Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo. (R.F.)
1. Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano - interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche - oltre che, ovviamente, pratiche - che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere - questa la tesi - non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.
In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.
2. Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: “Sì, sono stato stalinista” (2836). Spiega:
“Per molti comunisti di «base» rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria” (2836).
Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linea di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: “Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori” (2837). In sostanza:
“Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco” (2839). Insomma: “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto” (2840).
Questo - oramai consapevole - rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.
Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:
“Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo” (2841).
Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni:
“Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora” (2842).
Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.
Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:
“Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].
Note:
[1] Originariamente apparso in “II menabò 7 - Una rivista internazionale", Einaudi, Torino 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127ss.
[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in “Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana”, fase. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in “Nuova Corrente”, n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205ss.
[3] Originariamente apparso su “La repubblica” del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).
[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.
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