martedì 24 giugno 2025

IL VELO E LA BOMBA - Lavinia Marchetti

 Da: Lavinia Marchetti - 


"Il nemico del mio nemico non è mio amico."
 voce di donna in esilio, Teheran, giugno 2025 

È di nuovo tempo di salvezza. Salvezza coatta, militare, mediatica, commossa. È di nuovo tempo di guerra. Guerra giusta, guerra umanitaria, guerra femminista. Le due cose, quando si parla di Medio Oriente, coincidono sempre. 

Da vent’anni, o da due secoli, l’Occidente ama salvare le donne orientali. Le salva con insistenza, con superiorità, con esibizionismo. Le salva, ma non le ascolta. Le salva, ma le sorvola. Le salva, infine, bombardandole. 

Lo avevamo già visto. 

L’Afghanistan dei talebani divenne, nel 2001, lo scenario perfetto per esercitare una nuova grammatica imperiale: la donna come soggetto da redimere, il burqa come simbolo da abbattere, la bomba come chiave dell’autonomia. La democrazia divenne sinonimo di svelamento forzato, e l’esercito americano si travestì da liberatore con in mano uno specchio occidentale: “guardati, adesso sei libera”. 

Nel 2025 la scena si ripete. Cambia l’oggetto, non più Kabul ma Tehran, ma la macchina retorica resta intatta. Le rivolte sacrosante delle donne iraniane, Zan, Zendegi, Azadi, vengono cooptate, disarticolate, brandite. Il femminismo diventa un oggetto bellico. Il velo ritorna ad essere un casus belli. La nudità, la ribellione, il canto, la danza, le chiome al vento: tutto può essere piegato alla logica imperiale, se lo si rende icona. E quando il corpo femminile diventa immagine, allora può giustificare tutto. Anche la distruzione. 

Nella fase attuale del capitalismo bellico, i corpi delle donne non vengono solo marginalizzati: vengono esibiti come giustificazione dell’apparato stesso che li distrugge. Si entra nel paradosso supremo: si uccide per difendere la vita. Si bombarda per svelare. Si rade al suolo per far emergere la voce femminile. 

Ma quella voce, la voce vera, incarnata, situata, viene ignorata quando si dissocia dall’apparato. 

Sahar Delijani, scrittrice iraniana, nata nelle prigioni di Evin, figlia di dissidenti:
Non c’è nulla che possiate dirmi sui crimini del regime iraniano che io non abbia vissuto. Ma se la vostra idea di liberazione passa dalla distruzione delle case, dei corpi, delle vite…allora non è libertà quella che cercate”. 

Così, mentre le riviste liberal si vestono di indignazione colta e le destre giocano la carta del femminismo strategico, l’attacco all’Iran diventa narrazione epica. “Si bombardano le centrali per liberare le donne”. E le donne muoiono. 

Anche quelle che si opponevano al regime. Anche quelle che traducevano, poetavano, amavano. 

Parnia Abbasi aveva ventitré anni. Era poetessa e traduttrice. È morta nei raid su Tehran. Ecco una sua poesia: 

Stella spenta,
ho pianto per entrambe
per te
e anche per me.
Tu che le stelle delle mie lacrime
soffi nel firmamento.
Nel tuo mondo,
la libertà della luce
nel mio mondo,
il gioco delle ombre.
Insieme passiamo
e la più bella poesia
da qualche parte
diventa silenzio.
Tu sorgi altrove
e sussurri
il pianto dell'esistenza
ma io ovunque
mi compio
mi consumo
e brucio come
una stella spenta,
dissolta polvere
nel tuo cielo. 

Come ha scritto Rosi Braidotti, l’Occidente ha interiorizzato un femminismo coloniale. È quello che agisce “per conto di”, che parla “a favore di”, che decide “cosa è meglio per”. È un femminismo teleguidato, spesso bianco, spesso accademico, che reitera la logica del patriarcato da cui pretende di liberare: oggettivando, riducendo, intervenendo. Quando si bombarda per emancipare, si è già rinunciato al femminismo. Quando si impone la libertà come uno standard da esportare, si è già passati dalla parte dell’impero. Le donne iraniane non chiedono missili. Chiedono voce. Chiedono respiro. Chiedono di essere riconosciute non come simbolo, ma come soggetti politici. 

Non c’è coerenza nella guerra. Non c’è coerenza nella narrazione che finge di voler salvare mentre spinge all’annientamento. C’è però una coerenza nella voce delle donne che resistono, nei vicoli di Shiraz, nei dormitori di Mashhad, nelle case bunkerizzate di Rafah. Sono loro il femminismo che ci interessa. Quello non addomesticato. Quello che sa dire no a tutti i regimi. La sinistra istituzionale dovrebbe solo vergognarsi. 

2 commenti:

  1. Articolo bellissimo, condivido ogni parola e anche la chiusura

    RispondiElimina
  2. Questo articolo lo salvo e lo farò leggere alla mia classe al liceo. Così si inizia a pensare

    RispondiElimina