppo economico e politico di tutta la civilisierte Welt, poiché tutti i fenomeni più diversi hanno la radice comune nello Zeitgeist che ha «dato l’ordine di avanzare» e di ingrandire le proprie forze. Ormai «la morta ricchezza esiste ora solo nei tesori dei Cosacchi, dei Tartari; nel mondo civilizzato si tratta della ricchezza circolante», che, tuttavia, si distribuisce in maniera estremamente disuguale: «Nella stessa proporzione in cui si accresce la ricchezza, si accresce pure la miseria, se non si provvede a deviarla diversamente tramite ad esempio la colonizzazione». 

Uno dei meriti maggiori della Rivoluzione francese, con l’abolizione del feudalesimo, è stato appunto per Hegel l’impulso dato alla proprietà e alla ricchezza circolanti, sia pure all’interno di laceranti contraddizioni. La dialettica del «danaro» e del «Kapital» si presenta in forma assai articolata nelle                                                   Vorlesungen über Rechtsphilosophie del periodo berlinese. 

Hegel descrive qui – in maniera quasi dickensiana –un’economia contraddistinta dall’elevatissima concentrazione della ricchezza in poche mani e dal conseguente crearsi di una immensa massa di lavoratori poveri o disoccupati, esseri umani sospinti dalla miseria più spaventosa nell’umiliazione e nell’abbrutimento, una situazione alla quale gli Stati cercano inutilmente di porre rimedio con dei «palliativi», come l’emigrazione nelle colonie. Di fonte a un simile spettacolo, Hegel giunge a dire che l’estrema povertà rende lecito, a chi la subisce, anche il furto finalizzato alla propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto dell’epoca è quindi per lui connesso, oltre che alla «farsa» della Restaurazione, all’insolubilità di conflitti come questi, che la filosofia deve indagare con i suoi grandi occhi di civetta. 

Il danaro e le banche appaiono ora come strutture portanti non solo della vita economica, ma anche della vita politica delle nazioni: «Poiché il danaro è il grande mezzo, il ceto commerciale è ora tanto legato alla politica. Esso è, cosi, particolarmente occupato con i bisogni dei diversi Stati in quanto corpi politici, e il commercio del danaro, le banche, ha ottenuto questa grande importanza [...]; dato che gli Stati hanno bisogno di danaro per i loro interessi, essi dipendono da questa circolazione di danaro (Geldverkehr) in sé indipendente». Nel periodo che precede immediatamente la Rivoluzione di luglio — che avrebbe visto i Laffitte, i Périer e i Rothschild assumere anche il controllo del potere politico — non era sfuggito a Hegel il fatto nuovo che il danaro, in veste di potenza astratta e «indipendente», limitava nella sua assolutezza persino la sovranità di quel dio terreno, di quel «geroglifico della ragione» che è lo Stato. Del resto, a prescindere dalla traduzione filosofica compiuta da Hegel con acutezza di questi temi, essi non erano poi tanto reconditi per un contemporaneo del primo Balzac, per un amico di banchieri e di uomini d’affari, quali Beer e August Friedrich Bloch, per un conoscitore attento, attraverso i giornali e attraverso Cousin, della grande politica londinese o parigina, per un frequentatore del salotto di Rahel, la signora Varnhagen von Ense, dove si discuteva di economia politica e di saint-simonismo. È l’abitudine consolidata a vedere Hegel come filosofo «puro» che fa guardare ancora a questa sua tematica con l’occhio rivolto a semplici «precorrimenti» di Marx, mentre in realtà si tratta di problemi ampiamente dibattuti (in quell’epoca ‘prosaica’ seguita alla caduta del mito eroico napoleonico), che Hegel ha comunque saputo cogliere «nel pensiero». 

Il Kapital, oltre a possedere questa capacità di dettare legge ai governi, ha anche la mirabile capacità di crescere per forza propria, di sconfiggere i concorrenti più deboli e di costringere gli operai a lavorare a salari più bassi: «Quanto più grande è il capitale, più grandi sono le imprese che si possono condurre a termine, ed il possessore del capitale può accontentarsi di un profitto minore, per cui il capitale viene di nuovo ingrossato [...] In una situazione di grande miseria, il capitalista trova molta gente che lavora per un salario minore e ciò ha, a sua volta, come conseguenza che i capitalisti più piccoli cadono in miseria». La «logica» del capitale è un circolo di espansione, di lievitazione dialettica, ma non è facile entrare dentro di esso, né è facile lo sviluppo se non si è raggiunto un certo grado quantitativo. Infatti, tale logica si riassume nella proposizione hegeliana: «A chi ha, vien dato», e, per converso, a chi ha poco, anche questo poco vien tolto. La ricchezza si alimenta della povertà dei più: «La ricchezza, come ogni massa, diventa forza. L’accumulazione della ricchezza si verifica in parte per caso, in parte per l’universalità prodotta dalla divisione. È un punto magnetico in un modo tale che esso getta il suo sguardo su tutto il resto e lo raccoglie in sé — come una massa grande attira a sé la massa più piccola. A chi ha già, a questo vien dato. Il guadagno diventa un sistema multilaterale, che dà profitto da tutti i lati, che un’impresa più piccola non può utilizzare». Inoltre: «Chi ha capitale, può guadagnare. Questa però è soltanto la condizione di base, l’elemento principale è costituito dall’abilità. Ma essa, a sua volta, è condizionata dal capitale, poiché [per conseguirla] ci vogliono spese, da investire solo sul soggetto, senza che nel frattempo questi produca dapprima qualcosa di scambiabile (ein Vertauschbares)». 

L’avanzare della ricchezza e del capitale avviene — come è noto anche dalla Filosofia del diritto del 1821 — attraverso immani rivolgimenti sociali e la condanna di grandi masse d’uomini all’abbrutimento, alla «ribellione interiore» e al risentimento della povertà. L’introduzione delle macchine ha provocato, da un lato, un vertiginoso aumento della produzione, dall’altro l’ottundimento spirituale del lavoro di fabbrica, i bassi salari e la disoccupazione. Tuttavia, per Hegel, non si può tornare indietro a improbabili stati di natura, a «robinsonate», né si può utopisticamente immaginare una qualche soluzione immediata, bisogna accettare le contraddizioni e trovare una soluzione che passi attraverso di loro: Hic Rhodus, hic salta!. Certo, la miseria generata dal capitale e dall’industria è impressionante: «Non possiamo neppure immaginare come a Londra, questa città infinitamente ricca, siano spaventosamente grandi indigenza, miseria, povertà. Accrescendosi, la ricchezza si concentra in poche mani; e una volta verificatasi questa differenza per cui grossi capitali sono in poche mani, ciò permette di guadagnare vendendo a prezzi più bassi di quelli consentiti da un capitale più ridotto, sicché la differenza diviene sempre più grande». Gli operai se la prendono con le macchine e le spaccano: «in Inghilterra sono [state] in parte distrutte da operai disoccupati (brodtlose Arbeiter); ma gli uomini potrebbero essere utilizzati per qualcosa di meglio che non per le operazioni che sono in grado di svolgere le macchine». 

Il fatto è, però, che il lavoro, una volta ricondotto a poche operazioni semplicissime, secondo la scissione imposta dall’«intelletto», non richiede più uomini, ma soltanto macchine: «Non appena il lavoro è diventato del tutto semplice, astratto, allora si può sostituire l’uomo con le macchine. L’Inghilterra avrebbe bisogno di molte centinaia di migliaia di uomini per sostituire il lavoro delle macchine. Gli operai, soprattutto gli operai di fabbrica, che perdono il loro sostentamento a causa delle macchine, divengono facilmente scontenti, e bisogna necessariamente schiudere loro nuovi settori». Hegel sembra adombrare molto cautamente l’ipotesi che il lavoro delle macchine (dato che aumenta il prodotto sociale complessivo, pur sacrificando i singoli) possa essere alla fine uno strumento di liberazione, nel senso che le macchine potrebbero svolgere quei compiti per i quali l’uomo è sprecato e gli uomini potrebbero fare «qualcosa di meglio»: «L’industria sarà certo abbandonata spontaneamente, ma col sacrificio di questa generazione e l’accrescimento della povertà». Passato un determinato periodo, presumibilmente non limitato a «questa generazione», sarà forse lecito liberarsi dagli effetti negativi, individuali e sociali, dell’industrializzazione e del lavoro meccanico: «Inoltre, l’astrazione del produrre rende il lavoro sempre più m e c c a n i c o e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia rimosso e possa essere introdotta, al suo posto, la m a c c h i n a ». 

Ma attualmente, questa soluzione è prematura e la difficoltà di trovare uno sbocco nel presente alle contraddizioni spinge verso l’ottativo o il passato remoto: «L’orripilante descrizione della miseria, la quale impedisce la soddisfazione dei bisogni, la troviamo particolarmente in Rousseau e in alcuni altri. Si tratta di uomini profondamente colpiti dalla miseria del loro tempo, del loro popolo, di uomini che conoscono profondamente ed espongono in modo commovente la corruzione etica che ne deriva, la rabbia, la ribellione degli uomini per la loro miseria, per la contraddizione fra ciò che essi sono in grado di pretendere e la condizione in cui si trovano, la esasperazione per tale contraddizione, la vergogna per questa situazione e con ciò l’interna amarezza, la cattiva volontà che ne scaturisce. Tutto questo è causato veramente dalla società civile (bürgerliche Gesellschaft), e, nella ribellione contro tutto ciò, quegli spiriti, che pensavano e sentivano profondamente, l’hanno rifiutata e son passati ad un altro estremo. Essi non hanno visto altra salvezza in quanto tale che nell’abbandonare interamente un sistema (ein System ganz aufzugeben) e, giacché non potevano negare i vantaggi della società civile, hanno ritenuto più vantaggioso sacrificarla interamente e ritornare ad una situazione che sia senza bisogni così molteplici, ad uno stato di natura come quello dei selvaggi del Nord-America, presso i quali la miseria e l’infelicità non può aver luogo così». Non si sono accorti che non è più possibile tornare indietro e che, anzi, persino quelle zone residue di naturalità e di limitazione dei bisogni stanno per essere travolte da un «sistema» economico che ha necessità di non lasciare fuori di sé il diverso non assimilato, di espandersi se non vuol morire, un sistema che è costretto ad «avanzare»: Esso deve artificialmente svegliare i bisogni dei popoli per poter esportare, e deve esportare per infrangere di volta in volta il circolo sovrapproduzione/sottoconsumo. In tal modo, le nazioni che più soffrono di quest’ultima contraddizione irrisolta, e della sua più macroscopica conseguenza sociale (il contrasto fra grande ricchezza e grande povertà), cercano l’espansione nella conquista di nuovi mercati non saturati, esportando contemporaneamente «corruzione», per gli ordinamenti dei paesi che ricevono le merci, e civiltà: «Con gli inglesi ciò avviene soprattutto mediante donazioni di armi, polvere da sparo, stoffe, acquavite, [mediante] fiere. La felice situazione di una tale nazione che ha un commercio mondiale è che il suo benessere è connesso al benessere del mondo intero, la sua cultura alla cultura di tutti i popoli; il suo benessere è fondato sul benessere cosmopolitico di tutte le nazioni. In quanto queste nazioni imparano a conoscere i bisogni, escono dallo stato di natura, vengono corrotte; d’altro canto esse devono creare i mezzi per i loro bisogni – i regali si fanno solo all’inizio – hanno necessità di lavorare, sono spinte all’attività, sono portate a prender coscienza di ciò, a questa autocoscienza; ne scaturisce sicurezza della proprietà, rispetto dei trattati, e tali nazioni pervengono così alla cultura (Bildung) etica». 

Il «circolo di circoli», la totalità in movimento, si plasma così nella realtà e nella coscienza attraverso la corruzione portata dall’astratto, dal danaro e dal pensiero, dai nemici di ogni immediatezza naturale, rappresentati socialmente dalla «classe industriale» (che comprende tutti i ceti produttivi, ossia, oltre agli industriali in senso stretto, gli operai e gli artigiani), nella quale si manifesta maggiormente la «coscienza della libertà». Ma la loro prevalenza è, per converso, un indice della crisi e del «tramontare» di un mondo reale, che si manifesta con la formazione della «plebe» e l’atomismo della società civile. Al pari delle astrazioni giuridiche dominanti nell’antica Roma (in presenza di una plebe corrotta e di governanti incapaci di frenare il declino e la caduta dell’impero), anche in età moderna astrazione e disgregazione sociale, «scienza» e «rovina» di un popolo, si presentano assieme. 

L’importanza assunta dalla società civile, e la forte sottolineatura del ruolo dello Stato, devono ricondursi a questa crisi storica, alla necessità di subordinare e controllare la disgregazione, di arginare gli interessi dei singoli convogliandoli verso l’«universale concreto», la mediazione attiva di universalità e particolarità. Il tramonto sul quale si innalza la civetta della filosofia è per Hegel questa dissoluzione etica: «Il fenomeno del tramontare ha le sue diverse forme; la corruzione prorompe dall’interno, le cupidigie si scatenano, le entità singole cercano la loro soddisfazione, in tal modo lo spirito sostanziale viene sconfitto e distrutto. Gli interessi singoli attirano a sé le energie e le capacità che prima erano dedicate al tutto [...] Gli individui si racchiudono in sé e tendono a fini propri; abbiamo già fatto osservare come ciò sia la rovina del popolo; ognuno si propone i suoi fini secondo le proprie passioni. Ma nel tempo stesso, in questo ritirarsi dello spirito in sé, il pensiero si fa innanzi come particolare realtà, e nascono le scienze. Così le scienze e la rovina, il declino di un popolo vanno sempre di pari passo». Tuttavia — a differenza delle epoche precedenti — esiste per Hegel nel suo tempo la possibilità di guidare la crisi, di gestire il mutamento gettando luce sui lati più distruttivi e corrosivi delle presenti forme di vita associata. 

Perché ciò accada, si devono scoprire nel pensiero e realizzare nel mondo le istituzioni atte a canalizzare creativamente l’energia potenziale degli elementi che generano la crisi. Infatti, da un lato non è pensabile l’eliminazione degli egoismi e delle contraddizioni della società civile senza un regredire astratto allo stadio dei «selvaggi del Nord-America», senza rinunciare allo sviluppo; dall’altro, son proprio questi egoismi scatenati — come espressione individuale di rapporti sociali — a produrre la corruzione del presente, di cui la filosofia è la coscienza e il tentativo di andare oltre. Nell’urgenza stessa della questione del sistema in Hegel, nell’architettonica della relazione fra il tutto e le parti si ha la cifra della situazione storica del tempo, l'allegoria filosofica più alta ed ‘abbreviata’ dell’epoca trascritta in pensieri: la ricerca di una perpetua ricomposizione della totalità che, stimolata dalla contraddizione e dalla disgregazione, si realizzi mediante l’espansione; l’avvertito bisogno — se non si vuol scardinare il «sistema» della realtà sociale — di conservare in posizione subalterna, teleologicamente asservita, quella stessa cecità istintuale che è «l’elemento attivo» della crisi. 

Ma con la Rivoluzione di luglio in Francia e con il progetto di riforma elettorale in Inghilterra, per Hegel l’orizzonte storico si oscura di nuovo: i conflitti si fanno più acuti e le soluzioni più difficili. Come potrà rappresentare l’interesse collettivo quello stesso Stato che è subordinato alla ricchezza dei privati? Come potrà trovarsi un equilibrio politico stabile, dopo la già ricordata «farsa» dei quindici anni della Restaurazione, che tocca ormai molti aspetti dell’esperienza comune? Come potrà porsi rimedio alla povertà, che ha assunto ormai proporzioni tali che neppure lo sbocco della colonizzazione, presentato nella Filosofia del diritto, sembra più sufficiente?: «Si è proposto di fondare colonie per far partire il sovrappiù dei poveri, ma perché questa misura sia efficace dovrebbe assicurare l’esodo di almeno un milione di abitanti; e come ottenere questo risultato?». In Inghilterra, inoltre — dove maggiore è lo sviluppo economico e sociale, ma anche il divario di ricchezza e povertà — i contrasti, provocati dalla tenace difesa dei privilegi da parte della classe dirigente, presentano un’asprezza estrema: «l’attività legiferante del parlamento resta, anche dopo la riforma elettorale, nelle mani di quella classe che è tenuta dai suoi interessi, e più ancora dalle sue caparbie abitudini, nell’ambito del vigente sistema di proprietà, e che finora si è preoccupata soltanto di affrontare le conseguenze del sistema quando il bisogno e la miseria diventano troppo clamorosi, ma con palliativi (come il Sub-letting Act) o con pii desideri (che chi possiede beni in Irlanda vi stabilisca la sua residenza, e simili)». L’ottusa difesa dei privilegi feudali da parte dell’aristocrazia terriera britannica (nella quale è soprattutto «radicato e imperturbabile il pregiudizio che colui al quale nascita e ricchezza danno una carica, riceva insieme l’intelligenza necessaria ad esercitarla») porta a stridenti ingiustizie: «Nell’Inghilterra vera e propria ai contadini vien reso impossibile possedere dei campi: ridotti al rango di fittavoli o di giornalieri, cercano, in parte, quel lavoro che è offerto dall’opulenza inglese, e in particolare dalle immense fabbriche, quando sono in periodo di prosperità; ma assai più di questo, a proteggerli dalle conseguenze della estrema miseria sono le leggi sui poveri, che fanno obbligo ad ogni parrocchia di provvedere ai suoi poveri». Ancor più duramente i proprietari inglesi si comportano con i contadini irlandesi: «se trovano più redditizia una cultura agricola per la quale abbiano bisogno di minor mano d’opera, cacciano dalle loro campagne, che non erano proprietà degli abitanti, centinaia e migliaia di contadini i quali, proprio come i servi della gleba, erano legati a quel suolo per il loro sostentamento, e le cui famiglie da secoli abitavano capanne edificate su quella terra, e la coltivavano; così a coloro che erano già senza alcuna proprietà, viene tolta anche la patria, e la tradizionale possibilità di lavoro, e tutto ciò per via legale. Ed è legale che i proprietari, onde cacciare una volta per tutte i contadini da quelle capanne, ed evitare che ritardino la partenza, o che tornino di soppiatto sotto quel tetto, le facciano incendiare». 

Dalla Francia la scossa rivoluzionaria si è propagata in Europa, e in Inghilterra ha portato alla formulazione di un Reformbill per abolire i «borghi putridi» e per ammettere in parlamento anche i rappresentanti della ricca borghesia. In tal modo è sorto «il timore da una parte, e la speranza dall’altra, che la riforma del sistema elettorale porterà con sé altre riforme materiali». La «plebe» dà ora segni di maggior inquietudine: spacca le macchine a vapore in Inghilterra e prende in Francia iniziative politiche che dovrebbero spettare al governo. Hegel è indubbiamente preoccupato e inquieto per questo riaprirsi di prospettive rivoluzionarie in tal forma, forse perché esse incrinano «trop la base sur laquelle repose la liberté» e comunque perché possono sfuggire ad ogni controllo ‘razionale’. Ma si sforza di comprenderne il senso, di prestar loro ascolto: l’aristocrazia inglese ritiene superfluo indagare i fondamenti dell’organizzazione politica e del diritto vigente, «mentre i popoli che ne sentono l’oppressione, sono stimolati a far ciò dalle miserie esteriori, e dal bisogno della ragione che esse suscitano». L’oppressione e le miserie esteriori spingono nuovamente la filosofia all’indagine, alla prefigurazione di soluzioni razionali per una crisi reale. 

Dopo le giornate parigine del luglio 1830 la talpa ha ripreso a scavare più alacremente in un mondo che comincia a farsi più buio, anche se non è ancora giunto alla «notte polare di fredde tenebre e di stenti», quale si manifesterà più tardi. L’atteggiamento hegeliano diventa allora più «amletico», ma nel senso della talpa: in un appunto che egli aveva preparato per l’introduzione al corso di filosofia del diritto del 1831-32, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820, compare ora la «talpa», quasi a significare che l’avvenire è segnato dalle oscure forze dell’istinto e che l’unica cosa che gli occhi di civetta della filosofia sembrano ora cogliere è proprio l’incertezza del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a portare i propri ‘lumi’ in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque, giungere a compimento […]. 

Analogamente, anche il nostro avvenire, oscurandosi, sembra aver accentuato la sua natura di assoluta contingenza, di luogo di esplicazione di forze che sfuggono sempre più al controllo degli uomini. L’incertezza si è perciò estesa, insinuando negli animi la percezione della precarietà come normale condizione dell’esistenza, un atteggiamento che allenta i legami sociali, mina la fiducia reciproca e rende più difficile l’individuazione di possibili vie d’uscita a una crisi che non è soltanto economica o politica (che è grave, ma certo non peggiore delle tante che si sono attraversate solo nel secolo scorso). 

Diversamente da Hegel, noi non abbiamo però (e non crediamo ragionevolmente di avere) alcun coerente sistema di idee che pretenda di orientarci a capire il nostro tempo e il nostro futuro, alcuna civetta filosofica che, con sguardo panoramico, interroghi la sua apparente oscurità. La talpa della storia continua, come sempre, a scavare in profondità e direzioni imprevedibili le sue gallerie, da cui emergerà non si sa quando e non si sa dove, quasi a conferma dell’asserzione di Keynes, secondo cui «l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre». 


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