A 44 anni di distanza dall’inizio della pandemia è possibile tracciare un bilancio che mette in luce come il neoliberismo nei suoi vari aspetti abbia pesantemente influito sulla diffusione e sul tasso di letalità di un’infezione che, sino a oggi, ha provocato 38 milioni di morti. Una frase per social: in tutte le malattie infettive, ma soprattutto in quelle a trasmissione sessuale, ogni forma di discriminazione si ritorce inevitabilmente contro i discriminatori.
Un esempio paradigmatico di come i microrganismi infieriscano laddove incontrano le condizioni favorevoli alla loro penetrazione e al loro sviluppo nelle società umane, è quello dell’Aids: mai come in questo caso il discorso economico-politico s’intreccia con quello medico-biologico. Per il virus dell’Aids, che fa parte del gruppo degli agenti infettivi a trasmissione sessuale, le cellule e i tessuti di qualunque organismo umano rappresenterebbero potenzialmente un terreno di coltura ottimale. Si notò, invece, sin dall’inizio della pandemia che il virus si avvantaggiava per la sua propagazione delle varie forme di discriminazione e di negazione dei diritti umani e civili, colpendone preferenzialmente le vittime, tra cui gli strati sociali più poveri dei Paesi del Sud globale, gli omosessuali, i tossicodipendenti, le persone che si prostituiscono, i carcerati e i migranti.
In particolare, le masse dei Paesi del Sud globale – cui il sistema neocoloniale e imperialista, per minimizzare i costi della forza lavoro, provocava miseria e malnutrizione negando al contempo l’accesso ad assistenza medica e, dal 1996, a farmaci salvavita, da allora e per vari anni disponibili per via dei brevetti solo nei Paesi industrializzati – hanno subìto le conseguenze più pesanti della pandemia.
A partire dal 1987, allorché fu istituita la prima Giornata mondiale di lotta all’Aids, il Programma globale Aids dell’Oms svolse una campagna capillare in tutti i Paesi del mondo volta a contenere l’epidemia e basata su indagini scientifiche, cliniche ed epidemiologiche, nonché sulla ricerca di farmaci e possibili vaccini (1). Una particolare attenzione fu dedicata al settore delle ricerche Kpb (Knowledge Practices and Beliefs, ovvero conoscenze pratiche e credenze), al fine di poter svolgere un’efficace opera di prevenzione in base alle culture vigenti nei vari Paesi del mondo. Trattandosi di una malattia a trasmissione sessuale gravata da un altissimo tasso di mortalità, era fondamentale conoscere l’approccio alla sessualità nelle varie culture, spesso fomentatore di stigma o persino di leggi punitive nei confronti di persone (prostitute, omosessuali, tossicodipendenti, ecc.) non conformi ai modelli sociali dominanti. Si rilevò, così, che fattori culturali come certe religioni o ideologie tradizionali d’impronta sessuo-omofobica o negazionista svolgevano un ruolo negativo in quanto colpevolizzanti (l’Aids visto come “castigo di Dio”) e demonizzanti rispetto all’uso del preservativo, strumento letteralmente vitale di protezione dal contagio. La campagna dell’Oms in favore dell’uso del preservativo insisteva, invece, laicamente sul punto che l’Aids era un’infezione virale e non un problema morale.
Per meglio comprendere le cause profonde della diffusione del virus dell’immunodeficienza umana (Hiv), è necessario aprire una parentesi sugli scenari politici e culturali di quel particolare momento storico (gli anni ’80 del Novecento). Dalla fine della Seconda Guerra mondiale erano prevalse, in particolare in Europa, le cosiddette politiche del welfare, ispirate al principio dell’universalità dei diritti e del conseguente impegno a una redistribuzione, la più equa possibile, delle risorse disponibili (sempre compatibilmente, nei Paesi capitalisti, con il sistema della libera impresa). In campo sanitario, tali politiche erano culminate nella “Dichiarazione di Alma Ata” (1978) (2), nella quale si affermava solennemente, da parte dell’Oms, che la salute era un diritto umano fondamentale e che, quindi, ogni Stato doveva impegnarsi a reperire le risorse necessarie per far raggiungere a tutti i suoi cittadini il più alto livello di salute possibile, inteso non solo come assenza di malattia, ma come stato di pieno benessere psicofisico.
All’inizio degli anni ’80, però, sotto l’impulso delle politiche neoliberiste di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, la filosofia del bene pubblico fu soppiantata da quella del libero mercato, nell’ambito della quale anche la salute, l’istruzione e la cultura venivano considerate merci a disposizione di chi, nella piramide sociale, fosse in grado di potersi permettere migliori prestazioni. In vari Paesi (per esempio, in India) vennero stilati elenchi di malattie che potevano essere trattate e di altre che non lo potevano essere in quanto eccedenti le possibilità, peraltro sempre più limitate, dei bilanci statali, a loro volta depauperati dalla progressiva riduzione delle imposte ai settori più ricchi della popolazione.
A ciò si era aggiunto, in seguito alla decolonizzazione, il fenomeno del neocolonialismo, grazie al quale il saccheggio delle materie prime non era più gestito direttamente dall’apparato militare e amministrativo mantenuto in loco dalle potenze coloniali, ma indirettamente, mediante la corruzione di governi fantoccio asserviti agli interessi delle imprese multinazionali energetiche, agricole, minerarie, ecc., detentrici di un vasto potere di condizionamento sui governi delle potenze ex coloniali stesse. Completarono il quadro i prestiti ad alti tassi d’interesse prontamente offerti dagli istituti bancari occidentali ai Paesi di nuova indipendenza, che ne avevano disperatamente bisogno per risollevarsi dalla devastazione subìta durante il periodo coloniale. Il che determinò, paradossalmente, un’ulteriore riduzione del livello di vita dei popoli “indebitati”, che si videro costretti a svendere le proprie risorse naturali sotto il peso dell’indebitamento gravante sulle già esangui finanze depauperate dagli iniqui scambi commerciali. Nei pochi casi in cui un leader di Paesi così strangolati dal “debito” osò dichiarare l’“insolvenza” (Lumumba, Sankara), la sua eliminazione fisica fu la risposta immediata da parte del mondo degli affari liberomercatista e dei suoi rappresentanti politici e militari. Il mancato sviluppo e la negazione dei diritti all’istruzione, alla salute, alla cultura, ecc. di ampi strati delle popolazioni dei Paesi non industrializzati, rappresentarono e rappresentano tuttora la logica conseguenza di tale intreccio di politiche neocoloniali e neoliberiste.
Miseria, malnutrizione, analfabetismo, assoluta carenza di servizi igienici concorsero, dunque, a creare le condizioni per una rapida e massiccia propagazione dell’infezione da Hiv, principalmente, anche se non esclusivamente, nelle popolazioni dei Paesi del Sud globale. Trattandosi di una malattia a trasmissione sessuale, altri fattori si aggiunsero: la difficoltà economica a procurarsi il preservativo e, quindi, il suo scarsissimo uso (spesso dovuto anche a tabù culturali e religiosi); la compresenza, dati i bassissimi standard igienici, di altre malattie veneree, che costituiscono, in quanto lesive sulle mucose genitali, un potente moltiplicatore di trasmissione dell’Hiv; la diffusione di alcolici a basso costo, fattore di diffusione dell’Hiv nei Paesi del Terzo Mondo molto più rilevante di quanto non si immagini generalmente, specie se si confronta con lo scarso uso delle droghe “illegali” fra le popolazioni di quei Paesi rispetto a quello dei Paesi industrializzati.
Consideriamo, infatti, le dinamiche imposte dalla globalizzazione capitalistica in termini di estremo depauperamento dei piccoli agricoltori, spesso cacciati dalle loro terre (per il cosiddetto land grabbing, ossia accaparramento di terre) e obbligati, per sopravvivere, a emigrare per lunghi periodi lontano dalle famiglie d’origine per svolgere lavori semischiavistici o servili in industrie minerarie o estrattive, aziende agricole, o domestici in residenze private ancora di stampo coloniale (per esempio in Sud Africa, in Mozambico, Malawi, Zimbabwe, ecc.). Il sabato sera, al termine di una settimana di lavoro massacrante, il massiccio ricorso alla prostituzione è una realtà ovunque, e si svolge, ovviamente, in condizioni igieniche estremamente precarie. Il concomitante uso degli alcolici (la “droga dei poveri”), in cui annegare la propria disperazione, non fa che peggiorare la situazione. Infatti, gli alcolici di infima qualità, massicciamente e cinicamente esportati in Africa e nei Paesi non industrializzati per compensare la riduzione delle vendite in Europa, dovuta alle politiche di promozione della salute che qui ne vietano lo smercio, hanno il duplice effetto euforizzante e disinibente d’impedire da un lato, se mai ve ne fosse stata l’intenzione o la possibilità materiale, l’adozione delle necessarie misure di prevenzione (i preservativi costano), ma dall’altro anche di anestetizzare il dolore dovuto all’eventuale presenza di ulcere veneree in sede di mucose genitali, vere e proprie porte spalancate al passaggio del virus.
Già verso la fine degli anni ’80 si registrò, soprattutto in Africa, ma non solo, una nettissima prevalenza dell’Hiv/Aids nella popolazione femminile rispetto a quella maschile. Tale fenomeno era ascrivibile a due cause, una biologica e una culturale. Biologicamente, una delle caratteristiche principali del virus dell’Aids è quella che deriva dal suo essere un lentivirus, cioè un agente infettivo a bassa invasività e velocità di riproduzione che, durante un lungo periodo d’incubazione asintomatica, offre ai suoi portatori la possibilità di trasmetterlo inconsapevolmente ad altri soggetti. Per questo stesso motivo, ai fini del contagio è necessaria una carica virale sufficientemente alta, qual è rilevabile in genere nel liquido seminale e, quindi, nel partner attivo del rapporto sessuale. Ricerche Kpb condotte in vari Paesi del mondo dimostrarono come, a questa maggior suscettibilità biologica all’infezione del genere femminile si aggiungeva, dal punto di vista culturale, il tragico intreccio di ignoranza e irresponsabilità di stampo maschilista che, in varie parti del mondo, si traduceva nella pratica abituale dei rapporti extraconiugali non protetti. Un fenomeno assai diffuso era quello della scelta di minorenni vergini (“per non infettarsi”) da parte di uomini facoltosi, che poi fatalmente favoriva la circolazione del virus in strati sempre più vasti della popolazione. L’economia colonialista, infatti, non aveva fatto che esportare gli stereotipi sessisti funzionali allo sfruttamento intensivo del lavoro femminile o, in altri casi, consolidare le strutture sociali patriarcali preesistenti, negando alle donne l’indipendenza economica necessaria a disporre del proprio corpo. Per milioni di donne africane che contrassero l’Aids l’unico fattore di rischio risultò essere stato l’aver avuto rapporti sessuali col proprio marito. Anche gli stupri di massa da parte dei militari nei vari scontri bellici alimentati da imperialismo e neocolonialismo hanno inciso sulla diffusione dell’Aids nella popolazione femminile dei Paesi coinvolti.
Risultati eccellenti nel senso di una diminuzione significativa dei casi di Aids nella popolazione, sia maschile che femminile, grazie all’uso generalizzato del preservativo furono ottenuti negli anni ’90 e 2000 in certi Paesi africani come l’Uganda in cui, per impulso dell’Oms, furono effettuate capillarmente campagne di sensibilizzazione e promozione di una sessualità responsabile, soprattutto affidate a modelli di ruolo maschili nelle scuole e in altre istituzioni (la cosiddetta peer education).
Risale al XIX secolo, l’epoca d’oro dello sviluppo industriale capitalistico, la classificazione delle varie forme di sessualità, rinchiuse da allora entro schemi rigidi e semplicistici di stampo positivista e, quindi, incapaci di cogliere nella loro complessità (che invece è oggetto di più recenti scoperte) (3) le varianti individuali dell’erotismo presenti nella nostra, come nella maggior parte delle altre specie animali a riproduzione sessuata. Con la globalizzazione capitalistica, ancor oggi il modello eterosessuale monogamico viene ovunque imposto nel quadro della concezione più ampia della vita come investimento, l’efficienza ri-produttiva dell’individuo assurgendo quasi a metafora della sua efficienza produttiva nel mondo del lavoro. Chi nelle democrazie “liberali” non si adegua a tale modello, pur non essendo soggetto, a differenza del tossicodipendente, a divieti riguardanti il suo stile di vita, è però soggetto allo stigma da parte dell’opinione pubblica, che già duecento anni fa John Stuart Mill, nel suo Saggio sulla libertà, considerava ancora più grave da sopportare della punizione inflitta dai rappresentanti della legge (4). Anche qui, comunque, come nel caso della tossicodipendenza, che si tratti di stigma o proibizione, il risultato è lo stesso: etichettare le persone racchiudendole entro stereotipi precostituiti e discriminare i loro stili di vita equivale a respingerle nella clandestinità, dove, in questo caso, la promiscuità “forzata” dei rapporti sessuali accresce di molto il rischio di contagio.
La trasmissione dell’Hiv si verifica, non solo per via sessuale, ma anche per via trasfusionale e, in genere, mediante iniezione con aghi e siringhe contaminati. Una delle motivazioni principali che durante il XX secolo spinse le società capitalistiche avanzate, in particolare quella nordamericana, a proibire l’uso di certe sostanze psicoattive, non necessariamente più dannose di altre che, invece, furono, o continuarono a essere, legalizzate, va ricercata nella volontà di usare sin da allora la proibizione come strumento di discriminazione su vasta scala di minoranze etniche (orientali, ispanici, afroamericani, ecc.) o gruppi sociali già svantaggiati in partenza. L’emarginazione e, nei casi più gravi, l’esclusione, su qualunque presupposto poggino, sono funzionali al sistema economico dello sfruttamento e, anzi, il tasso di sfruttabilità degli individui resi così vulnerabili è direttamente proporzionale al tasso di discriminazione, servendo, così, l’imperativo categorico dell’etica della massimizzazione dei profitti: minimizzare il costo della manodopera. Ancor oggi, la stragrande maggioranza dei carcerati per droga negli Stati Uniti è costituito da appartenenti a minoranze etniche o lavoratori a basso reddito già discriminati in partenza. Anche in questa popolazione l’Aids trovò terreno fertile alla sua diffusione, in quanto la proibizione o, specularmente, la coercizione di certi stili di vita, dettate da quegli elementi di Stato etico che riaffiorano nelle democrazie liberali, portava inevitabilmente a sospingere e relegare nella clandestinità comportamenti a rischio, in questo caso l’assunzione di sostanze con modalità scarsamente igieniche, ingigantendone il dirompente potenziale di contagiosità.
L’atteggiamento ipocrita del borghese benpensante nei confronti della prostituzione si caratterizza frequentemente per la sua ambiguità. Si passa dalla facile condanna moralistica all’invocazione delle varie regolamentazioni “aziendalistiche” del fenomeno, rispondenti alle logiche efficientistiche di cui s’è detto. In ogni caso, prevale nettamente un approccio razzista e sessista, come rilevabile, per esempio, dagli studi clinici presentati nei congressi scientifici, dove quasi invariabilmente le persone che si prostituiscono vengono designate come vettori dell’infezione, mentre il ruolo di soggetti contagiati e, eventualmente, di pazienti meritevoli di trattamento, è riservato ai clienti. Fra chi è, e si sente, oggetto di stigma, discriminazione e colpevolizzazione e chi, invece, è rispettato, accolto e preso in carico dalla società e in particolare dalle strutture sanitarie, è facile indovinare chi attuerà comportamenti più responsabili e più attenti a preservare la salute altrui oltre alla propria. Anche in questo caso, la miglior prevenzione della malattia infettiva viene, dunque, a coincidere con l’integrale rispetto della dichiarazione dei diritti umani dell’Onu, che condanna ogni forma di emarginazione, esclusione e discriminazione, raccomandando, invece, nell’interesse di tutti, l’inclusione, l’integrazione e l’accoglienza.
Nel caso dei prigionieri, da quanto detto deriva che la migliore prevenzione dell’Aids consiste nella distribuzione di preservativi e di siringhe sterili monouso per minimizzare il rischio di contagio, vuoi per rapporti sessuali, vuoi per modalità potenzialmente contaminanti di assunzione di droghe. A meno che non si considerino i prigionieri “vite di scarto” in quanto soggetti presumibilmente non rispettosi dei modelli socio-economici imposti. Anche in questo caso però, come si rilevò anni dopo a proposito della necessità di vaccinazione universale contro il Covid 19, lasciare che il contagio si diffonda incontrollatamente nelle “categorie” oggetto di disprezzo ed emarginazione, spesso bollate anche come “non produttive”, può ritorcersi contro i discriminatori, cui può finire per essere trasmesso il virus lasciato circolare nei discriminati.
A questo proposito, la tendenza di vari governi a emanare leggi che prescrivevano l’isolamento dei soggetti sieropositivi mediante quarantena si rivelò anch’essa del tutto inefficace e controproducente, in quanto respingeva in clandestinità le persone invece di incoraggiarle a sottoporsi spontaneamente ai controlli con la garanzia di non essere in alcun modo discriminate, ma anzi adeguatamente assistite. Dal che deriva che anche in una prospettiva egoistica l’altruismo e l’inclusione non sono “buonisti”, ma sono convenienti per chi li pratica e anzi, più in generale, lo sono per tutti. E ciò vale anche per i migranti.
Il virus dell’Aids, se da una parte causa l’epidemia, dall’altra appare dunque
né più né meno che un fattore moltiplicatore che evidenzia, ingigantendole, l’iniquità e la negazione dei diritti umani e civili con cui esso interagisce. L’Hiv segue inesorabilmente il percorso politico tracciato dalla discriminazione, a sua volta propedeutica alle diseguaglianze, su cui si regge il sistema della libera impresa e del libero sfruttamento delle vulnerabilità a scopo di profitto privato, sia nei Paesi in via di sviluppo che in quelli industrializzati.
Riferimenti:
(1) José Esparza, Saladin Osmanov, Paolo Crocchiolo, Un vaccino per l’Aids, Annuario dell’Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (1990/1991), pp. 134-141.
(2) https://iris.who.int/server/api/core/bitstreams/6e3ab9b7-9fef-4751-bdd6-ac6566f7cb58/content
(3) Eva Cantarella, Secondo natura, Milano, Rizzoli, (2006).
(4) John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Milano, il Saggiatore (1991), p. 7.
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