Vedi anche: http://www.filosofia.it/argomenti/danaro-lavoro-macchine-in-hegel
Il modello hegeliano di sistema quale «circolo di circoli» - che non è chiusura al nuovo, ma
piuttosto la sua costante assimilazione per espansione e ritorno in sé - ha il suo fondamento
analogico nella natura del danaro. La circolarità del sistema è, infatti, un ininterrotto processo di
«arricchimento», analogo alla «ricchezza circolante», la quale aumenta ogni volta la sua massa in
proporzione alle dimensioni già raggiunte, inglobando il concreto, attraverso contraddizioni che
non sembrano attualmente trovare una soluzione.
Tale arricchimento del pensiero, mediante ‘circolazione allargata’ è anche storicamente lo
schema di sviluppo economico e politico di tutta la civilisierte Welt, poiché tutti i fenomeni più
diversi hanno la radice comune nello Zeitgeist che ha «dato l’ordine di avanzare» e di ingrandire le
proprie forze. Ormai «la morta ricchezza esiste ora solo nei tesori dei Cosacchi, dei Tartari; nel
mondo civilizzato si tratta della ricchezza circolante», che, tuttavia, si distribuisce in maniera
estremamente disuguale: «Nella stessa proporzione in cui si accresce la ricchezza, si accresce pure
la miseria, se non si provvede a deviarla diversamente tramite ad esempio la colonizzazione».
Uno dei meriti maggiori della Rivoluzione francese, con l’abolizione del feudalesimo, è stato
appunto per Hegel l’impulso dato alla proprietà e alla ricchezza circolanti, sia pure all’interno di
laceranti contraddizioni. La dialettica del «danaro» e del «Kapital» si presenta in forma assai
articolata nelle Vorlesungen über Rechtsphilosophie del periodo berlinese.
Hegel descrive qui – in maniera quasi dickensiana –un’economia contraddistinta
dall’elevatissima concentrazione della ricchezza in poche mani e dal conseguente crearsi di una
immensa massa di lavoratori poveri o disoccupati, esseri umani sospinti dalla miseria più
spaventosa nell’umiliazione e nell’abbrutimento, una situazione alla quale gli Stati cercano
inutilmente di porre rimedio con dei «palliativi», come l’emigrazione nelle colonie. Di fonte a un
simile spettacolo, Hegel giunge a dire che l’estrema povertà rende lecito, a chi la subisce, anche il
furto finalizzato alla propria sopravvivenza: «tale azione è illegale, ma sarebbe ingiusto considerarla come un furto comune. Sì, l’uomo ha diritto a tale azione illegale». Il tramonto
dell’epoca è quindi per lui connesso, oltre che alla «farsa» della Restaurazione, all’insolubilità di
conflitti come questi, che la filosofia deve indagare con i suoi grandi occhi di civetta.
Il danaro e le banche appaiono ora come strutture portanti non solo della vita economica, ma
anche della vita politica delle nazioni: «Poiché il danaro è il grande mezzo, il ceto commerciale è
ora tanto legato alla politica. Esso è, cosi, particolarmente occupato con i bisogni dei diversi Stati in
quanto corpi politici, e il commercio del danaro, le banche, ha ottenuto questa grande importanza
[...]; dato che gli Stati hanno bisogno di danaro per i loro interessi, essi dipendono da questa
circolazione di danaro (Geldverkehr) in sé indipendente». Nel periodo che precede immediatamente
la Rivoluzione di luglio — che avrebbe visto i Laffitte, i Périer e i Rothschild assumere anche il
controllo del potere politico — non era sfuggito a Hegel il fatto nuovo che il danaro, in veste di
potenza astratta e «indipendente», limitava nella sua assolutezza persino la sovranità di quel dio
terreno, di quel «geroglifico della ragione» che è lo Stato. Del resto, a prescindere dalla traduzione
filosofica compiuta da Hegel con acutezza di questi temi, essi non erano poi tanto reconditi per un
contemporaneo del primo Balzac, per un amico di banchieri e di uomini d’affari, quali Beer e
August Friedrich Bloch, per un conoscitore attento, attraverso i giornali e attraverso Cousin, della
grande politica londinese o parigina, per un frequentatore del salotto di Rahel, la signora Varnhagen
von Ense, dove si discuteva di economia politica e di saint-simonismo. È l’abitudine consolidata a
vedere Hegel come filosofo «puro» che fa guardare ancora a questa sua tematica con l’occhio
rivolto a semplici «precorrimenti» di Marx, mentre in realtà si tratta di problemi ampiamente
dibattuti (in quell’epoca ‘prosaica’ seguita alla caduta del mito eroico napoleonico), che Hegel ha
comunque saputo cogliere «nel pensiero».
Il Kapital, oltre a possedere questa capacità di dettare legge ai governi, ha anche la mirabile
capacità di crescere per forza propria, di sconfiggere i concorrenti più deboli e di costringere gli
operai a lavorare a salari più bassi: «Quanto più grande è il capitale, più grandi sono le imprese che
si possono condurre a termine, ed il possessore del capitale può accontentarsi di un profitto minore,
per cui il capitale viene di nuovo ingrossato [...] In una situazione di grande miseria, il capitalista
trova molta gente che lavora per un salario minore e ciò ha, a sua volta, come conseguenza che i
capitalisti più piccoli cadono in miseria». La «logica» del capitale è un circolo di espansione, di
lievitazione dialettica, ma non è facile entrare dentro di esso, né è facile lo sviluppo se non si è
raggiunto un certo grado quantitativo. Infatti, tale logica si riassume nella proposizione hegeliana:
«A chi ha, vien dato», e, per converso, a chi ha poco, anche questo poco vien tolto. La ricchezza si
alimenta della povertà dei più: «La ricchezza, come ogni massa, diventa forza. L’accumulazione
della ricchezza si verifica in parte per caso, in parte per l’universalità prodotta dalla divisione. È un
punto magnetico in un modo tale che esso getta il suo sguardo su tutto il resto e lo raccoglie in sé
— come una massa grande attira a sé la massa più piccola. A chi ha già, a questo vien dato. Il
guadagno diventa un sistema multilaterale, che dà profitto da tutti i lati, che un’impresa più piccola non può utilizzare». Inoltre: «Chi ha capitale, può guadagnare. Questa però è soltanto la condizione
di base, l’elemento principale è costituito dall’abilità. Ma essa, a sua volta, è condizionata dal
capitale, poiché [per conseguirla] ci vogliono spese, da investire solo sul soggetto, senza che nel
frattempo questi produca dapprima qualcosa di scambiabile (ein Vertauschbares)».
L’avanzare della ricchezza e del capitale avviene — come è noto anche dalla Filosofia del
diritto del 1821 — attraverso immani rivolgimenti sociali e la condanna di grandi masse d’uomini
all’abbrutimento, alla «ribellione interiore» e al risentimento della povertà. L’introduzione delle
macchine ha provocato, da un lato, un vertiginoso aumento della produzione, dall’altro
l’ottundimento spirituale del lavoro di fabbrica, i bassi salari e la disoccupazione. Tuttavia, per
Hegel, non si può tornare indietro a improbabili stati di natura, a «robinsonate», né si può
utopisticamente immaginare una qualche soluzione immediata, bisogna accettare le contraddizioni
e trovare una soluzione che passi attraverso di loro: Hic Rhodus, hic salta!. Certo, la miseria
generata dal capitale e dall’industria è impressionante: «Non possiamo neppure immaginare come a
Londra, questa città infinitamente ricca, siano spaventosamente grandi indigenza, miseria, povertà.
Accrescendosi, la ricchezza si concentra in poche mani; e una volta verificatasi questa differenza
per cui grossi capitali sono in poche mani, ciò permette di guadagnare vendendo a prezzi più bassi
di quelli consentiti da un capitale più ridotto, sicché la differenza diviene sempre più grande». Gli
operai se la prendono con le macchine e le spaccano: «in Inghilterra sono [state] in parte distrutte
da operai disoccupati (brodtlose Arbeiter); ma gli uomini potrebbero essere utilizzati per qualcosa
di meglio che non per le operazioni che sono in grado di svolgere le macchine».
Il fatto è, però, che il lavoro, una volta ricondotto a poche operazioni semplicissime, secondo
la scissione imposta dall’«intelletto», non richiede più uomini, ma soltanto macchine: «Non appena
il lavoro è diventato del tutto semplice, astratto, allora si può sostituire l’uomo con le macchine.
L’Inghilterra avrebbe bisogno di molte centinaia di migliaia di uomini per sostituire il lavoro delle
macchine. Gli operai, soprattutto gli operai di fabbrica, che perdono il loro sostentamento a causa
delle macchine, divengono facilmente scontenti, e bisogna necessariamente schiudere loro nuovi
settori». Hegel sembra adombrare molto cautamente l’ipotesi che il lavoro delle macchine (dato che
aumenta il prodotto sociale complessivo, pur sacrificando i singoli) possa essere alla fine uno
strumento di liberazione, nel senso che le macchine potrebbero svolgere quei compiti per i quali
l’uomo è sprecato e gli uomini potrebbero fare «qualcosa di meglio»: «L’industria sarà certo
abbandonata spontaneamente, ma col sacrificio di questa generazione e l’accrescimento della
povertà». Passato un determinato periodo, presumibilmente non limitato a «questa generazione»,
sarà forse lecito liberarsi dagli effetti negativi, individuali e sociali, dell’industrializzazione e del
lavoro meccanico: «Inoltre, l’astrazione del produrre rende il lavoro sempre più m e c c a n i c o
e, quindi, alla fine, atto a che l’uomo ne sia rimosso e possa essere introdotta, al suo posto, la
m a c c h i n a ».
Ma attualmente, questa soluzione è prematura e la difficoltà di trovare uno sbocco nel
presente alle contraddizioni spinge verso l’ottativo o il passato remoto: «L’orripilante descrizione
della miseria, la quale impedisce la soddisfazione dei bisogni, la troviamo particolarmente in
Rousseau e in alcuni altri. Si tratta di uomini profondamente colpiti dalla miseria del loro tempo,
del loro popolo, di uomini che conoscono profondamente ed espongono in modo commovente la
corruzione etica che ne deriva, la rabbia, la ribellione degli uomini per la loro miseria, per la
contraddizione fra ciò che essi sono in grado di pretendere e la condizione in cui si trovano, la
esasperazione per tale contraddizione, la vergogna per questa situazione e con ciò l’interna
amarezza, la cattiva volontà che ne scaturisce. Tutto questo è causato veramente dalla società civile
(bürgerliche Gesellschaft), e, nella ribellione contro tutto ciò, quegli spiriti, che pensavano e
sentivano profondamente, l’hanno rifiutata e son passati ad un altro estremo. Essi non hanno visto
altra salvezza in quanto tale che nell’abbandonare interamente un sistema (ein System ganz
aufzugeben) e, giacché non potevano negare i vantaggi della società civile, hanno ritenuto più
vantaggioso sacrificarla interamente e ritornare ad una situazione che sia senza bisogni così
molteplici, ad uno stato di natura come quello dei selvaggi del Nord-America, presso i quali la
miseria e l’infelicità non può aver luogo così». Non si sono accorti che non è più possibile tornare
indietro e che, anzi, persino quelle zone residue di naturalità e di limitazione dei bisogni stanno per
essere travolte da un «sistema» economico che ha necessità di non lasciare fuori di sé il diverso non
assimilato, di espandersi se non vuol morire, un sistema che è costretto ad «avanzare»: Esso deve
artificialmente svegliare i bisogni dei popoli per poter esportare, e deve esportare per infrangere di
volta in volta il circolo sovrapproduzione/sottoconsumo. In tal modo, le nazioni che più soffrono di
quest’ultima contraddizione irrisolta, e della sua più macroscopica conseguenza sociale (il contrasto
fra grande ricchezza e grande povertà), cercano l’espansione nella conquista di nuovi mercati non
saturati, esportando contemporaneamente «corruzione», per gli ordinamenti dei paesi che ricevono
le merci, e civiltà: «Con gli inglesi ciò avviene soprattutto mediante donazioni di armi, polvere da
sparo, stoffe, acquavite, [mediante] fiere. La felice situazione di una tale nazione che ha un
commercio mondiale è che il suo benessere è connesso al benessere del mondo intero, la sua cultura
alla cultura di tutti i popoli; il suo benessere è fondato sul benessere cosmopolitico di tutte le
nazioni. In quanto queste nazioni imparano a conoscere i bisogni, escono dallo stato di natura,
vengono corrotte; d’altro canto esse devono creare i mezzi per i loro bisogni – i regali si fanno solo
all’inizio – hanno necessità di lavorare, sono spinte all’attività, sono portate a prender coscienza di
ciò, a questa autocoscienza; ne scaturisce sicurezza della proprietà, rispetto dei trattati, e tali nazioni
pervengono così alla cultura (Bildung) etica».
Il «circolo di circoli», la totalità in movimento, si plasma così nella realtà e nella coscienza
attraverso la corruzione portata dall’astratto, dal danaro e dal pensiero, dai nemici di ogni
immediatezza naturale, rappresentati socialmente dalla «classe industriale» (che comprende tutti i
ceti produttivi, ossia, oltre agli industriali in senso stretto, gli operai e gli artigiani), nella quale si manifesta maggiormente la «coscienza della libertà». Ma la loro prevalenza è, per converso, un
indice della crisi e del «tramontare» di un mondo reale, che si manifesta con la formazione della
«plebe» e l’atomismo della società civile. Al pari delle astrazioni giuridiche dominanti nell’antica
Roma (in presenza di una plebe corrotta e di governanti incapaci di frenare il declino e la caduta
dell’impero), anche in età moderna astrazione e disgregazione sociale, «scienza» e «rovina» di un
popolo, si presentano assieme.
L’importanza assunta dalla società civile, e la forte sottolineatura del ruolo dello Stato,
devono ricondursi a questa crisi storica, alla necessità di subordinare e controllare la disgregazione,
di arginare gli interessi dei singoli convogliandoli verso l’«universale concreto», la mediazione
attiva di universalità e particolarità. Il tramonto sul quale si innalza la civetta della filosofia è per
Hegel questa dissoluzione etica: «Il fenomeno del tramontare ha le sue diverse forme; la corruzione
prorompe dall’interno, le cupidigie si scatenano, le entità singole cercano la loro soddisfazione, in
tal modo lo spirito sostanziale viene sconfitto e distrutto. Gli interessi singoli attirano a sé le energie
e le capacità che prima erano dedicate al tutto [...] Gli individui si racchiudono in sé e tendono a
fini propri; abbiamo già fatto osservare come ciò sia la rovina del popolo; ognuno si propone i suoi
fini secondo le proprie passioni. Ma nel tempo stesso, in questo ritirarsi dello spirito in sé, il
pensiero si fa innanzi come particolare realtà, e nascono le scienze. Così le scienze e la rovina, il
declino di un popolo vanno sempre di pari passo». Tuttavia — a differenza delle epoche precedenti
— esiste per Hegel nel suo tempo la possibilità di guidare la crisi, di gestire il mutamento gettando
luce sui lati più distruttivi e corrosivi delle presenti forme di vita associata.
Perché ciò accada, si devono scoprire nel pensiero e realizzare nel mondo le istituzioni atte a
canalizzare creativamente l’energia potenziale degli elementi che generano la crisi. Infatti, da un
lato non è pensabile l’eliminazione degli egoismi e delle contraddizioni della società civile senza un
regredire astratto allo stadio dei «selvaggi del Nord-America», senza rinunciare allo sviluppo;
dall’altro, son proprio questi egoismi scatenati — come espressione individuale di rapporti sociali
— a produrre la corruzione del presente, di cui la filosofia è la coscienza e il tentativo di andare
oltre. Nell’urgenza stessa della questione del sistema in Hegel, nell’architettonica della relazione fra
il tutto e le parti si ha la cifra della situazione storica del tempo, l'allegoria filosofica più alta ed
‘abbreviata’ dell’epoca trascritta in pensieri: la ricerca di una perpetua ricomposizione della totalità
che, stimolata dalla contraddizione e dalla disgregazione, si realizzi mediante l’espansione;
l’avvertito bisogno — se non si vuol scardinare il «sistema» della realtà sociale — di conservare in
posizione subalterna, teleologicamente asservita, quella stessa cecità istintuale che è «l’elemento
attivo» della crisi.
Ma con la Rivoluzione di luglio in Francia e con il progetto di riforma elettorale in
Inghilterra, per Hegel l’orizzonte storico si oscura di nuovo: i conflitti si fanno più acuti e le
soluzioni più difficili. Come potrà rappresentare l’interesse collettivo quello stesso Stato che è
subordinato alla ricchezza dei privati? Come potrà trovarsi un equilibrio politico stabile, dopo la già ricordata «farsa» dei quindici anni della Restaurazione, che tocca ormai molti aspetti
dell’esperienza comune? Come potrà porsi rimedio alla povertà, che ha assunto ormai proporzioni
tali che neppure lo sbocco della colonizzazione, presentato nella Filosofia del diritto, sembra più
sufficiente?: «Si è proposto di fondare colonie per far partire il sovrappiù dei poveri, ma perché
questa misura sia efficace dovrebbe assicurare l’esodo di almeno un milione di abitanti; e come
ottenere questo risultato?». In Inghilterra, inoltre — dove maggiore è lo sviluppo economico e
sociale, ma anche il divario di ricchezza e povertà — i contrasti, provocati dalla tenace difesa dei
privilegi da parte della classe dirigente, presentano un’asprezza estrema: «l’attività legiferante del
parlamento resta, anche dopo la riforma elettorale, nelle mani di quella classe che è tenuta dai suoi
interessi, e più ancora dalle sue caparbie abitudini, nell’ambito del vigente sistema di proprietà, e
che finora si è preoccupata soltanto di affrontare le conseguenze del sistema quando il bisogno e la
miseria diventano troppo clamorosi, ma con palliativi (come il Sub-letting Act) o con pii desideri
(che chi possiede beni in Irlanda vi stabilisca la sua residenza, e simili)». L’ottusa difesa dei
privilegi feudali da parte dell’aristocrazia terriera britannica (nella quale è soprattutto «radicato e
imperturbabile il pregiudizio che colui al quale nascita e ricchezza danno una carica, riceva insieme
l’intelligenza necessaria ad esercitarla») porta a stridenti ingiustizie: «Nell’Inghilterra vera e
propria ai contadini vien reso impossibile possedere dei campi: ridotti al rango di fittavoli o di
giornalieri, cercano, in parte, quel lavoro che è offerto dall’opulenza inglese, e in particolare dalle
immense fabbriche, quando sono in periodo di prosperità; ma assai più di questo, a proteggerli dalle
conseguenze della estrema miseria sono le leggi sui poveri, che fanno obbligo ad ogni parrocchia di
provvedere ai suoi poveri». Ancor più duramente i proprietari inglesi si comportano con i contadini
irlandesi: «se trovano più redditizia una cultura agricola per la quale abbiano bisogno di minor
mano d’opera, cacciano dalle loro campagne, che non erano proprietà degli abitanti, centinaia e
migliaia di contadini i quali, proprio come i servi della gleba, erano legati a quel suolo per il loro
sostentamento, e le cui famiglie da secoli abitavano capanne edificate su quella terra, e la
coltivavano; così a coloro che erano già senza alcuna proprietà, viene tolta anche la patria, e la
tradizionale possibilità di lavoro, e tutto ciò per via legale. Ed è legale che i proprietari, onde
cacciare una volta per tutte i contadini da quelle capanne, ed evitare che ritardino la partenza, o che
tornino di soppiatto sotto quel tetto, le facciano incendiare».
Dalla Francia la scossa rivoluzionaria si è propagata in Europa, e in Inghilterra ha portato
alla formulazione di un Reformbill per abolire i «borghi putridi» e per ammettere in parlamento
anche i rappresentanti della ricca borghesia. In tal modo è sorto «il timore da una parte, e la
speranza dall’altra, che la riforma del sistema elettorale porterà con sé altre riforme materiali». La
«plebe» dà ora segni di maggior inquietudine: spacca le macchine a vapore in Inghilterra e prende
in Francia iniziative politiche che dovrebbero spettare al governo. Hegel è indubbiamente
preoccupato e inquieto per questo riaprirsi di prospettive rivoluzionarie in tal forma, forse perché
esse incrinano «trop la base sur laquelle repose la liberté» e comunque perché possono sfuggire ad ogni controllo ‘razionale’. Ma si sforza di comprenderne il senso, di prestar loro ascolto:
l’aristocrazia inglese ritiene superfluo indagare i fondamenti dell’organizzazione politica e del
diritto vigente, «mentre i popoli che ne sentono l’oppressione, sono stimolati a far ciò dalle miserie
esteriori, e dal bisogno della ragione che esse suscitano». L’oppressione e le miserie esteriori
spingono nuovamente la filosofia all’indagine, alla prefigurazione di soluzioni razionali per una
crisi reale.
Dopo le giornate parigine del luglio 1830 la talpa ha ripreso a scavare più alacremente in un
mondo che comincia a farsi più buio, anche se non è ancora giunto alla «notte polare di fredde
tenebre e di stenti», quale si manifesterà più tardi. L’atteggiamento hegeliano diventa allora più
«amletico», ma nel senso della talpa: in un appunto che egli aveva preparato per l’introduzione al
corso di filosofia del diritto del 1831-32, al posto tenuto dalla civetta nella Prefazione del 1820,
compare ora la «talpa», quasi a significare che l’avvenire è segnato dalle oscure forze dell’istinto e
che l’unica cosa che gli occhi di civetta della filosofia sembrano ora cogliere è proprio l’incertezza
del futuro. Il mondo ha di nuovo accelerato il suo movimento inconscio, costringendo la filosofia a
portare i propri ‘lumi’ in un crepuscolo su cui incombe lo «spirito nascosto, che batte alle porte del
presente». Il lavoro di decifrazione della realtà effettuale attraverso il pensiero non può, dunque,
giungere a compimento […].
Analogamente, anche il nostro avvenire, oscurandosi, sembra aver accentuato la sua natura
di assoluta contingenza, di luogo di esplicazione di forze che sfuggono sempre più al controllo
degli uomini. L’incertezza si è perciò estesa, insinuando negli animi la percezione della precarietà
come normale condizione dell’esistenza, un atteggiamento che allenta i legami sociali, mina la
fiducia reciproca e rende più difficile l’individuazione di possibili vie d’uscita a una crisi che non è
soltanto economica o politica (che è grave, ma certo non peggiore delle tante che si sono
attraversate solo nel secolo scorso).
Diversamente da Hegel, noi non abbiamo però (e non crediamo ragionevolmente di avere)
alcun coerente sistema di idee che pretenda di orientarci a capire il nostro tempo e il nostro futuro,
alcuna civetta filosofica che, con sguardo panoramico, interroghi la sua apparente oscurità. La talpa
della storia continua, come sempre, a scavare in profondità e direzioni imprevedibili le sue gallerie,
da cui emergerà non si sa quando e non si sa dove, quasi a conferma dell’asserzione di Keynes,
secondo cui «l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre».
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