domenica 13 settembre 2020

Crisi del welfare e crisi del lavoro, dal fordismo alla Grande Recessione: un’ottica di classe e di genere. - Riccardo Bellofiore, Giovanna Vertova

Da: Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova - In: la Rivista delle Politiche Sociali / Italian Journal of Social Policy, 1/2014, pp. 103-122.
Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi. -
Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
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  1. Nelle pagine che seguono proveremo a impostare un discorso – sicuramente parziale – sull’intervento dello Stato in economia e la natura del welfare state. Discuteremo, in particolare, le proposte di introduzione di un reddito di esistenza e di riduzione di orario di lavoro, mettendole a confronto con una prospettiva incentrata invece sulla socializzazione dell’investimento e su un piano del lavoro, in un’ottica orientata ad una piena occupazione degna di questo nome. Nel nostro ragionamento, che muoverà sullo sfondo della dinamica capitalistica dal «fordismo» al neoliberismo e alla crisi attuale, ci muoveremo integrando la questione di classe con quella di genere.
  2. Definiamo come welfare quelle forme di intervento statale sulle economie di mercato che mirano a ridurre l’insicurezza nella soddisfazione dei bisogni fondamentali mediante l’erogazione di trasferimenti monetari, e/o di politiche regolative, e/o della fornitura di beni e servizi, e/o della creazione di infrastrutture. Tra le insicurezze cui porre rimedio vi è la disoccupazione – e dunque nel welfare rientra l’erogazione di un reddito indipendentemente dal lavoro; come anche le stesse politiche keynesiane di gestione della domanda, se finalizzate al pieno impiego. Altre forme di assicurazione sociale coprono malattie o infortuni, aiutano nella vecchiaia o nella maternità. Se passiamo dal lato della domanda di welfare a quello dell’offerta, o meglio della copertura dei suoi costi, troviamo (con maggiore o minor peso nelle diverse esperienze) i contributi sociali, l’imposizione fiscale, la fissazione di prezzi dei servizi, o ancora servizi in natura.
  3. Il welfare va ovviamente ricompreso nel sistema di riproduzione sociale della forza lavoro, essenziale per il sistema (capitalistico) di produzione di beni e servizi nella forma di merci. Il sistema di riproduzione sociale non si esaurisce nel sistema di welfare pubblico, che ne costituisce solo un sottoinsieme. Un secondo sottoinsieme è il sistema di welfare familiare, basato sul lavoro volontario e non pagato dei componenti della famiglia (ma anche sul lavoro pagato delle immigrate). Per riprodurre la forza lavoro non basta acquistare merci sul mercato o ottenerle tramite il settore pubblico, è necessaria pure una ingente quantità di lavoro non pagato per rendere queste merci usufruibili. Inoltre, è necessario che qualcuno/a si prenda cura dei bambini e degli anziani. Tutto questo lavoro non pagato comprende sia il lavoro domestico che il lavoro di cura.
  4. Uno sguardo storico ci mostra una continua espansione del welfare pubblico, dall’istruzione elementare pubblica nella prima metà dell’Ottocento a primi schemi di assicurazione sociale nella Germania bismarckiana della seconda metà del secolo, alla più estesa forma che si può far risalire a Beveridge. Le diverse realtà nazionali sono state non poco disomogenee e siamo testimoni di ritorni indietro, che possono investire sia i bisogni di cui lo Stato si fa carico, sia i soggetti coperti, sia il livello di soddisfacimento. Possiamo individuare nel secondo dopoguerra, dopo un ciclo espansivo che ha visto crescere la domanda (soddisfatta) di welfare pubblico dagli anni quaranta alla prima metà degli anni settanta, un ciclo recessivo. Se si è assistito ricorrentemente ad attacchi, questi non si sono comunque mai concretizzati in una totale distruzione del c.d. Stato del benessere – così come la critica del keynesismo non ha mai veramente cancellato l’intervento di politica economica anticongiunturale e discrezionale. Si tratta probabilmente di discontinuità storiche irreversibili.
  5. Il sistema di produzione, già prima della crisi, presenta delle forti disparità di genere, nonostante il processo di emancipazione femminile e le battaglie femministe. Donne e uomini partecipano in modo diverso al mercato del lavoro sia in termini quantitativi che qualitativi. Queste differenze sono comuni a tutti i paesi capitalistici ma, in Italia, sono più marcate: le donne italiane partecipano meno al mercato del lavoro. Il tasso di femminilizzazione dell’occupazione italiana è ben al di sotto di quello delle altre aree avanzate. Quando si quantifica la perdita dei posti di lavoro di uomini e donne, bisogna sempre ricordarsi che la base di partenza è diversa.
  6. La convinzione a cui qui ci si atterrà è che il welfare pubblico è caratterizzato da una intrinseca ambiguità: risultato di lotte sociali dal basso e strumento di controllo statuale dei soggetti dall’alto, possibile luogo di compromesso tra classi, sempre esito di un conflitto. Per un verso, è rivendicazione di una soddisfazione di bisogni «dovuta», ma dunque anche di una solidarietà sociale estesa, indipendente dalle esigenze immediate della produzione capitalistica. Per l’altro verso, in quanto regolazione delle modalità di riproduzione della forza-lavoro, è inclusione «produttiva» della classe lavoratrice, anche dal lato del sostegno della domanda, ed è inoltre sterilizzazione dei rischi sociali ed economici originati dall’esclusione a cui è condannata la sovrappopolazione «eccedente». Visto in questa luce, il welfare pubblico può ben esser letto come una forma di rappresentazione a livello statuale del lavoro salariato – esso stesso doppio e, appunto, ambiguo, nei confronti del capitale: suo antagonista, ma anche sua parte. Frutto e luogo della lotta di classe, il welfare pubblico è espressione di una «mediazione». Lo stesso avviene, peraltro, dentro i luoghi di produzione, irriducibili a nient’altro che luogo di un conflitto interrotto soltanto dal dominio incontrastato del capitale, come ha voluto un certo operaismo. Il luogo di lavoro è spesso e volentieri anch’esso luogo del consenso oltre che della separazione tra lavoratori.
  7. Il sistema di welfare familiare presentava delle notevoli disuguaglianze di genere già prima della crisi. Utilizzando come indicatore il tempo dedicato al lavoro domestico, l’Italia presenta la maggiore disparità di genere: le italiane impiegano più tempo delle donne degli altri paesi per il lavoro domestico; gli italiani meno. Questa maggiore differenza italiana dipende sia dalla particolare situazione del welfare pubblico che dai forti stereotipi sociali e culturali, che vedono ancora la donna come «naturalmente» portata al lavoro domestico e di cura.
  8. Il welfare pubblico completa, con il taylorismo-fordismo e il keynesismo, una terna finalizzata a ridurre le incertezze dell’accumulazione capitalistica costruita nei primi decenni del secolo scorso. Il taylorismo-fordismo, attraverso l’incorporazione nel sistema di macchine dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, aveva reso prevedibili l’erogazione del lavoro e il flusso della produzione. Analogamente il keynesismo, attraverso la gestione pubblica della domanda e la stabilizzazione della quota dei consumi, aveva reso prevedibile lo sbocco sul mercato della produzione crescente. Conseguenza di queste tre diverse innovazioni fu una minore autonomia del mondo del lavoro. Il taylorismo-fordismo si fonda sull’espropriazione della conoscenza e dell’organizzazione operaia del processo di lavoro; il sapere e la coscienza del lavorare sopravvengono al lavoratore dall’esterno. Il keynesismo interviene a ovviare alle conseguenze di una compiuta inclusione nell’universo capitalistico del consumo operaio, che però va vista nella sua interazione con le trasformazioni del welfare familiare. Si può dunque sostenere che i soggetti siano ora dipendenti da altro – uno Stato alieno e burocratico che provvede il welfare pubblico – anche per quel che riguarda la solidarietà collettiva. Eppure è in questa forma rovesciata che si afferma il dato positivo e potenzialmente emancipatorio di una mutua generale dipendenza, senza cui una liberazione non è pensabile. Analogamente, può svilupparsi una parziale mercificazione della riproduzione familiare, che però è essa stessa in parte condizione dell’emancipazione femminile, a sua volta intrecciata a una possibile liberazione. Vanno evitate posizioni apologetiche o romantiche nell’uno e nell’altro caso.
  9. Il problema da cui nasce il welfare pubblico è, in altra forma, il medesimo affrontato da Keynes: la sistematica riproduzione della «povertà in mezzo all’abbondanza», l’esclusione come altra faccia della crescita economica. Una situazione del genere è moralmente accettabile dal punto di vista di un universalismo astratto? Lo sarebbe se la povertà in mezzo all’abbondanza fosse un fenomeno transitorio, superato dallo stesso procedere dell’accumulazione privata di capitale; e/o se le condizioni dei poveri in questa società fossero comunque migliori di quelle che potrebbero loro garantire altre organizzazioni della società; e/o, ancora, se l’esser povero fosse frutto di una libera scelta. In questo caso, allora, sarebbe perfettamente legittimo accontentarsi della carità (privata), e non sussisterebbe alcun obbligo sociale ad intervenire sul meccanismo economico-sociale.
  10. La riproduzione della povertà ha però ragioni di sistema. Se si accetta questo punto diviene evidente che è (stato) inevitabile muoversi, anche da un punto di vista «borghese» quale quello di Keynes o Beveridge, verso un sistema di welfare pubblico universalistico e inclusivo, che garantisca diritti positivi a tutti coloro che si trovano in certe, specifiche, condizioni. Tanto meno universalistico e inclusivo è un sistema di welfare pubblico – o tanto più questi caratteri sono indeboliti come conseguenza della crisi economica o dell’evoluzione politica tanto più facilmente aumenta la percentuale di coloro i quali ritengono di pagare costi eccessivi per servizi di cui non godono direttamente; tanto più, di conseguenza, si riduce il movente egoistico per aderire. È quanto avvenne in forza della ristrutturazione capitalistica successiva alla crisi del keynesismo e del fordismo. Il lavoro diviene sempre più disomogeneo, frammentato e precarizzato, mentre si riduce quantitativamente nella grande industria manifatturiera. Si indebolisce la cultura universalistica, la riconoscibilità stessa dei bisogni degli altri, l’interesse individuale al welfare pubblico – oltre che l’area da cui prelevare i fondi per il sistema, di cui perciò aumentano i costi a carico dei singoli, con ulteriore delegittimazione dello Stato del benessere.
  11. Le ultime considerazioni impongono di mettere in evidenza un carattere centrale del welfare state che abbiamo alle nostre spalle, carattere che abbiamo sinora lasciato in penombra. Si tratta di quella che è stata definita la sua natura «produttivistica». Abbiamo visto, sul piano astratto delle categorie, come il welfare (pubblico, ma anche familiare) sia sussidiario rispetto ad un’organizzazione sociale fondata sulla centralità della produzione capitalistica di merci. In realtà, tale sussidiarietà ha caratterizzato la stessa articolazione concreta del sistema. Il welfare state dei primi trent’anni del secondo dopoguerra è stato economicamente sostenibile grazie ai redditi monetari che il lavoratore (maschio adulto) otteneva da un’occupazione stabile ed elevata, oltre che grazie ai servizi in natura che venivano erogati all’interno della famiglia. Il welfare pubblico interveniva, in seconda istanza, a integrare o a sostituire il reddito da lavoro o i servizi familiari, quando questi facessero difetto, con riferimento a particolari bisogni fondamentali. Al tempo stesso gli «esclusi» venivano talora sostenuti prevalentemente attraverso una spesa monetaria per trasferimenti. Quanto più cadevano l’occupazione e la produttività, e quanto più doveva aumentare la spesa per trasferimenti, tanto più la contraddizione si scaricava sulla «viabilità», non solo economica, ma anche sociale e politica del modello.
  12. Elevata occupazione ed elevato salario accrescevano il monte salari e perciò le risorse a cui attingere. Era possibile garantire a tutti, incluse le classi medie, un eguale trattamento, garanzia di qualità dei servizi, senza che i costi apparissero esorbitanti, in forza di una redistribuzione regressiva dal lavoro salariato alle altre fasce di reddito. La tentazione di riservare il welfare pubblico alle fasce basse di reddito poteva essere respinta, allargando al contempo il consenso nei confronti del sistema: a condizione però che si mantenesse la simbiosi tra crescita produttiva e crescita occupazionale. La crisi del welfare state si presenta come inevitabile nel momento in cui il modello di accumulazione fordista-keynesiano entra in crisi. Quest’ultima crisi viene scambiata per una più generale crisi dell’intervento statale, una presunta «crisi finale» dello Stato. Nulla di tutto ciò. Benché oggetto di critica violenta da parte degli ideologi liberisti, lo Stato capitalistico si è in effetti ben guardato dall’abbandonare un ampio interventismo in economia. Basti pensare a Reagan, che ha compresso sì la spesa sociale, ma ha fatto esplodere quella militare e il disavanzo di bilancio. O ancora, nello stesso arco di anni, basti pensare alla ristrutturazione delle grandi imprese italiane, che fu finanziata in gran parte da trasferimenti diretti e indiretti alle imprese da parte dello Stato. Lungi dal segnalare una crisi dell’intervento statale sull’economia o un eccesso di keynesismo, i disavanzi del bilancio pubblico sono stati componenti strutturali della strada verso una mutata forma dell’accumulazione del capitale, e di una ridefinizione del ruolo dello Stato. Una ridefinizione che si è tenuta però ben strette le leve degli strumenti di controllo congiunturale, la valvola di sicurezza dell’intervento di ultima istanza delle banche centrali di fronte al pericolo di crisi finanziarie generali, la possibilità di sostenere il profitto tramite disavanzi del bilancio. Ciò risulta vero persino nell’attuale Grande Recessione, dove l’esperienza europea, soprattutto nell’area dell’euro, fa caso a sé.
  13. È vero che il keynesismo è in crisi. A sinistra l’interpretazione più diffusa di questa crisi è però quanto mai discutibile. Sulle orme degli aspetti più deboli della scuola della regolazione francese, il c.d. modello fordista-keynesiano viene interpretato come fondato su un aumento del salario reale (diretto e sociale) proporzionale alla crescita della produttività: in questo modo, grazie cioè all’accordo sociale mediato dallo Stato-nazione tra grande sindacato e grandi imprese, l’elevata crescita della produttività garantita dal fordismo avrebbe incontrato una domanda adeguata sui mercati, e non si sarebbe più incorsi in una Grande Crisi come quella degli anni trenta. Le cose stanno diversamente. Nel modello teorico «keynesiano» di una economia chiusa ad essere determinante non è la spesa per consumi salariali, ma la spesa «autonoma»: quella per investimenti privati, che lo Stato può sostenere agendo sulle aspettative e in minor misura agendo sul costo del denaro, e quella pubblica per beni e servizi, che deve intervenire suppletivamente per raggiungere il pieno impiego; in una economia aperta può sovvenire una soluzione neo-mercantilista di esportazioni nette. Lo stesso neoliberismo reale ha avuto il carattere di un «keynesismo privatizzato», sull’asse di una gestione macroeconomica che sosteneva una inedita forma di spesa autonoma, il consumo a debito, e di un intervento (se si vuole, foucaultiano) sulla «governamentalità» dei processi che colpiva welfare, mercato del lavoro e produzione, per (ri)costruire dall’alto i «soggetti» di un presunto, inesistente, mercato «libero». Non ha mai cessato di essere vero che l’occupazione e il salario crescono perché trainati dal buon andamento della domanda autonoma, non viceversa.
  14. La crisi del keynesismo non comporta affatto che l’armamentario tecnico delle politiche della domanda e dell’occupazione sia inutilizzabile. Certamente, politiche monetarie autonome da parte di un singolo Stato sono impossibili (tranne che per il paese guida), non solo nell’area dell’euro: solo però se ci si ostina a ritenere intoccabili i movimenti internazionali di capitale a breve. È difficile comprendere la razionalità, anche economica, di un simile tabù. Altrettanto certamente, politiche fiscali anticongiunturali sono di estrema difficoltà se si nutre l’ideale della finanza «sana», cioè di pareggi del bilancio pubblico, quando molti Stati hanno i loro conti in rosso. Anche in questo caso è però difficile capire perché sia oggi così indiscussa la saggezza che prende tremendamente sul serio il debito della mano destra con la sinistra (quale è appunto, secondo Ricardo, il debito pubblico) e che si rallegra invece se aumenta il debito estero (se cioè affluiscono capitali dall’estero, con il corrispettivo o di quote di apparato industriale venduto o di pagamenti di interessi che usciranno dal paese), con il suo inevitabile complemento di accresciuta dipendenza dall’estero. Su questi terreni e su altri, si deve dire, le vecchie categorie keynesiane mantengono intatto il loro potenziale critico.
  15. La crisi del welfare pubblico non ha nulla di naturale, essa si svolge sullo sfondo di una mutata ma pur sempre attiva gestione macroeconomica, di una diversa corporate governance nel segno della valorizzazione azionaria, di una ridefinizione delle politiche del mercato del lavoro nel senso del workfare, rispetto al modello dei primi trent’anni del secondo dopoguerra. Alla doppia crisi, del fondamento lavoristico e del fondamento universalistico del welfare pubblico, si è risposto con una «particolarizzazione» del medesimo: riducendo l’area dei beneficiari del sistema, restringendola ad un «cuore produttivistico», ormai sempre più falcidiato e instabile, e aumentando contemporaneamente il peso del finanziamento che grava sulle classi medie. Si è creata in questo modo una spirale esplosiva, o meglio implosiva, distruttiva del consenso originario diffuso di cui il welfare pubblico pur godeva; si sono resi più facili ulteriori interventi selettivi, discriminatori, punitivi, che hanno inciso sulla qualità del servizio e sulla (disi)stima sociale nei confronti di chi ha bisogno di assistenza. Un welfare pubblico sempre meno equo accentua i suoi caratteri di discrezionalità e di burocrazia.
  16. Il quadro che ne emerge è disperante. La tentazione di pensare che non esistono alternative è forte. L’ineluttabilità della crisi del welfare pubblico è d’altra parte tutt’altro che scontata. Per dirne una, l’esplosione dei costi è strettamente dipendente dalla presente organizzazione della giornata lavorativa sociale. Facciamo un esempio. L’argomento forte dei riformatori della previdenza contrari alla ripartizione e favorevoli alla capitalizzazione era il seguente: l’invecchiamento demografico riduce il numero di giovani lavoratori che contribuiscono alla previdenza ed aumenta il numero di vecchi pensionati che ne usufruiscono; inevitabile, se ne concludeva, allungare la giornata lavorativa, abbandonare la solidarietà intergenerazionale, incentivare pensioni integrative, e così via. L’argomento sembra inoppugnabile, ma solo dentro l’attuale struttura della giornata lavorativa sociale: non più se si immagina, e ci si muove, per un modello di lavoro intermittente nell’arco vitale, in cui non sia più rigida la divisione tra giovani che risparmiano e vecchi che consumano, in cui cioè il lavoro sia distribuito e flessibile in tutte le età. Da questo esempio (ma se ne potrebbero fare altri) è chiaro che muoversi verso un modello alternativo di welfare pubblico richiederebbe una riorganizzazione profonda, dal basso e dall’alto, del sistema produttivo e sociale (e, come diremo, della stessa riproduzione sociale: si impone, in altri termini, un’attenzione a 360 gradi alla questione di genere).
  17. Quali possono essere le linee di questo modello alternativo? Si suggerisce talora di muoversi verso una drastica destatalizzazione, incentrata su un ritorno al mutualismo originario del movimento operaio, su una autogestione della soddisfazione dei bisogni fondamentali da parte di comunità locali. Su una linea convergente si articola la retorica dei «beni comuni». Sono proposte affascinanti, ma destinate ad una pericolosa impotenza: quando i nodi sono nazionali o internazionali, un modello che si costringe coerentemente al localismo rischia di trovarsi costantemente spiazzato, perché altri e altrove decideranno i vincoli e le regole del gioco. Il movimento dei beni comuni non può raggiungere un risultato duraturo se non tiene conto della dimensione di classe e di quella di genere del lavoro e della riproduzione sociale; e se non colloca la propria azione nell’orizzonte di una ridefinizione strutturale dell’intervento macroeconomico.
  18. Viene ricorrentemente avanzata anche l’idea di una riduzione dell’orario di lavoro. Se però la riduzione di orario si accompagnasse a una riduzione del salario reale, dentro l’attuale modello di produzione e di consumo, si rivelerebbe sostanzialmente come una condivisione della penuria interna al mondo del lavoro a tutto vantaggio del profitto (e/o delle diverse forme di rendita). Per avviare a soluzione il problema dell’occupazione occorrerebbe semmai che, a parità di salario reale, gli aumenti di produttività che si vanno via via conseguendo fossero destinati a diminuzioni corrispondenti dell’orario giornaliero. La difficoltà sta però in questa circostanza, che un aumento del tempo libero potrebbe benissimo tradursi in ulteriore, secondo, lavoro dei già occupati, e non in una riduzione della disoccupazione: il che è evidentemente tanto più probabile quanto più ci si trova in un universo di bassi salari e precarizzazione del lavoro. Ed è evidente che l’unico modo accettabile di portare avanti la parola d’ordine della riduzione d’orario è quella di una generale condivisione del lavoro, non soltanto nella produzione ma anche nella riproduzione sociale.
  19. Più in generale, chi fa della riduzione d’orario a parità di salario l’asse primo, se non esclusivo, di una risposta alle contraddizioni della crisi del neoliberismo e dell’ascesa del keynesismo commette, a nostro avviso, l’errore di reputare esaurita la fase storica di uno sviluppo economico e sociale che veda il lavoro al «centro». Ragiona, in altri termini, in una logica stagnazionistica, di stato stazionario «felice», sulla scorta di John Stuart Mill o del Keynes delle «prospettive economiche dei nostri nipoti». Non è la nostra. Riteniamo, come risulterà anche dal seguito, che si possa avere autentica liberazione dal lavoro (pagato e non pagato) soltanto se essa procede assieme alla liberazione del lavoro; e che si possa uscire da una crescita meramente quantitativa soltanto se ci si muove verso uno sviluppo qualitativo.
  20. Un altro suggerimento è quello di chi vuole destinare il «non lavoro» nelle società contemporanee che si esprime in disoccupazione ad attività socialmente utili, esterne all’area mercantile della società. Il primo sarebbe lavoro concreto, il secondo resterebbe lavoro astratto. Non entriamo nel merito di questa dubbia traduzione delle categorie marxiane. Il rischio che qui vogliamo segnalare è non soltanto che nulla garantisce che questi lavori «concreti» non vengano poi riassorbiti dentro forme di produzione tradizionali «astratte», quanto piuttosto e in primo luogo che avremmo qui l’istituzionalizzazione di un’area di lavoro di fatto servile. Un’area, per di più, separata rigidamente dall’area del lavoro produttivo di valore: una sorta di gigantesca schizofrenia sociale nella dimensione stessa del lavoro – senza contare la dicotomia permanente tra lavoro nella produzione e lavoro nella riproduzione, e la questione del lavoro migrante troppo spesso accantonato, se no avremmo, come in un noto lp degli anni Settanta, una vera e propria quadrophenia.
  21. I limiti delle proposte precedenti ci inducono a dedicare un’attenzione particolare alla proposta del basic income, cioè dell’erogazione universale di un reddito c.d. di esistenza. La proposta nasce dall’esigenza di pensare ad nuovo sistema di welfare che tenga conto della precarietà dilagante. La nuova organizzazione del lavoro nei paesi a capitalismo avanzato, si dice, mette in discussione la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e inoccupazione. Occorre, quindi, inventare nuove forme di protezione sociale. Nella sua versione teoricamente più articolata si ragiona, grosso modo, così. Nel «postfordismo» dei paesi avanzati l’economia si terziarizza e l’occupazione è creata fuori dalla grande impresa manifatturiera. A ciò corrisponderebbe una produttività «immediata» del tempo di vita e delle relazioni nel territorio. Il capitale si appropria gratuitamente di questa più elevata ricchezza sociale: bisogna capovolgere questa situazione e fare in modo che il tempo di vita sia remunerato con un reddito «garantito» che integri il salario. In tal modo si appronterebbe una nuova regolazione istituzionale che renderebbe stabile il postfordismo, come la crescita del salario in proporzione alla produttività (fisica) aveva un tempo stabilizzato il fordismo. Un reddito di esistenza di tal fatta, cumulabile e incondizionato, non solo aumenterebbe la produttività sociale, ma ne redistribuirebbe i frutti e farebbe crescere la domanda.
  22. Si tratta – come è chiaro, e ancora una volta – di una misura che si colloca esclusivamente in un’ottica meramente distributiva, dando per scontata la produzione di valore/plusvalore, oltre che di ricchezza (confondendo peraltro le due dimensioni). A nostro parere la crisi recente dovrebbe avere spazzato via una supposizione del genere, che cancella i meriti astratti della misura in questione. Il problema però si complica ulteriormente quando i proponenti del basic income, credendo (illusoriamente) di avvicinarsi «realisticamente» alla proposta più radicale e incompatibile, suggeriscono che – per cominciare – un reddito venga garantito solo a fasce di precariato. A seconda della entità del reddito in considerazione la proposta è compatibile con l’orizzonte che altrove abbiamo definito social-liberista, e persino con un neoliberismo compassionevole, o con un preteso antagonismo sociale.
  23. In questo orizzonte realistico e moderato il «reddito garantito» dovrebbe essere articolato sia come erogazione monetaria (reddito diretto) sia come erogazione di beni in natura, quali beni e servizi primari (reddito indiretto). Per proteggere dal rischio di esclusione sociale dovrebbe essere erogabile ai lavoratori tradizionali in condizione di disoccupazione, ai precari a basso reddito e ai disoccupati di lunga durata. Si pensa così di riuscire anche a frenare la corsa verso il basso dei salari reali: i lavoratori avrebbero l’opportunità di rifiutare lavori servili e poco remunerati, riducendo l’offerta di lavoro e spingendo la retribuzione del lavoro «tradizionale» verso l’alto.
  24. Erogare un reddito garantito solo ad alcune categorie di soggetti rischia di aumentare, invece che ridurre, la frammentazione del lavoro. Il «nuovo» capitalismo è riuscito pienamente a dividere il lavoro, ad individualizzare la prestazione lavorativa, a mettere in contrapposizione gli interessi dei «garantiti» (anche se quantitativamente decrescenti) e quelli dei «precari». Occorrerebbe piuttosto ricomporre il mondo del lavoro, affrontare la precarizzazione non riducendola (contro le intenzioni) a fenomeno particolare ma intendendola come realtà trasversale, tale da investire sempre più anche il lavoro c.d. tipico. Siamo in realtà di fronte ad una precarizzazione generale. Per questo il reddito garantito spingerebbe tutta la struttura dei salari verso il basso. I «padroni» avrebbero tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che il lavoratore percepisce anche il reddito garantito – è successo dove la misura è stata introdotta in questi termini. Si indebolisce così la forza contrattuale di tutti i lavoratori, e si favorisce l’istituirsi di un compromesso malsano tra imprese e lavoratori: le prime offrono salari e posti saltuari e i secondi li accettano perché intanto c’è il reddito garantito. Così i «lavori buoni» spariscono e i «lavori cattivi» dilagano.
  25. L’obiezione di base è comunque quella ricordata più sopra, e che colpisce anche approcci come quelli di una riduzione d’orario a parità di lavoro come mera redistribuzione dell’occupazione esistente. Si assumeva cioè, prima della crisi, che il c.d. postfordimo (una realtà, in verità, molto dubbia), magari ribattezzato come inedita «economia della conoscenza», producesse valore e plusvalore in modo stabile. Dopo la crisi, una volta saltato in aria il neoliberismo così come lo conoscevamo, ci si immagina che il basic income possa, nel medesimo tempo, difendere i soggetti sociali e far ripartire l’economia. In verità, le forme classiche di redistribuzione hanno retto (laddove hanno funzionato) quando erano collocate in un contesto macroeconomico ben più sostenibile di quello presente. Proposte come il reddito universale di esistenza, nella misura limitata in cui possono avere una efficacia, possono al più rendere sopportabile la precarietà nel breve periodo, ma non la eliminano veramente, semmai la cristallizzano e la congelano se non si accompagnano a una rivoluzione della gestione macroeconomica che persegua con determinazione l’obiettivo di un pieno impiego di qualità. Esse determinano, alla fine, condizioni di maggior debolezza per i lavoratori, poiché rendono più accettabile la frammentazione del lavoro e conducono all’abbandono della lotta per un lavoro vero e garantito per tutti. È il fenomeno che Marx e Polanyi conoscevano bene, attraverso l’esperienza storica di Speenhamland.
  26. È indubbio che il capitalismo sia cambiato in modo significativo negli ultimi decenni. Per capirne i termini bisogna però disperdere alcune confusioni concettuali di base. La maggiore ricchezza relazionale e cognitiva della prestazione lavorativa in alcuni casi (ma non necessariamente in generale, e non certo come parte di una tendenza unilineare) attiene al lavoro concreto, non al lavoro astratto. Detto altrimenti, la sequenza per cui è il comando tecnologico e organizzativo sul lavoro vivo finalizzato a creare neovalore (inclusivo di plusvalore) vale ovunque e sempre nel capitalismo, oggi come ieri: semplicemente, può richiedere in alcuni settori, o in alcune fasi, un lavoro di proprietà (qualità) più e non meno ricche.
  27. L’interpretazione «regolazionista» del fordismo, su cui molte di queste analisi e proposte si basano, era, scontati tutti i suoi meriti della prima fase della scuola, pura mitopoiesi. Abbiamo già ricordato che la crescita postbellica è stata dovuta alla spinta della domanda autonoma (spesa pubblica elevata, investimenti privati, esportazioni) in un contesto internazionale di capitalismo da guerra fredda, irripetibile. Non principalmente alla spinta dei salari, che semmai sono stati trascinati: quando le lotte (nella produzione, e non solo nella distribuzione) hanno morso, il modello è saltato. Il capitalismo successivo, «terziarizzato» e «cognitivo», va anch’esso smitizzato. Il lavoro nel terziario è in gran parte lavoro connesso con mille fili al manifatturiero, quando non è esternalizzazione di quest’ultimo; e la stessa economia c.d. immateriale si nutre di lavori «manuali». Infine, non c’è nulla di più «materiale» del lavoro immateriale.
  28. In che senso allora il capitalismo è mutato radicalmente? Ricordiamo soltanto alcune delle circostanze più significative della fase di ascesa del neoliberismo reale: i) una gigantesca «centralizzazione» del capitale (finanziario e produttivo) senza «concentrazione» (di lavoratori in grandi imprese, con riduzione della dimensione minima d’impresa); ii) la dicotomia centro-periferia è saltata, il centro è anche dentro la Cina, la periferia è anche dentro la Germania; iii) la forza-lavoro mondiale è raddoppiata dall’inizio degli anni Novanta; iv) la concorrenza tra i global player si è fatta aggressiva, nel senso che il sovrainvestimento delle imprese in questi settori produce volontariamente sovrapproduzione di merci; v) la catena del valore nella stessa filiera del capitale «avanzato» non soltanto si fa transnazionale, ma include essenzialmente il lavoro precario in segmenti della linea di produzione; vi) il lavoro (le «famiglie») viene (vengono) intanto sussunto(/e) dentro la «finanza» (è il c.d. money manager capitalism, il «capitalismo dei fondi pensione»); vii) tutto ciò determina una continua spinta inflazionista nei c.d. mercati del capitale, proprio mentre il fenomeno del lavoratore traumatizzato appiattisce la curva di Phillips; viii) è di nuovo possibile perseguire una piena (sotto-)occupazione del lavoro (precarizzato); ix) la domanda di ultima istanza proviene dal consumo sostenuto dall’indebitamento delle «famiglie» e dall’inflazione dei capital asset (azioni, ma anche a un certo punto abitazioni), o dalle esportazioni nette; x) è intanto mutata la natura della prestazione lavorativa, non più rigida esecuzione di un piano ma flessibile perseguimento di un compito, una maggiore «autonomia» del lavoro fortemente controllata dal capitale per i mille fili di pressioni macroeconomiche (p. es., il terrorismo sul debito pubblico, i movimenti di capitale, la concorrenza globale, ecc.) e microeconomiche (p. es., il peso del mercato nell’organizzazione, il passaggio dal make al buy, la corporate governance dominata dagli shareholder e dai fondi istituzionali, ecc. ecc.).
  29. Di qui, come è chiaro, la precarizzazione universale di cui si diceva. Il lavoro precario è «continuo» ma senza «posto fisso»; quello a tempo indeterminato è sempre più incerto e aggredito: un avvicinamento oggettivo delle due figure. Intanto, il problema della «realizzazione» il nuovo capitalismo lo ha risolto senza basic income, procurandosi da sé la domanda effettiva. Un processo appunto incentrato, nel capitalismo anglosassone, sulla terna lavoratore traumatizzato, risparmiatore maniacale(-depressivo), consumatore indebitato, e in altre aree (come quella europea) sui neomercantilismi forti (come quello tedesco) e deboli (come quello italiano), o sul traino delle bolle (come in Spagna o Irlanda prima della crisi).
  30. La stabilità di quella che fu definita la Grande Moderazione era fittizia, e i nuovi processi di creazione di neovalore così come la nuova finanza insostenibili. Ciò ha reso a un certo punto impossibile una crescita trainata dal debito privato e dalle «bolle» finanziarie. Non era affatto un modello di sviluppo «spontaneo», ma la sua gestione politica non lo immunizzava dal ritorno di una grande crisi, al contrario enfatizzando il debito privato ne creava le condizioni. L’una e l’altra caratteristica non consentono una redistribuzione egualitaria, né del reddito, né dell’orario. Impongono semmai di mettere i piedi nel piatto delle questioni fondamentali, che non sono tanto distribuzione e domanda, ma finanza e produzione.
  31. Neppure un reddito universale di esistenza, figuriamoci un sussidio ai precari, può dare di per sé accesso ai beni o consentire una più libera scelta del lavoro. È chi comanda finanza, tecniche e domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione, consumo reale, quantità e qualità del lavoro. Come collettività possiamo redistribuire solo la produzione corrente. Quest’ultima, aggiungiamo, sarà tanto più elevata quanto più alta è, oggi e nel passato, l’occupazione, e l’occupazione stabile; e quanto più alte sono, oggi e nel passato, qualità e quantità dei mezzi di produzione. Senza una diversa gestione politica della domanda e senza la possibilità di un attivo conflitto sociale nella produzione sussidi come il basic income sono acqua fresca. Domanda e produttività non aumentano per magia.
  32. Se le cose stanno così una risposta alla crisi attuale, la c.d. Grande Recessione (o anche, come è stata definita, la Depressione Minore), ci riporta ai nodi della Grande Stagflazione degli anni settanta e richiede un coraggio progettuale pari a quello di Roosevelt e Keynes in risposta al Grande Crollo degli anni Trenta. Impone di tornare a ragionare di socializzazione degli investimenti e di piano del lavoro.
  33. La socializzazione dell’investimento venne proposta da John Maynard Keynes nella Teoria generale, ma in modi che ci paiono inaccettabili. Per Keynes il capitalismo «liberista» fallisce perché non è in grado di dare vita al pieno impiego e perché determina una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito. «Salvarlo» richiede uno Stato che eserciti una influenza determinante sulla propensione a consumare (p. es., grazie alla tassazione) e sull’investimento privato (attraverso una politica monetaria che conduca al ribasso il tasso di interesse di lungo termine, e perciò all’eutanasia del rentier). Ciò non sarà sufficiente: Keynes era convinto di una tendenza al ristagno nel capitalismo sviluppato. Di qui l’opportunità di una significativa «socializzazione dell’investimento». Egli qualificava comunque subito il suo discorso. Erano da approvare tutti i «compromessi» e tutti gli strumenti grazie ai quali l’autorità pubblica potesse cooperare con l’iniziativa privata. «Basta» che lo Stato, gradualmente e senza alcuna «rottura» nelle tradizioni della società, muova le sue leve tanto quanto è necessario a indurre una piena utilizzazione di capitale e lavoro. A quel punto la teoria tradizionale, neoclassica, tornerebbe ad essere del tutto accettabile e non si potrebbe obiettare alle sue tesi sul come gli interessi privati guidino virtuosamente l’allocazione ottimale delle risorse. Non vi è ragione alcuna per supporre che il presente sistema determini una cattiva distribuzione delle risorse, sostiene Keynes. È nel determinare il volume, e non la direzione, dell’occupazione effettiva che il sistema attuale fallisce.
  34. Decisamente diversa è l’aria che si respira in un intervento del 1972 di Joan Robinson. L’economista di Cambridge sostiene che nei primi anni settanta si fosse nel bel mezzo di una «seconda» crisi della teoria economica. La «prima» crisi aveva ruotato attorno al nodo del livello dell’occupazione: si trattava del fallimento del laisser faire per insufficienza di domanda effettiva. La seconda crisi era tutta diversa, e prendeva di petto le carenze della teoria dominante nel trattare il nodo del contenuto dell’occupazione. Era una crisi anche sul terreno della distribuzione. Per portare a casa la sua critica alla teoria neoclassica sul livello dell’occupazione, Keynes aveva dovuto dimostrare che lo Stato potesse aumentare l’occupazione, che gli investimenti (anche pubblici) inducono una spesa derivata di consumi e che questa seconda ondata è del tutto indipendente dalla natura dell’impulso iniziale di spesa. Per questo scriveva che scavare buche per poi riempirle andava altrettanto bene, dal punto di vista del suo «modello», di una spesa pubblica che producesse valori d’uso per la società. Quando però i «keynesiani» diventano la nuova ortodossia, e il pieno impiego assurge a obiettivo dichiarato e praticato dai governi capitalistici dei trent’anni successivi alla guerra, tanto conservatori quanto progressisti, si guardano bene dal cambiare il quesito, e non passano dalla questione del livello a quella del contenuto dell’occupazione, come secondo Robinson sarebbe invece stato opportuno. Così nella c.d. golden age il ruolo trainante lo ebbe la spesa per armamenti o la spesa pubblica «generica». La spesa in disavanzo favorita dai consiglieri keynesiani di Kennedy e la conseguente centralità del sistema militare-industriale trasformarono il sogno ad occhi aperti di Keynes in un incubo di terrore.
  35. Per questo, rispetto a Keynes ci pare molto più produttiva l’impostazione che Hyman P. Minsky dà al problema. A dover esser messa sul banco degli imputati, secondo Minsky, è la contraddizione – palese in Keynes – tra l’idea della «socializzazione degli investimenti» e quella secondo cui il mercato svolgerebbe bene il suo ruolo di allocatore delle risorse. Esisteva, ed esiste, un’alternativa: un «socialismo di mercato» che controlli i centri di comando (towering heights) e promuova il consumo collettivo (communal consumption); a cui potremmo aggiungere nello stesso spirito il controllo diretto del movimento dei capitali. Ciò che invece i «keynesiani» hanno perseguito, non del tutto tradendo la lettera di Keynes, è stato il Big Government, uno Stato grande a sufficienza da stabilizzare l’economia e sussidiare il consumo. Un modello di alti profitti/alti investimenti, ed anche elevato «spreco». Un modello predicato sulla esplosione dei bisogni relativi, e che sostenendo rendite, interessi e profitti nutre nel suo seno il risorgere della finanza speculativa e di una instabilità sempre più accentuata. Un universo destinato ad una necessaria implosione e a cui non si può rispondere con la nostalgia di un keynesismo «buono».
  36. È a questo che deve rispondere la «socializzazione degli investimenti», in un senso ben più profondo di quello inevitabilmente aporetico di Keynes. Minsky vuole un’economia in cui i settori chiave siano socializzati; dove il consumo in comune – dunque non monetario, ma per così dire provveduto «in natura» – soddisfi la parte maggiore dei bisogni privati; dove la tassazione del reddito e della ricchezza sia disegnata per abbattere la diseguaglianza; dove la speculazione nella struttura delle passività sia regolata da leggi che ne definiscano rigidamente l’ammissibilità. È qui che diviene cruciale il riferimento al New Deal. L’era rooseveltiana di riforme e di innovazione sopraggiunse prima della Teoria generale di Keynes: non poteva giovarsi, né ne fu influenzata, dell’elaborazione più compiuta dell’economista cantabrigense. Le «riforme» del New Deal non erano attinenti alle politiche fiscali, oltre che monetarie, necessarie per produrre una «ripresa». Aggredivano invece il settore finanziario, istituendo quel sistema di regolamentazioni che sono state poi completamente smantellate una dopo l’altra. E contrastavano la flessibilità verso il basso dei prezzi, stabilendo un minimo salariale, incoraggiando i sindacati e sostenendo la cartellizzazione promossa dallo Stato. Nell’insieme di misure di Roosevelt, mentre il sistema della previdenza sociale rispondeva al bisogno di assistenza degli anziani, non giocavano invece un ruolo centrale i sussidi e trasferimenti monetari alle famiglie, che avevano piuttosto la funzione di transitorie misure tampone. La lotta alla disoccupazione e alla povertà veniva portata sul terreno di una volontà determinata a perseguire una maggiore e più elevata occupazione. Al concedere un reddito come sussidio si preferiva il provvedere lavoro e quindi un salario.
  37. Minsky, anche prima della crisi del «keynesismo realizzato», ha sempre ritenuto che il «liberalismo» e il progressismo di Kennedy e di Johnson con la War of Poverty fossero risposte non solo sbagliate, ma anche conservatrici, rispetto al «fallimento» del capitalismo sul terreno della disoccupazione e della distribuzione; in qualche misura, mentre costruivano una particolare forma del welfare, hanno determinato le condizioni che non potevano non condurlo alla crisi per ragioni interne. Misure «caritative», cieche rispetto all’effettivo modo di funzionare dell’economia e della società capitalistiche. Si voleva insieme aiutare i poveri, con i trasferimenti alle famiglie, e sostenere gli investimenti, grazie a benefici fiscali che spingessero verso l’alto i profitti. Non poteva che seguirne una compressione dei salari dei lavoratori e dei redditi della classe media, come del loro consumo. Una compressione tanto più violenta quanto più il sistema produttivo veniva trainato dalle spese militari. La condizione dei poveri veniva migliorata peggiorando quella dei poveri solo un po’ meno poveri. Di qui l’insorgere della «crisi di legittimazione» del keynesismo e insieme del welfare pubblico anche tra coloro che ne beneficiavano sul terreno dell’occupazione.
  38. Se si prendono le cose da questo verso è chiaro che le misure per spingere sull’acceleratore della recovery, della «ripresa», non possono essere separate dalla reform, da una «riforma» radicale dell’economia e della società. Quella politica dei due tempi che già suggeriva Keynes a Roosevelt nel 1933, e che purtroppo pare essere nel codice genetico della sinistra di governo, non è più ammissibile, se mai lo è stata. Tanto più di fronte a una crisi sistemica come questa: se no, tanto vale smettere di parlare di sinistra. Una ispirazione non lontana dal New Deal e da Minsky ci pare essere quella del Piano del lavoro della Cgil disegnato tra la fine della degli anni quaranta e i primissimi anni cinquanta, che molto deve all’ispirazione liberalsocialista di Ernesto Rossi o Paolo Sylos Labini. Una ispirazione da riprendere oggi in una ottica di classe e di genere.
  39. Scriveva Minsky che l’unico modo efficace per combattere la povertà e l’impoverimento, per rispondere alle incertezze sociali, per costruire un autentico Stato del «benessere», è quello di raggiungere una situazione di pieno impiego «stretto» e vincolante, definito come un eccesso della domanda di lavoro sull’offerta di lavoro, e agendo così sull’occupazione e sul reddito che se ne può derivare. È solo in quelle condizioni, peraltro, che la flessibilità può non tradursi, ineluttabilmente, in precariato. Una prospettiva, questa, che si oppone frontalmente all’idea della employability, dove invece il problema della disoccupazione viene scaricato sull’offerta di lavoro, non sufficientemente «formata», o dotata delle adeguate «competenze». Una prospettiva, ancora, che si oppone seccamente anche a tutte le prospettive «distributive» che abbiamo ricordato prima. Una prospettiva che vuole superare il welfare state, e il keynesismo, in avanti.
  40. La proposta di uno Stato che direttamente occupa i lavoratori come parte di una politica di pieno impiego e di ridefinizione strutturale dell’economia è in Minsky molto dipendente dalla lettura degli Stati Uniti come paese caratterizzato da grande disponibilità di lavoro di bassa qualificazione (che andrebbero assunti così come sono), un paese in cui il cui salario relativo tra lavoratori qualificati e no andava peggiorando nel tempo (mentre invece si dovrebbe invertire la forbice dei salari). Certamente un aggiornamento delle sue tesi nel nostro paese dovrebbe tener conto di una situazione parzialmente diversa, in cui è più abbondante un’offerta di lavoro qualificata, senza dimenticare la questione del lavoro migrante e la questione di genere. Di attualità ci pare, specie nell’Europa di oggi, l’ispirazione minskiana quando insiste sulla necessità di creare le condizioni per far crescere il salario meno della produttività nei settori avanzati e aperti alla concorrenza: il che richiede però, evidentemente, una forte politica industriale (in senso lato) per consentire il recupero dei settori meno dinamici, come anche di intervenire su disparità strutturali e squilibri generali. D’altro canto, Minsky – con molta lungimiranza – non soltanto segnala i rischi che una politica di alti profitti-alti investimenti dell’era keynesiana può infliggere all’ecologia sociale e naturale (un limite che certo non è stato superato dalla realtà di alte rendite e bassi investimenti del successivo neoliberismo), ma mette anche sotto accusa la contabilità in termini di Pil come strumento per misurare l’autentico benessere della popolazione.
  41. Su linee convergenti ragiona, ci pare, Alain Parguez. Lo Stato deve farsi àncora di uno sviluppo che generi un pieno impiego autentico. Politiche che mirino ad un pareggio o addirittura ad un attivo del bilancio pubblico (le politiche di «austerità») non possono che rivelarsi controproducenti, determinando l’opposto di quel che dichiarano. Deprimendo produzione, occupazione, aspettative, fanno crollare investimenti e consumi. È chiaro che i disavanzi dello Stato, invece di ridursi, si riprodurranno e aumenteranno, in un circolo vizioso, che si prolunga in una caduta libera pregna di drammi sociali e individuali. Sono, questi, dei «cattivi» disavanzi, a cui non corrisponde alcuna contropartita in termini di infrastrutture materiali o sociali. È questo invece ciò che caratterizza i «buoni» disavanzi. I «buoni» disavanzi sono disavanzi voluti, ex ante, pianificati, che si collocano per così dire «naturalmente» in una politica di lungo termine. Sfociano nella produzione di uno stock di risorse tangibili e intangibili, non solo infrastrutture fisiche, non solo o tanto grandi opere, ma anche investimenti nella ricerca, nell’istruzione, nella salute, e così via. Possono creare un clima favorevole migliorando le aspettative, e potrebbero così favorire di rimbalzo una spesa per investimenti privati, che rimane comunque trainata dal big push del settore pubblico. Tale produzione di valori d’uso sociali va effettuata in disavanzo ma, in realtà, al termine degli effetti che ha indotto, finisce con l’autofinanziarsi. Sempre, nelle economie capitalistiche e dunque monetarie, il reddito segue alla spesa, come il risparmio all’investimento, e ancora come le imposte alla spesa pubblica.
  42. Il filo di ragionamento seguito sin qui ci conduce a quattro conclusioni. La prima è che una riforma del, e un intervento sul, welfare pubblico vanno concepiti dentro un discorso sullo sviluppo dell’economia e della società, fuori da una logica meramente distributiva. La seconda, che discende dalla prima, è che una riforma del welfare pubblico va configurata come parte di una politica di piena occupazione. La terza, che prolunga la seconda, è che il pieno impiego non va conseguito a partire da politiche di espansione della domanda «generica», ma da politiche «mirate» della domanda che si configurino al tempo stesso come una ridefinizione dell’offerta: politiche di «riforme strutturali», in un certo senso. La quarta, che sintetizza le precedenti, è che l’orizzonte deve essere quello di una socializzazione dell’investimento e della struttura produttiva che sia anche (oltre a socializzazione della finanza e della moneta) una socializzazione dell’occupazione: piano del lavoro. Il corollario di questo discorso è che una politica attenta al come, quanto, cosa e per chi produrre deve assumere come questioni generali, trasversali, la questione della natura e la questione di genere.
  43. Vale la pena di tornare, sia pure telegraficamente, sulla questione del lavoro femminile e del welfare familiare, perché in questa crisi si manifesta con particolare forza un attacco alle donne che è parallelo all’attacco al lavoro. La crisi è oggi crisi della riproduzione in ogni senso possibile. Il mercato del lavoro (con differenze nei vari paesi che qui non possiamo considerare) pare aver reagito nella crisi con un «effetto di sostituzione»: si sono licenziati gli uomini e si sono assunte le donne. Tuttavia l’aumento dell’occupazione femminile si è spesso concentrato sul segmento non qualificato (p. es., servizi di pulizia ad imprese ed enti, collaboratrici domestiche, assistenti familiari), così come si è spesso materializzato come part-time involontario. Sembra anche che esista un effetto di sostituzione tra le italiane e le immigrate: le italiane rimpiazzano le immigrate nei lavori domestici pagati. È peggiorata la situazione per il welfare familiare: aumenta il lavoro domestico a carico delle donne.
  44. Si configura, insomma, un vero «paradosso del lavoro»: nella produzione, poco lavoro pagato a disposizione, nella riproduzione tanto lavoro domestico e di cura, scaricato sulle donne. Le politiche di austerità hanno avuto ulteriori conseguenze negative sia sull’occupazione femminile, prevalentemente concentrata nel pubblico impiego, sia sul lavoro domestico, per via dei tagli che, come sempre, hanno riguardato in primis la spesa sociale. Di rimbalzo ne sta risentendo lo stesso sistema di welfare pubblico. I tagli alla spesa sociale rendono ancora più complicato per le donne riuscire a conciliare lavoro pagato e lavoro domestico. La situazione attuale delle italiane è diventata così problematica che, per la prima volta, la Relazione Annuale della Banca d’Italia ha contenuto un capitolo tutto dedicato alle donne.
  45. Nell’attraversare questa crisi, di cui ancora oggi non si vede l’uscita, le donne stanno diventando l’ammortizzatore sociale per eccellenza: lavorano in posizioni precarie e dequalificate per ottenere un reddito e si accollano la maggior parte del lavoro domestico con pochi aiuti dallo Stato sociale. Il faticoso cammino verso l’uguaglianza di genere si è bruscamente interrotto. Non sarà possibile risolvere la crisi del welfare familiare se non riprendendo la battaglia per rivendicare un (diverso) welfare pubblico. E non sarà possibile un diverso e progressivo welfare pubblico se non verrà attuato in un orizzonte che ponga al primo posto l’attenzione alla condizione delle donne. L’una e l’altra battaglia richiedono, per essere condotte insieme con una qualche speranza di successo, che le stesse politiche dell’occupazione e strutturali abbiano un segno di genere.

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