domenica 28 luglio 2024

Sincretismi vitali a Cuba: contraddizioni sociali e processi simbolici - Alessandra Ciattini

Da: https://giuliochinappi.wordpress.com - Alessandra Ciattini (Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni - Membro del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista) ha insegnato Antropologia culturale alla Sapienza di Roma. E' docente presso l'Università Popolare Antonio Gramsci (https://www.unigramsci.it). 


Le sacre icone forniscono una realtà palpabile a una comunità per altro verso immaginaria. L’interessante approfondimento di Alessandra Ciattini sulle pratiche religiose a Cuba. 


Nella letteratura antropologica e storico-religiosa ci si avvale spesso del termine “sincretismo”, inteso in modi diversi. Secondo Droogers (1989), le definizioni oggettive del termine si riferiscono a tradizioni culturali e religiose difformi che si incontrano in un determinato contesto storico-sociale e si mescolano fino a dar vita a forme diverse, con distinti gradi di sincretizzazione più o meno profondi (Marzal 1985). Le definizioni soggettive invece contengono spesso giudizi di valore imperniati sulla condanna dell’incontro e della fusione di religioni di origine diversa: basti pensare alla teologia cristiana che considera pericolosa ogni forma di sincretismo, che contaminerebbe la purezza originaria della vera religione rivelata. Ovviamente, come osserva Droogers, la distinzione tra definizioni oggettive e soggettive non è netta, e possiamo trovare caratteri soggettivi in quelle oggettive e viceversa. Di fatto non esiste un accordo scientifico sulla nozione di sincretismo e perciò possiamo usarla solo se la definiamo a partire da una teoria dei fenomeni sincretici e delle condizioni storico-sociali in cui si formano e si sviluppano. Gli esempi cubani qui analizzati mostrano un sincretismo strettamente legato alle contraddizioni della vita sociale. In molti casi esso tenta di risolvere queste contraddizioni, come sottolineano i funzionalisti, in altri la produzione di una sintesi culturale (Stewart e Shaw 1994) rinvia ad una soluzione simbolica e ideologica senza incidere sulle trasformazioni reali. Un’impostazione dialettica ci permette di identificare e di interpretare gli aspetti contraddittori dei fenomeni sociali.

D’altra parte, il tema del sincretismo è stato sviluppato proprio per dar conto della contraddittorietà dei fenomeni, come mostra l’etimologia del termine, con il quale Plutarco indicò l’atteggiamento dei Cretesi, che dimenticavano i loro conflitti interni e si coalizzavano di fronte ad un invasore straniero. In epoca moderna il termine, nell’opera di Erasmo da Rotterdam, rinvia al grande processo di assimilazione da parte della teologia cristiana della cultura classica. Esso è anche usato nel contesto della Riforma tra il XVI e il XVII secolo per indicare il grande dibattito tra teologi protestanti sulle possibili convergenze dottrinali e rituali: le cosiddette “controversie sincretiche”, alle quali presero parte anche coloro che non apprezzavano questo processo di riconciliazione, ritenendo che avrebbe generato un indebito ed eterogeneo miscuglio. La concezione negativa del sincretismo ha quindi una genesi teologica ed è sviluppata nell’Ottocento: all’idea del cristianesimo come religione sincretica alcuni studiosi oppongono quella della preparazione provvidenziale, secondo la quale Dio avrebbe favorito la diffusione presso gli antichi di concezioni che avrebbero facilitato l’accettazione del Vangelo (Pinard de la Boullaye 1922, p. 477).

È opportuno ricordare anche che il concetto di “sincretismo” appartiene a una famiglia di nozioni – come mestizaje, ibridazione, creolizzazione, transculturazione – usate per dar conto non solo dei fenomeni legati alla colonizzazione ed all’evangelizzazione, ma anche, come ha sottolineato da García Caclini (2002 e 2003), per indicare il carattere conflittuale e contraddittorio di molti aspetti della modernità globalizzante: da un lato la tendenza all’omogenizzazione sociale e culturale, dall’altra la forte esplosione delle differenze e delle disuguaglianze. In ogni caso il sincretismo è una teoria implicita del cambiamento storico-culturale, la quale si fonda sull’idea che ogni fenomeno sia il prodotto dell’azione delle varie forze sociali e culturali, che si incontrano, si scontrano e si mescolano all’interno di determinate relazioni di potere e di determinate strutture ideologiche. Tuttavia, dal mio punto di vista, è preferibile parlare di “sincretismo vitale” per definire fenomeni che si producono e persistono all’interno di un sistema caratterizzato da forti differenze sociali e culturali che si manifestano implicitamente o apertamente in termini di conflitto tra dominati e dominatori. Le condizioni necessarie del suo formarsi sono da un lato la possibilità di intervento dei dominati per innescare strategie di resistenza e di adattamento, dall’altro l’impiego da parte del gruppo egemonico di elementi culturali appartenenti ai dominati per trasmettere il nuovo messaggio culturale e per ottenere così la conversione culturale. Di solito questo gruppo non ha la forza necessaria per imporre in tutti gli aspetti della vita religiosa e culturale un sintesi autorizzata dal suo centro di potere. Come possiamo verificare studiando la vita concreta delle società, non troviamo il dominio totale di un sistema ideologico, ma la presenza di differenti livelli culturali che nello stesso tempo si oppongono, si confondono e si strutturano gerarchicamente. In questa prospettiva hanno ragione Stewart e Shaw (1994) quando osservano che il sincretismo dipende dal sistema di potere, il quale è l’unico dotato della forza necessaria per imporre una cosmovisione (nuova o tradizionale), anche se non riesce mai a farlo totalmente. Non a caso, come essi dimostrano, i prodotti del sincretismo si trasformano in concezioni legittime, grazie ad un centro di potere che dà loro legittimità e li considera elementi fondamentali della vita collettiva. Ciò non impedisce che nella vita sociale concreta vi sia sempre tensione e conflitto tra i sistemi culturali presenti. In questo senso il sincretismo si sviluppa sempre in un ambiente profondamente politicizzato, dove si stabilisce il contatto, si consolidano le differenze e si tenta la conciliazione (Stewart e Shaw 1994, p. 3). Non può essere trascurata la presenza tra i dominati di intellettuali in grado di governare i processi di adattamento e di resistenza in un contesto dove si presenta un nuovo gruppo egemone, che cerca di imporre il suo sistema culturale.

È il caso di Cuba dove, come è noto, giunsero come schiavi importanti esponenti della società yoruba, che erano operatori rituali o appartenevano alla nobiltà. Come scrive Báez-Jorge (2008, pp. 77-78) solo l’approccio dialettico può dar conto delle contraddizioni e riformulazioni implicite in ogni sincretismo, che in America Latina rinviano alla distruzione della società preispanica, alla strategia di resistenza dei dominati, al processo di reinterpretazione simbolica e rituale.

Credo con Ortiz (1991, p. 87) che le nozioni di sincretismo e di transculturazione, che ne descrive il processo, sono indispensabili per comprendere la storia di Cuba e dell’intera America Latina. Ortiz individua le tappe del processo di transculturazione, che sul piano culturale si sviluppa passando per la perdita culturale (exculturazione) e l’acquisizione di nuovi elementi culturali (acculturazione), i quali tuttavia sono selezionati e rifunzionalizzati dal gruppo subordinato. Nella prospettiva di Ortiz dobbiamo anche distinguere tra il processo di trasculturazione realizzato dall’alto e diretto dalle classi dominanti, come l’evangelizzazione, e quello invece innescato dal basso, ossia dal gruppo che si adatta e resiste all’evangelizzazione.

Secondo una leggenda, probabilmente elaborata nel XVII secolo dai cronisti del monastero di Regla a Chipiona nei pressi di Cadice, la Virgen de Regla, protettrice della regola agostiniana, ha un’origine molto antica: arrivò dall’Africa alla Spagna e da lì fu successivamente portata in America. Sarebbe stato Agostino, padre della Chiesa e vescovo di Ippona, a fare scolpire l’immagine per la sua particolare devozione verso Maria. Dopo la sua morte i Vandali invasero l’Africa settentrionale e i monaci agostiniani fuggirono in Spagna, portandosi dietro l’immagine che collocarono nel monastero di Regla a Chipiona. In mare durante la traversata avvenne un miracolo: non solo l’immagine non fu danneggiata da una tempesta nello stretto di Gibilterra, ma salvò anche i monaci. Questo evento straordinario la fece considerare patrona della gente di mare. A causa dell’invasione araba nel VII secolo i monaci dovettero di nuovo fuggire, nascondendo l’immagine nei pressi del monastero, che tuttavia secondo le fonti storiche fu costruito molto più tardi, nel XV secolo. Sempre secondo la leggenda, nel secolo XIII dopo la vittoria di Alfonso el Sabio, la Vergine apparve a un canonico dell’ordine agostiniano e gli mostrò il luogo dove era stata sepolta la sua immagine, che recuperata fu collocata nel suo tempio. Attualmente l’antica immagine scolpita della Virgen de Regla si trova nel Santuario di Chipiona, che fronteggia il mare e che fu ricostruito tra il 1904 e il 1906 in stile neogotico. Si tratta di una figura scura alta 62 cm, scolpita in legno secondo lo stile gotico, che sembra ispirata all’iconografia delle vergini nere. Secondo gli storici dell’arte probabilmente furono artisti spagnoli a scolpirla agli inizi del XIV secolo, molti secoli dopo Agostino.

Si narra che nel 1660 nel villaggio di Regla nei pressi dell’Avana in una piantagione di canna da zucchero fu costruito un bohío (casa tradizionale degli indios Taíno) in cui fu collocata l’immagine della Virgen de Regla di S. Agostino, come gli indigeni facevano con i loro cemí, idoli di pietra e di legno che poi assimilarono alle immagini sacre portate dagli Spagnoli. Nel 1664 una nuova immagine della Virgen de Regla, portata dalla Spagna, fu posta in una cappella nello stesso luogo, per essere nel 1714 proclamata patrona della baia dell’Avana (Bolívar Aróstegui, 1990, p. 98), come prima della baia di Chipiona. Se compariamo le immagini delle vergini di Chipiona e dell’Avana, possiamo osservare importanti differenze. La prima indossa un vestito e un mantello coloro oro, la seconda ha invece un vestito bianco e un manto azzurro. Tuttavia, entrambe le figure dal volto nero tengono tra le braccia il piccolo Gesù, il cui viso è bianco, ed hanno sotto i piedi la mezzaluna. Colpisce molto il contrasto tra il viso nero della madre e quello bianco del figlio e suggerisce un conflitto oscuro e misterioso. A Cuba la Virgen de Regla è “sincretizzata” con la yoruba Yemayá, patrona del mare e madre di tutti gli orichas, mentre in Brasile quest’ultima è associata all’Immacolata Concezione.

Durante la ricerca sul campo ho potuto osservare direttamente le dinamiche del fenomeno sincretico “vitale”: i fedeli considerano le diverse manifestazioni sacre come differenti espressioni di una stessa potenza (avatares). In questo senso, il fedele può andare in una chiesa cattolica per venerare Yemayá sotto le spoglie della Virgen de Regla o riferirsi a quest’ultima per invocare la prima in una casa-tempio, senza mai identificare totalmente l’una con l’altra.

Secondo Verger (1982, pp. 32-33) ogni oricha rappresenta un archetipo del comportamento psicologico e morale, che ogni individuo può manifestare liberamente solo durante la trance. Più in generale, le religioni di origine africana, presenti in America, sarebbero strumenti con i quali gli individui si liberano e cercano di far accettare agli altri il loro ego nascosto e/o represso. Se proprio vogliamo parlare di archetipi, non possiamo farlo in senso meramente psicologico, ma dobbiamo riferirci a quegli schemi soggiacenti, la cui origine sta nelle problematiche storiche e sociali che caratterizzano un certo contesto. In questo senso, come vedremo, Yemayá può essere intesa come l’archetipo di un certo modo di intendere la maternità, proprio di una società caratterizzata da una relazione di interdipendenza con la natura, e dal conseguente “sacro” rispetto per essa. Le due figure hanno molto in comune, in primo luogo la relazione con il mare: la Virgen de Regla arriva attraversando il mare, Yemayá è signora dell’oceano e sulle sue profondità. Entrambe le figure sono nere e sono legate all’Africa, terra da cui giunsero a Cuba gli schiavi. Il colore nero della pelle ha sicuramente una connotazione etnica e razziale, ma più ancora richiama la sofferenza, carattere costituivo della condizione degli schiavi. Se la Vergine è madre di Dio, Yemayá è madre degli orichas, anche se non ha con essi una relazione materna.

Vi sono anche importanti differenze: la Virgen de Regla ha Gesù tra le braccia, mentre in generale Yemayá è sola (solo raramente con gli Ibeys, figli di altri orichas, ma allevati da lei), contornata da una stella, dal sole, da una barca che rinviano al suo stretto legame con la natura. Dal suo ventre sono sgorgati i fiumi e tutto ciò esiste sulla terra; l’abbondanza dei suoi seni è segno esplicito della sua forza fecondante, mentre il suo ruolo cosmologico è sottolineato dal fatto che, quando non c’era ancora la separazione tra il mare e la terra, si gettò in mare e con il suo sacrificio fondò l’ordine attuale dell’universo (Lahaye Guerra e Zardoya Loureda 1996, pp. 65-66). È indomabile e astuta, ama il lusso, protegge i suoi devoti, ma la sua collera è tremenda; quasi il contrario della Mater Dolorosa con i tratti sbiaditi di una figura femminile idealizzata. Yemayá è una vera forza della natura e rinvia alla maternità, una potenza cosmogonica autonoma, la cui esistenza-funzione non si risolve esclusivamente nel rapporto materno con il figlio sacrificato per riscattare l’umanità, come invece accade a Maria. La complessità della figura di Yemayá è data anche dal suo manifestarsi in sette caminos, nei quali essa è legata ai diversi aspetti della natura e dell’acqua in particolare (per esempio, alla spuma del mare o all’acqua torbida) o assume tratti caratteriali differenti (è una potente regina o si pavoneggia nelle feste accettando le lodi).

Come ha dimostrato Ortiz, il processo di transculturazione è sempre selettivo: di un processo culturale imposto non tutti gli elementi sono recepiti, ma solo quelli che più si adattano alle condizioni strutturali del sistema relazionale. Così la figura di Yemayá è connessa alla luna, in particolare alla luna piena, ossia ai ritmi biologici della vita umana e della natura, che fanno parte della sua femminilità e maternità; essa però non può incarnare una concezione soteriologica ed escatologica, presente nel cristianesimo e in modo diverso nei culti misterici. Come tutti gli orichas, Yemayá non promette e non può garantire la salvezza in un mondo diverso da quello terreno; essa si limita a dare appoggio e protezione nel mondo quotidiano e concreto, nel quale essa è immanente. Persino il colore nero della madre e quello bianco del figlio della Virgen de Regla hanno significati diversi secondo i contesti: se originariamente potrebbero rappresentare l’antica contraddizione tra la tradizione cristiana mediorientale e quella africana, nella società coloniale, imposta dagli Spagnoli, evidenziano il drammatico contrasto tra colonizzatori e Africani, tra schiavisti e schiavi. In definitiva la Virgen de Regla e Yemayá possono essere considerate elementi di uno stesso insieme simbolico, due figure di una maternità completamente diversa: secondo la cosmovisione cristiana la prima è madre in senso morale e sociale, la seconda è la manifestazione di una maternità cosmica indomabile di origine africana. Yemayá, grazie al suo legame con la forza indomabile della natura, rappresenta anche la volontà di resistenza degli schiavi contro il processo di distruzione materiale e culturale della colonizzazione, contrapposta all’atteggiamento sostanzialmente passivo della Vergine Maria, anche se la sua immagine rinvia ambiguamente alla patria africana, luogo idealizzato di origine e di rifugio. Il complesso Virgen de Regla-Yemayá costituisce una forma di “sincretismo vitale”, nel quale si manifesta ancora oggi un conflitto tra i fedeli e l’autorità ecclesiastica.

Il “sincretismo vitale” della Virgen de la Caridad del Cobre con le sue contraddizioni rinvia alla storia stessa di Cuba. La ricca e dettagliata storia del suo culto è ben ricostruita da Olga Portuondo Zúñiga nel suo prezioso libro (2008), anche se non sono completamente condivisibili le conclusioni. Fu il capitano di artiglieria Francisco Sánchez de Moya a far scolpire una copia della Virgen de la Caridad de Illescas (Castilla-La Mancha) per portarla a Cuba alla fine del secolo XVI. Secondo la ricostruzione della Portuondo Zúñiga (2008, p. 102), invece, il capitano portò con sé l’immagine di Nuestra Señora de Guia Madre di Dio sempre di Illescas e la collocò in una cappella sul monte del Cardenillo, sopra la miniera di rame vicino alla città di Santiago del Prado, per favorire la devozione mariana degli schiavi neri. Nel santuario di Illescas si conserva ancora oggi una figura scolpita nel secolo XII o XIII, che ritrae la Vergine nera seduta con il bambino Gesù in braccio. Nel secolo XIX avviene un’importante trasformazione: si abbandona la tradizione delle vergini nere e si fa scolpire una figura dal volto bianco e rosato utilizzata anche oggi nei riti. La Virgen de la Caridad cubana si presenta ai fedeli come una scultura solo in parte lignea di 44 cm dal volto bruno, che sostiene Gesù con il braccio sinistro, mentre nella destra solleva una croce. Sul suo vestito dorato risalta lo scudo simbolo della nazione cubana.

Secondo un documento risalente del 1687-1688 (Portuondo Zúñiga 2008, pp. 43-44), che raccoglie il racconto di un supposto testimone degli eventi Juan Moreno, tra il 1612 e il 1613 due indigeni taíno (Rodrigo e Juan de Hoyos) e un bambino nero di 10 anni (Juan Moreno appunto), il cui nome richiama l’appartenenza razziale, andarono in barca nella baia di Nipe (Holguín) per cercare nelle saline lì dislocate il sale marino impiegato per preparare il cibo per i lavoratori delle miniere di rame situate presso Santiago del Prado, vicino a Santiago de Cuba (regione orientale). Mentre navigavano nella baia, videro qualcosa che galleggiava sulle onde sopra una tavola in cui era scritto “Io sono la Virgen de la Caridad”. Si trattava di una statua che essi presero per collocarla nel solito bohío situato nel villaggio di Barajagua, dove vivevano indigeni e neri, che lavoravano insieme nella miniera di rame di proprietà della Corona di Spagna. La leggenda indica una serie di fatti importanti: la Vergine giunge dal mare, è collocata inizialmente in un bohío, luogo dotato di sacralità per gli indigeni, è scoperta da individui appartenenti al gruppo subalterno, numerosi miracoli che sembrano indicare il luogo più opportuno dove è più opportuno sistemare l’immagine sacra. Questi fatti miracolosi sono interpretati come segni con i quali la Vergine sceglie la propria collocazione, ma molto più probabilmente nascondono il conflitto tra indigeni, neri e Spagnoli per il possesso dell’immagine. Infatti, questi ultimi alla fine la trasferiscono nella chiesa parrocchiale di Santiago del Prado, nella quale i fedeli erano distribuiti secondo l’origine etnica e collocazione sociale. Un altro evento miracoloso sembra risolvere definitivamente la disputa: nelle montagne, che stanno sopra l’ingresso della miniera, appaiono tre luci meravigliose, che indicano il luogo prescelto dalla Vergine per il suo santuario. Nel 1620 invece l’immagine fu portata nell’ospedale per i lavoratori della miniera, sede normale in Spagna per la sua speciale relazione con la malattia, la sofferenza e la morte. Ma dopo qualche anno la Vergine fu definitivamente sistemata in un eremo costruito nel luogo indicato dalle luci meravigliose.

Fonti storiche del 1701 e del 1766 riportano la leggenda ampiamente rimaneggiata. Una fanciulla avrebbe udito la vergine affermare che la sua immagine doveva essere posta in cima al monte. Anche qui altri elementi meravigliosi: una tempesta avrebbe sorpreso i tre scopritori, che però sarebbero stati salvati dalla Vergine e avvolti da una luce straordinaria. I tre personaggi cambierebbero anche nome, diventando i tre Juanes, identificati con le tre differenti etnie più importanti di Cuba: indigena, nera e bianca. La trasformazione della leggenda sembra suggerire il percorso compiuto dalla Virgen de La Caridad per diventare il simbolo della cubanidad, riconosciuto anche dalla Chiesa cattolica. Scoperta da indigeni e neri, che se ne impossessano, essa ne diviene il simbolo più adeguato a rappresentare la loro condizione di sofferenti per l’oppressione spagnola. Alla fine del Settecento essi la utilizzano come punto di riferimento nella concreta lotta condotta contro il patriziato creolo, che per estendere il latifondo vuole trasformarli in schiavi di sua proprietà e privarli dei loro diritti in quanto sottomessi alla Corona di Spagna (Portuondo Zúñiga 2008, pp. 177-183).

Vari autori hanno cercato di comprendere le trasformazioni indigene della Madre di Dio cristiana in relazione alle entità sovrumane femminili, soprattutto Atabex o Atabeira, legata alla pioggia, alle maree, alle mestruazioni, alla luna, e protettrice delle partorienti. È proprio attraverso la mediazione di queste figure vissute come la fonte e l’origine della vita, da cui emana l’energia dell’universo, che la Vergine viene inserita nel sistema cosmologico autoctono. E la predilezione degli indigeni cubani per la Virgen de la Caridad si spiega proprio con la sua maggiore vicinanza alle dee madri, le quali come quest’ultima apparivano e scomparivano, muovendosi tra la vita e la morte: un’altra maniera del manifestarsi della vita nella cosmologia autoctona. A questo proposito è importante osservare che le immagini delle vergini, introdotte nelle Antille dagli Spagnoli, furono incorporate dai Taíno nel sistema religioso dei cemí e dotate di particolari poteri, analogamente a quanto avvenne in Messico con le immagini dei santi, di Cristo, di Maria che, come ha mostrato Gruzinski (1990), sono stati assimilati alle divinità preispaniche, dando vita a un variegato intreccio di funzioni e di tratti caratteristici. Questo fatto ci spinge a rivalutare l’importanza antropologica del contributo indigeno alla costruzione dell’identità culturale. Sulla base di questi elementi possiamo affermare che la figura della Caridad fu recepita e incorporata in prima istanza dai Taíno attraverso il loro immaginario cosmologico, anche perché aveva una grande potenza, dovuta alla sua relazione con i dominatori. Non a caso, come ha mostrato l’ultimo restauratore dell’opera Francisco Figueroa Marrero, la sua testa è stata fatta “con una specie di pasta vegetale o di mais”, secondo la tradizione mesoamericana (Portuondo Zúñiga 2008, p. 83). Successivamente la Virgen de la Caridad viene accolta dai neri schiavi, grazie ai tratti animistici e panteistici delle sue origini. È possibile che l’immagine attuale della Virgen de la Caridad non sia molto diversa diversa da quella delle origini, anche se probabilmente il suo volto, che è trigueño o cobrizo (abbronzato, color del rame), è stato modificato ed abbellito. Anche il piccolo Gesù ha tratti che ricordano gli indigeni.

Il sincretismo ha coinvolto anche la Ochún yoruba, considerata simbolo della civetteria, della grazia e della sessualità femminile, legata alle acque dolci, signora del rame e anch’essa protettrice delle partorienti. È la moglie di Changó, legato al fuoco, al fulmine e della guerra, e sorella di Yemayá: è una splendida mulatta, allegra, amante del ballo e delle feste, anche se vi sono caminos nei quali è molto seria. Secondo la Portuondo Zúñiga (2008, pp. 248-249) probabilmente l’associazione tra la Virgen de la Caridad e Ochún cominciò a svilupparsi all’interno della Santería verso la fine del XIX secolo nella regione dell’Avana-Matanzas (Occidente) e solo negli anni Trenta del XX secolo a oriente. Ochún è dotata di molti attributi, come ventagli di sandalo, la piuma del pavone reale, specchi, gioielli, corallo, braccialetti, una mezzaluna, una stella, un sole, campanelle, oro e rame. Il colore che la distingue è il giallo, associato al miele e all’oro, che a partire dagli anni Trenta caratterizza anche il vestito e il manto de la Caridad del Cobre, ugualmente ingioiellata. Ochún ha un ruolo molto importante nello sviluppo delle relazioni politiche e etniche tra le diverse componenti del popolo cubano. Secondo quanto scrive Madeline Cámara (1999, p. 11) Ochún decide di lasciare l’Africa e di recarsi a Cuba per riunirsi ai suoi figli lì deportati. Tuttavia, è preoccupata per il viaggio e chiede aiuto e consiglio a Yemayá, la quale per tranquillizzarla le dice che Cuba assomiglia molto all’Africa, anche se non tutti i cubani sono neri. Allora Ochún dice a Yemayá: “Liscia e rendi morbidi i miei capelli con l’acqua dell’oceano e schiariscimi la pelle, così quando arriveremo a Cuba non sarò né nera né bianca e sarò amata da tutti i cubani. Tutti saranno miei figli: neri, mulatti, bianchi”. Il significato del mito è chiaro: Ochún si propone agli abitanti di Cuba, di cui in realtà menziona solo una parte, come punto di riferimento comune, e con una forza di trasformazione straordinaria. Infatti tutti, nonostante le differenze di origini e di storia, saranno trasformati in suoi figli, tutti diventeranno cubani, articolazioni della multiforme e variegata cubanidad, prodotto sincretico cui la ideologia politica dello Stato rivoluzionario ha attribuito piena legittimità e validità culturale. Tale ruolo di Ochún è parallelo a quello della Caridad del Cobre, chiamata affettuosamente Cachita, che è considerata madre e protettrice di tutti i cubani ed è stata incoronata patrona dell’isola dalla Chiesa cattolica nel 1916.

Se riflettiamo sul processo che ha coinvolto figure sacre appartenenti a tre diversi orizzonti culturali, possiamo evidenziare i diversi momenti della sincretizzazione che hanno prodotto la Virgen de la Caridad cubana, cui costantemente si associa e si contrappone la sensuale figura di Ochún. La Virgen de la Caridad, figura passiva e subordinata nell’orizzonte cattolico, viene recepita e rigenerata attraverso la mediazione delle figure femminili indigene, con le quali viene in qualche modo mescolata. Gli schiavi africani si appropriano della Vergine trasfigurata dal contatto con la figura taína, di cui colgono la carica energetica, che abbiamo riscontrato anche nella figura di Yemayá. Nei primi secoli della colonizzazione la Virgen de la Caridad, originario simbolo del dolore e della sofferenza, adeguatamente ripensata, è vissuta ed usata come emblema e simbolo della povera comunità dei cobreros di origine india e africana, consolidando così simbolicamente un primo legame di interdipendenza, sui cui si costruirà successivamente la società cubana decolonizzata. Successivamente, man mano che si afferma la volontà della élite creola di rendersi indipendente dalla Spagna, del cui apparato repressivo non ha più bisogno per mantenere in vita la schiavitù, il mito fondativo del culto alla Virgen de la Caridad si trasforma, e i suoi protagonisti rappresentano le diverse componenti del popolo cubano, collocati metaforicamente nella stessa barca. Essi sono descritti come uguali dal momento che le loro differenze sono annullate dal comune culto della Vergine. Essa assume così il ruolo agglutinante che Eric J. Hobsbawm (1991, p. 81) attribuisce alle “sacre icone”, le quali costituiscono un fattore importante del protonazionalismo, dal momento che sono le uniche in grado di “fornire una realtà palpabile a una comunità per altro verso immaginaria”. Infatti, come è accaduto ad altri emblemi religiosi, nel XIX secolo la Virgen de la Caridad diventa il simbolo della lotta indipendentista contro gli Spagnoli e quindi può degnamente rappresentare il nuovo e grande sincretismo della nazione cubana. Grazie alla sua capacità di conciliare le differenze e di annullarle almeno sul piano simbolico, essa si trasforma e da emblema locale assurge al ruolo di simbolo nazionale, all’interno della cornice ideologica fornita dalla Chiesa cattolica.

Sia la coppia Virgen de Regla-Yemayá sia quella Virgen de la Caridad-Ochún sono figure assimilate dai fedeli, ma rinviano, ciascuna a suo modo, alle contraddizioni mai del tutto risolte tra eredità coloniale, mondo preispanico distrutto e retaggio materiale e culturale degli schiavi africani. Questo insieme simbolico, che mette insieme tre orizzonti culturali, è certamente il prodotto di un grande sforzo di aggregazione, ma rivela anche le contraddizioni di un doloroso e sconvolgente processo. Si potrebbe aggiungere che lo Stato rivoluzionario cubano è sorto proprio per affrontare e per risolvere tale dirompente contraddizione, le cui tracce non sono certo del tutto cancellate nel tessuto sociale della Cuba contemporanea. Un tale obiettivo può essere raggiunto solo con interventi concreti nelle relazioni sociali, ma ha bisogno di un forte strumento ideologico: di qui l’elaborazione politica del cosiddetto nazionalismo inclusivo. A differenza del nazionalismo europeo che mira ad escludere e a distinguere i puri dagli impuri, il nazionalismo inclusivo non nega la differenza e la contraddizione, ma cerca di superarle in una nuova sintesi, che cerca di coniugare in maniera non conflittuale uguaglianza e differenza.

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