lunedì 19 dicembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, Il fascismo, La crisi del 1929. - Renato Caputo

10 LEZIONE:    LA GRANDE CRISI ECONOMICA DEL 1929 E LE SUE CONSEGUENZE: La crisi del 1929; tentativi di uscire dalla crisi: protezionismo e autarchia; gli Usa dal dopoguerra al New Deal; la Francia dal dopoguerra al Fronte popolare:


9 LEZIONE.     IL FASCISMO: la sconfitta del movimento operaio e la controffensiva fascista; l’avvento del fascismo; le istituzioni dello stato fascista in Italia; il Concordato con la Chiesa:     https://www.youtube.com/watch?v=TQfcE7LlFQE&feature=share
 
                                      (3/4)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-dalla.html 
                                        (5/6)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-movimenti.html                                           
                                          (7/8)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/12/controstoria-del-secolo-breve-il-primo.html 

martedì 13 dicembre 2016

Populismo*- Elena Maria Fabrizio



Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario

Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis. Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace. 

La comunicazione sistematicamente distorta dell’ideologia dominante 

domenica 11 dicembre 2016

Fidel e la religione*- Alessandra Ciattini


In un articolo dedicato al marxismo cubano, Aurelio Alonso Tejada sottolinea giustamente le capacità tattiche e strategiche di Fidel Castro in quanto dirigente politico [1], ma occorre aggiungere che il pragmatismo del capo storico della Rivoluzione cubana non costituisce un’opzione che fa strame dei principi, ma anzi ad essi si richiama per individuare la tattica più adeguata per metterli in pratica.

A mio parere tali capacità risaltano in particolare nell’atteggiamento politico che Fidel ha tenuto nei confronti della religione, che a Cuba si presenta in un ventaglio complesso di manifestazioni, e nei confronti delle correnti progressiste sorte sia in seno alla Chiesa Cattolica che alle Chiese protestanti in America Latina.

Ricorderò, in primo luogo, i rapporti che stabilì, durante un suo viaggio in Cile, con il Movimento dei cristiani per il socialismo, quando si riunì con un gruppo di sacerdoti (dicembre 1971) e formulò i due principi a cui si sarebbe dovuta ispirare la collaborazione tra i marxisti e i cristiani. Essi sono: 1) i cristiani costituiscono <<alleati strategici>> dei marxisti per portare avanti il processo di liberazione dell’America Latina; 2) il cristiano può accettare tranquillamente la metodologia analitica marxista, senza mettere in discussione la propria fede religiosa.

Successivamente, l’anno seguente, Fidel invitò a Cuba dodici sacerdoti cileni, i quali parteciparono ad attività di lavoro volontario. Alla conclusione di questa significativa esperienza questi sacerdoti pubblicarono sul Granmaun’importante dichiarazione che evidenziava una convergenza di intenti tra i cristiani rivoluzionari e i marxisti. In tale dichiarazione si evidenziavano queste 3 considerazioni: 1) l’origine dei mali dell’America Latina sta nello sfruttamento capitalistico; 2) il socialismo costituisce una necessità storica; 3) i cristiani debbono considerarsi obbligati moralmente a lottare insieme ai marxisti contro la violenza istituzionalizzata generata nel subcontinente dal capitalismo [2].

sabato 10 dicembre 2016

Dal fordismo al capitalismo bio-cognitivo - Andrea Fumagalli

"Il passaggio dal capitalismo fordista-industriale al capitalismo cognitivo-immateriale è quindi
la metamorfosi del ciclo del capitale dalla formula:    denaro-merce-denaro (D-M-D')
a quello:    denaro-conoscenza-denaro (D-M(K)-D')."



Leggi anche:   http://effimera.org/produttivita-del-lavoro-precarieta-circolo-vizioso-delleconomia-italiana-andrea-fumagalli-2/

venerdì 9 dicembre 2016

ELEMENTI DI ECONOMIA DEL LAVORO - Guglielmo Forges Davanzati


L’economia del lavoro ha come proprio campo d’indagine lo studio del funzionamento del  mercato  del  lavoro,  con  particolare  riferimento  all’individuazione  delle  cause  della disoccupazione e dei meccanismi che sono alla base della determinazione dei salari, sia sul piano teorico, sia sul piano empirico. A tal fine, e per quanto riguarda la trattazione che segue, si fa propria un’opzione metodologica che rinvia alla coesistenza di paradigmi alternativi e competitivi, non riconducibili a un schema teorico unitario e unanimemente condiviso. Questa opzione si basa sulla convinzione che ogni schema teorico si basa su assiomi, ovvero su premesse non dimostrate né dimostrabili, che sono radicalmente in contrapposizione con gli assiomi propri di altri schemi teorici e che, per questa ragione, non  si  rende  possibile  giungere  a  una  sintesi.  In  quanto  segue,  verranno  descritti  i principali  orientamenti  teorici  presenti  nel  dibattito  contemporaneo:  il  modello neoclassico, il modello keynesiano, il modello postkeynesiano nella sua variante della c.d. teoria monetaria della produzione.

Si propongono, a seguire, due appendici: la prima dà conto del dibattito su diseguaglianze distributive e crescita economica; la seconda riporta un breve importante saggio di M. Kalecki, rilevante per la comprensione dello studio del funzionamento del mercato del lavoro in una prospettiva postkeynesiana e marxista. Alla trattazione di queste teorie vengono qui aggiunte due sezioni dedicate, rispettivamente, agli effetti delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro sull’occupazione e al dibattito sugli effetti dell’accumulazione di capitale umano sulla crescita economica e dell’occupazione.

Alla stesura di questi appunti hanno contribuito Andrea Pacella (Università di Catania) che ha scritto parte del cap.1 e Gabriella Paulì (Università del Salento), che ha scritto parte del cap.4 e del cap. 5. Lecce, marzo 2016

LEGGI TUTTO:        https://www.dropbox.com/s/lqbu9gy1iqvepoe/ELEMENTI%20DI%20ECONOMIA%20DEL%20LAVORO%20-FORGES%20DAVANZATI.pdf?dl=0

martedì 6 dicembre 2016

Referendum “sociale” o costituzionale? Torna il problema delle “periferie” per il Pd - Marco Valbruzzi

Quali sono state le principali motivazioni che hanno spinto gli elettori alle urne? E, soprattutto, perché hanno deciso di promuovere o bocciare il progetto di revisione costituzionale del governo Renzi? Quali sono stati gli strati sociali maggiormente favorevoli (o contrari) alla riforma? Per rispondere a tali quesiti, l’Istituto Cattaneo ha analizzato la distribuzione del voto nelle sezioni di Bologna per cercare di capire se i settori dove il disagio sociale è maggiore hanno avuto un comportamento più critico nei confronti del governo e della sua riforma. Un’analisi di questo tipo è resa possibile dall’esistenza di dati socio-demografici della popolazione (età, genere, reddito, presenza di immigrati ecc.), disaggregati a livello di singola sezione elettorale e messi liberamente a disposizione dal comune di Bologna. Il problema del Pd nelle periferie, sia geografiche che “sociali”, era già emerso chiaramente nelle elezioni amministrative del 2016: nel territorio, il partito di Renzi aveva perso progressivamente contatto e consenso negli strati sociali più deboli, appartenenti a quel “ceto medio impoverito” di cui stanno discutendo in questi giorni analisti e commentatori. Il referendum costituzionale di domenica ha rappresentato un                                                                                                            nuovo laboratorio d’analisi all’interno del quale verificare se il voto favorevole alla riforma – sostenuto dal Pd – ha                                                                                                        “sofferto” in misura maggiore nelle aree di Bologna più disagiate o in difficoltà. [...]

In sintesi, con il voto nel referendum costituzionale del 4 dicembre si conferma l’orientamento degli elettori a votare “contro” il governo in carica, sia nelle elezioni politiche (comprese quelle amministrative) che in quelle referendarie. Il voto diventa lo strumento attraverso il quale i cittadini esprimono il loro malcontento verso una situazione di crisi – economica e sociale – dalla quale non vedono ancora alcuna via d’uscita. Il voto contro l’establishment, in opposizione alla classe di governo di turno, ha trovato un nuovo canale di espressione nel referendum costituzionale, trasformando un giudizio sulla riforma della Costituzione in una valutazione sull’operato del governo Renzi e sulla condizione sociale degli elettori. Se ogni occasione elettorale è buona per esprimere la propria insoddisfazione, anche un referendum costituzionale può facilmente trasformarsi in un referendum “sociale”. Con i risultati che ora sappiamo.



lunedì 5 dicembre 2016

Rosa Luxemburg e la teoria del capitalismo*- Una recensione di Paul M. Sweezy

Questa recensione dell’opera di Rosa Luxemburg, The Accumulation of capital [trad. di Agnes Schwarzschild, intr. di Joan Robinson, London and New Haven 1951], apparve in “The New statesman and Nation” il 2 giugno 1951 ed è riportata nel volume  Paul M. Sweezy, Il presente come storia, trad. di Ruggero Amaduzzi, Torino 1962
L’edizione italiana dell’opera è L'accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell'imperialismo e ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica [trad. di Bruno Maffi, introduzione di Paul M. Sweezy, Torino, 1968] 



   Rosa Luxemburg è una delle poche figure veramente grandi nella storia del movimento socialista internazionale, e L’accumulazione del capitale è incontestabilmente la sua opera maggiore. Che l’opera sia ora accessibile in inglese, e in una traduzione eccellente, è un’ottima cosa.


   Per comprendere L’accumulazione del capitale ci si deve collocare nella letteratura socialista della fine del secolo XIX e dell’inizio del secolo XX. Era quello il periodo del grande dibattito fra i marxisti “ortodossi” e i “revisionisti”, un dibattito che, sul piano puramente analitico, si accentrava attorno alla questione: può il capitalismo continuare ad espandersi indefinitamente, o presto o tardi crollerà in forza delle contraddizioni economiche che gli sono congenite? I revisionisti sostenevano la tesi dell’espandibilità indefinita e ne traevano la conclusione che non c’era fratta per il socialismo e non c’era bisogno di prepararsi alla situazione d’emergenza: tutto si poteva aggiustare tranquillamente e gradualmente. Gli “ortodossi” erano unanimi nel respingere questa teoria, ma tutt’altro che unanimi sulla teoria che ritenevano giusta. Fu proprio questo problema che Rosa Luxemburg si propose di risolvere con L’accumulazione del capitale. Il titolo stesso rivela dove essa riteneva di aver individuato il nucleo del problema e riassume, come può farlo un breve titolo, l’argomento dell’intera opera.

domenica 4 dicembre 2016

L'EGEMONIA DIGITALE - Renato Curcio



"Io sono l'automa", così si è presentato a una visita medica obbligatoria, un lavoratore deella ACEA di Roma. "In che senso scusi?" gli ha chiesto la dottoressa. E lui, con un tono angosciato: "Nel senso che ormai non sono più una persona, il tablet personale mi comanda come un robot, nel senso che mi sento un automa, gli presto le mani è vero, ma per il resto quasi non decido più nulla; nel senso che questi ci pilotano: 'vai qua e vai là', 'inserisci il tuo numero matricola e poi segui i comandi'; nel senso che il tablet attivato mi geo-localizza e mi programma la giornata; nel senso che ogni spostamento è controllato e se mi fermo a prendere un caffè o a urinare in un luogo non previsto il tablet lo registra; nel senso che è il tablet che mi porta in giro e ho paura! Ho paura che il tablet registri anche quello che le sto dicendo adesso che siamo in visita. Ecco in che senso".


Questo libro restituisce il percorso di un cantiere socianalitico che, partendo dalle narrazioni d’esperienza dei suoi partecipanti, si è interessato ai modi in cui l’impero virtuale cerca di costruire la sua capacità egemonica sul mondo del lavoro. Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – in queste pagine si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo familiarmente chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche – assunti come analizzatori, ci raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma, nello stesso tempo, fanno emergere le linee liberticide su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Proprio riflettendo su queste tendenze che velocemente ci attraversano fino al punto di chiamarci in causa singolarmente il libro, infine, indica quattro pericolose tendenze generali – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – e si chiede se non sia forse giunto il momento, dopo le ambigue interpretazioni del Novecento, di cominciare a distinguere il progresso sociale dal progresso tecnologico.

sabato 3 dicembre 2016

CONTROSTORIA DEL SECOLO BREVE, il primo dopoguerra - Renato Caputo


8 LEZIONE.    IL PRIMO DOPOGUERRA IN ITALIA - Problemi economico e sociali dell’Italia post-bellica; la crisi dello Stato liberale; il biennio rosso e l’occupazione delle fabbriche:


7. LEZIONE.    DOPOGUERRA e REPUBBLICA DI WEIMAR. La Repubblica di Weimar e la sua crisi;
i fondamenti ideologici del nazionalsocialismo:    https://www.youtube.com/watch?v=DIAEu36UWBY&feature=share

                                      (3/4)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-dalla.html 
                                         (5/6)   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/11/controstoria-del-secolo-breve-movimenti.html

venerdì 2 dicembre 2016

giovedì 1 dicembre 2016

mercoledì 30 novembre 2016

Genere e famiglia in Marx: una rassegna*- Heather Brown**

**Eather Brown è assistente di scienze politiche alla Westfield State University. Questo articolo è un adattamento della conclusione del suo volume Marx on Gender and the Family: A Critical Study (Haymarket, 2013), dove compare in una forma leggermente diversa.

Molte studiose femministe hanno avuto, nel migliore dei casi, un rapporto ambiguo con Marx e il marxismo. Una delle questioni oggetto di maggiore contesa riguarda il rapporto Marx/Engels.

Gli studi di György Lukács, Terrel Carver e altri, hanno mostrato significative differenze tra Marx ed Engels circa la dialettica, così come su molte altre problematiche (1). Basandomi su tali lavori, ho esplorato le loro differenze riguardo alle questioni di genere nonché della famiglia. Ciò è di particolare rilevanza in rapporto ai dibattiti attuali, considerato che un certo numero di studiose femministe hanno criticato Marx ed Engels per quello che considerano il determinismo economico di questi ultimi. Tuttavia, Lukács e Carver indicano proprio nel grado di determinismo economico una notevole differenza tra i due. Entrambi considerano Engels più monistico e scientista di Marx. Raya Dunayevskaya è tra le poche a separare Marx ed Engels riguardo al genere, indicando nel contempo la natura maggiormente monistica e deterministica della posizione di Engels, in contrasto con una comprensione dialetticamente più sfumata delle relazioni di genere da parte di Marx (2).

In anni recenti, vi è stata scarsa discussione intorno agli scritti di Marx su genere e famiglia, ma negli anni Settanta e Ottanta, essi erano oggetto di numerosi dibattiti. In alcuni casi, elementi della più complessiva teoria marxiana andavano a fondersi con la teoria femminista, psicoanalitica o di altra forma, nel lavoro di studiose femministe come Nancy Hartsock e Heidi Hartmann (3). Queste hanno visto la teoria di Marx come primariamente chiusa rispetto alle questioni di genere, insistendo sulla necessità di integrazioni teoriche al fine di comprendere meglio le relazioni di genere. Ciò nonostante, hanno continuato a ritenere il materialismo storico di Marx come un punto di partenza per comprendere la produzione. Inoltre, un certo numero di femministe marxiste hanno fornito il loro contributo, dai tardi anni Sessanta fino agli Ottanta, in particolare nell’ambito dell’economia politica. Per esempio, Margaret Benston, Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici e Wally Seccombe, hanno tentato una rivalutazione del lavoro domestico (4). In aggiunta, Lise Vogel ha cercato di andare oltre il sistema duale, verso una comprensione unitaria dell’economia politica e della riproduzione sociale (5). Ancora, Nancy Holmstrom ha mostrato come Marx possa essere utilizzato al fine di comprendere lo sviluppo storico della natura femminile (6).

lunedì 28 novembre 2016

L'Occidente arretrato e l'Oriente avanzato*- Emiliano Alessandroni

Intervento al Forum "La Via Cinese e il contesto internazionale", Roma, 15 ottobre 2016  


Nelle Lezioni sulla filosofia della storia Hegel ci insegna che «quando si parla di libertà, si deve sempre far caso se, in realtà, non si stia parlando d'interessi privati» [1]. Già a suo tempo, dunque, il filosofo tedesco ci metteva in guardia contro gli usi ideologici di determinati termini e vocaboli. 

Qualche decennio più tardi, in effetti, allorché si sviluppa il dibattito sulla schiavitù nel sud degli Stati Uniti, i proprietari di schiavi denunciavano quelle spinte che premevano verso la soppressione dell'istituto della schiavitù, come degli attacchi alla libertà, ovvero a quelli che definivano sacrosanti diritti di proprietà [2]. La libertà che si vedevano minacciata era la libertà di possedere schiavi e i diritti che rivendicavano erano essenzialmente il diritto di commerciare carne umana. Evidentemente i due termini, libertà e diritto, venivano impiegati in una accezione                                                                                                              tutta ideologica, al fine di difendere interessi particolari.

Qualcosa di analogo si verifica anche ai giorni nostri: gli attuali mezzi di comunicazione sono soliti presentare l'Occidente come un insieme di stati avanzati e democratici e l'Oriente come un agglomerato caotico di stati dispotici e arretrati. Ma, dobbiamo domandarci, stanno davvero così le cose? L'Occidente promuove realmente un avanzamento ed un progresso storico nel mondo? O ci troviamo anche in questo caso di fronte ad un uso ideologico dei termini volto alla difesa di interessi particolari?

Per rispondere a queste domande soffermiamoci su alcuni dei più significativi scenari internazionali, e osserviamo se l'Occidente abbia assunto verso di essi un atteggiamento costruttivo e progressivo o distruttivo e regressivo.

domenica 27 novembre 2016

Referendum costituzionale, le ragioni del No*- Luigi Ferrajoli


Le costituzioni sono patti di convivenza, sorrette da un consenso generale. La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che divide, non essendo neppure di maggioranza, ma di minoranza

Le ragioni del No al referendum sull’aggressione in atto alla nostra Costituzione investono sia il metodo con cui la riforma è stata approvata, sia i suoi contenuti.

Anzitutto le ragioni di metodo. Questa riforma, cambiando 47 articoli su 139, non è una “revisione” dell’attuale costituzione, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica as­semblea costituente che pur decidesse a larghissi­ma maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della Costitu­zione è un potere di revi­sio­ne, che non è un pote­re costituen­te ma un potere co­stitui­to. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.

In secondo luogo questa nuova costituzione, per il modo in cui è stata promossa e approvata, è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti.

sabato 26 novembre 2016

Omaggio a Fidel* - Lia

 *Da:    http://www.ilcircolo.net/ 

Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio.  E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.

Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.

Hasta la victoria siempre, Comandante!


Querido pueblo de Cuba:
Con profundo dolor comparezco para informar a nuestro pueblo, a los amigos de Nuestra América y del mundo que hoy 25 de noviembre de 2016 a las 10:29 horas de la noche, falleció el Comandante en Jefe de la Revolución cubana Fidel Castro Ruz.
En cumplimento de la voluntad expresa del compañero Fidel, sus restos serán cremados.
En las primeras horas de mañana sábado 26 la comisión organizadora de los funerales brindará a nuestro pueblo una información detallada sobre la organización del homenaje póstumo que se le tributará al fundador de la Revolución cubana. 
Hasta la victoria siempre! 
(Raul)

giovedì 24 novembre 2016

I mass media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto*- Paolo Ercolani


 
Con l’evoluzione della «società dello spettacolo» sta maturando il passaggio da una forma di dominio sui corpi a una sulle menti. L’individuo, sotto attacco nella sua sfera intellettiva, rischia di perdere la capacità di agire consapevolmente e di essere soggetto della storia.

«Nella realtà sociale, nonostante tutti i cambiamenti, il dominio dell’uomo sull’uomo è rimasto il continuum storico che collega la Ragione pre-tecnologica a quella tecnologica»
H. Marcuse 1


Se uno degli ambiti di studio e azione più importanti della filosofia marxista è consistito nell’analisi delle forme di dominio del più forte sul più debole, la grande intuizione di Antonio Gramsci, e quindi uno dei suoi lasciti più fecondi, risiede nell’aver compreso come, con il Novecento, il terreno su cui si svolgevano – e si sarebbero svolte – le nuove forme di dominio non era più dato dal solo contesto strutturale, ma avrebbe interessato la sovrastruttura ideologica 2. In forme e con modalità certamente non osservabili (e quindi prevedibili) in tutta la loro potenzialità ai tempi del pensatore sardo, ma che sono sotto gli occhi di tutti nei giorni nostri in piena epoca di trionfo della società dello spettacolo, con i suoi meccanismi tecnologici annessi 3. Con l’elaborazione del nesso fra teoria e pratica,tra pensiero e azione, in buona sostanza tra filosofia e politica, Gramsci non soltanto superava quel marxismo meccanicistico che concentrava la propria attenzione sul solo momento strutturale (di contro al problema opposto rappresentato dall’Idealismo), ma poneva le basi per un recupero della centralità dell’uomo (e della sua dignità) come soggetto pensante e agente (inscindibili i due momenti) e, in quanto tale, soggetto consapevole e «creatore della sua storia» 4. All’interno di questo discorso si comprende l’intento gramsciano perché al nesso fra teoria e azione (o tra filosofia e politica) corrispondesse quello tra «intellettuali» e «semplici»: innanzitutto affinché i primi sapessero elaborare dei principi coerenti con i problemi che le masse si trovano a porre con la propria attività pratica, al fine di costituire un «movimento filosofico» che non svolgesse «una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali», ma che fosse in grado di trovare nel contatto costante coi semplici «la sorgente dei problemi da studiare e risolvere». Soltanto in questo modo una filosofia si «depura» dagli «elementi intellettualistici» e si fa «vita» 5.