domenica 1 maggio 2016

MARX E LA RIVOLUZIONE DEL 1848 - Irene Viparelli*

*Viparelli Irene, « Crise et conjoncture révolutionnaire : Marx et 1848. », Actuel Marx2/2009 (n° 46) , p. 122-136
URL : 
www.cairn.info/revue-actuel-marx-2009-2-page-122.htm.
DOI : 10.3917/amx.046.0841.


1. Premessa

Che influenza ebbe la rivoluzione europea del 1848 sulla teoria marxiana? Quale fu il suo contributo specifico? In che misura fu un evento determinante? La strada maestra per addentrarsi nel cuore di questo problema sembra essere fornita dal temporaneo abbandono della militanza politica, compiuto da Marx agli inizi degli anni Cinquanta. Sicuramente il mutamento del contesto storico, la vittoria della controrivoluzione in tutta Europa, la repressione, l’esilio londinese furono tutti fattori che ebbero un’importanza decisiva. Vi fu però anche una motivazione squisitamente teorica, un radicale mutamento nella prospettiva strategica marxiana1.

«Nel caso di una battaglia contro un nemico comune non c’è bisogno di nessuna unione speciale. Appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti coincidono momentaneamente, e, com’è avvenuto sinora così per l’avvenire, questo collegamento, calcolato soltanto per quel momento, si ristabilirà spontaneamente»2.

L’imperativo dell’alleanza di tutte le forze democratiche, centrale nel Manifesto, sembra ormai, dopo la rivoluzione, avere ben poco di strategico; il vero compito dei comunisti rivoluzionari è piuttosto la lotta proprio contro queste alleanze ibridatrici che, lasciando evaporare le differenze di classe, dissolvono l’autonomia del proletariato e ne distruggono la coscienza e la forza rivoluzionaria.

« Le diverse beghe, a cui attualmente si abbandonano i rappresentanti delle singole frazioni del partito continentale dell’ordine e in cui si compromettono a vicenda, ben lungi dal fornire l’occasione di nuove rivoluzioni, sono al contrario possibili soltanto perché la base dei rapporti è momentaneamente così sicura e, ciò che la reazione ignora, così borghese. Contro di essa si spezzeranno tutti i tentativi reazionari di arrestare l’evoluzione borghese, come tutta l’indignazione morale e tutti i proclami ispirati dei democratici. Una nuova rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una però è altrettanto sicura quanto l’altra»3.

Questo principio teorico fu la scoperta fondamentale e il grande contributo della rivoluzione del 1848 alla teoria marxiana: non solo fu il presupposto della nuova strategia anti-ideologica, che spinse Marx a criticare violentemente i progetti cospiratori dei democratici esiliati a Londra e provocò la scissione dell’ala Willich-Schapper nella ricostituita Lega dei comunisti, ma fu anche e soprattutto lo strumento di un’autocritica fondamentale. L’individuazione dell’intrinseco legame tra crisi e rivoluzione impose infatti una radicale problematizzazione della teoria marxiana, che dovette essa stessa liberarsi dai presupposti ancora ideologici, dagli ultimi residui di “filosofia della storia” che, alle soglie della rivoluzione, ancora inibivano la formulazione di una teoria rivoluzionaria organica e pienamente coerente. Marx non ha mai né rinnegato le tesi enunciate nel Manifesto né ha mai tematizzato una differente teoria politica; eppure le vicende del biennio rivoluzionario europeo, inintelligibili attraverso tale schema interpretativo, gli imposero necessariamente l’utilizzazione di altre categorie, non “filosofiche”, che superarono di fatto la semplicità dell’antico modello teorico lineare4: dopo il Quarantotto, infatti, la rivoluzione proletaria non poté più fondarsi semplicemente sull’ “astratta necessità” che accomuna ogni società umana, destinata a perire con l’emergere della contraddizione di forze produttive e rapporti di produzione, ma si dovette invece legare alla modalità peculiare con cui questa “legge generale" si realizza nel modo di produzione capitalistico, a quel movimento ciclico attraverso il quale si sviluppa la contraddizione di lavoro salariato e capitale.

Così, proprio a partire dai testi giornalistici scritti a tra il 1848 e il 1853 è possibile rintracciare preziose indicazioni per una teoria della rivoluzione ben più problematica, intimamente legata all’essenza del modo di produzione capitalistico, al suo essere “terra di mezzo” tra il regno della necessità e quello della libertà, tra la preistoria e la storia dell’umanità5.

venerdì 29 aprile 2016

Teoria critica della società? Critica dell’economia politica. Adorno, Backhaus, Marx* - Tommaso Redolfi Riva




Nella Dialettica negativa  (T. W. Adorno, Dialettica negativa, Torino, Einaudi, 1970, p. 320.), l’excursus su Hegel ha per titolo Spirito del mondo e storia naturale. Quello che appare come un dualismo tra la progressiva umanizzazione del mondo – quindi realizzazione della libertà, storia – e la cieca necessità della natura, ben presto si dà a vedere come una prosecuzione della natura all’interno della storia, come una continuazione dell’eteronomia nella sfera della vita storica: “la storia umana, il progressivo dominio sulla natura, prosegue quella inconsapevole della natura”. Lo spirito del mondo, che nelle pagine hegeliane della filosofia della storia si mostrava come il progressivo processo di realizzazione della libertà, è letto da Adorno quale luogo dell’affermazione dell’universale a danno del particolare, momento di autonomizzazione di un processo complessivo di contro alle singole azioni che lo compongono. Più in particolare la critica alla logica hegeliana di universalità e particolarità si specifica nel richiamo adorniano alla legge dell’accumulazione capitalistica che si realizza per mezzo delle azioni individuali, e da esse si rende autonoma e oggettiva. 


Per Adorno, Hegel ha individuato questo processo sovraindividuale attraverso il concetto di spirito del mondo che per l’appunto “si disinteressa dei viventi, di cui […] ha bisogno, così come questi possono esistere solo grazie a quel tutto”, ma, invece di criticarlo nella determinatezza storica del modo di produzione capitalistico, lo ha elevato a “ipostasi filosofica, a processo universale di affermazione della libertà.
Per Adorno, la filosofia di Hegel diventa in prima istanza un grimaldello per la comprensione dell’imporsi di una struttura oggettiva, ma nello stesso tempo oggetto di critica, in quanto eternizzazione, ipostasi, di un processo storicamente determinato.

L’istanza critica che muove Adorno è di grande interesse: la società dominata dal modo di produzione capitalistico si costituisce attraverso una specifica struttura nella quale le singole azioni individuali si compongono in un’oggettività che domina gli stessi agenti sociali. Nel modo di produzione capitalistico si infrange la classica antitesi tra natura e storia. Una tale antitesi è vera e falsa insieme: è vera in quanto la legalità che si impone agli agenti sociali è un loro stesso costrutto e quindi è storica; è falsa in quanto questa legalità prodottasi storicamente agisce sugli agenti proprio come una legge della natura. Come afferma enfaticamente Adorno: “l’oggettività della vita storica è quella di una storia naturale".


L’intento delle pagine seguenti è quello di mostrare come il Marx teorico della forma di valore sia in grado di approfondire e portare a fondamento i concetti centrali della teoria critica di Adorno. Nei primi paragrafi (§§ 1-3) farò vedere che i temi essenziali della sociologia critica di Adorno, in particolare il tema dell’oggettività sociale e dell’autonomizzazione della società, trovano il proprio centro esplicativo nel concetto di scambio quale astrazione reale. Mostrerò poi che tale concetto rimane sostanzialmente indeterminato e privo di una precisa fondazione teorica nell’opera di Adorno. Nei paragrafi successivi (§§ 4-6) cercherò di mostrare che una fondazione dello scambio quale astrazione reale può essere guadagnata con l’analisi della forma di valore sviluppata dalla Neue Marx-Lektüre e in particolare da Hans-Georg Backhaus attraverso un’attenta lettura della critica dell’economia politica di Marx.


mercoledì 27 aprile 2016

Le classi nel mondo moderno III. Nuove frontiere della produzione e dello sfruttamento* - Alessandro Mazzone

*Da:    http://www.proteo.rdbcub.it/
Prima parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/le-classi-nel-mondo-moderno-alessandro.html                                                                                                                          Seconda parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-la.html 

Chi edificò Tebe dalle sette porte?                                                                      
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge. 


In questa terza e ultima parte cercherò di porre in luce - senza alcuna pretesa di completezza - alcuni problemi che si pongono a chi guarda all’attuale fase della mondializzazione e competizione capitalistica dal punto di vista dei lavoratori. 

martedì 26 aprile 2016

NEOLIBERISMO E POSTMODERNISMO: ALLEATI TRA LORO, MA NOSTRI NEMICI* - Alessandra Ciattini




Neoliberismo e postmodernismo sono due espressioni opposte e conflittuali del tardo capitalismo o presentano significative convergenze? Cerchiamo di indicare alcuni punti di contatto.



Si parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue forme, comprese le sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica concezione del mondo, scaturita dalla cosiddetta fine delle ideologie, improntata ad un facile pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e talvolta intrisa di un buonismo ipocrita auspice del rispetto dell'altro e pronto ad agitare la “cultura dell'accoglienza”.

Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo, affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972). Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza, ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i ricettori del suo messaggio. 

L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio “successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento stento della mera sopravvivenza. 

Esso ha rappresentato l'abbandono del keynesismo postguerra e il ritorno al monetarismo, ma al tempo stesso in esso si è coagulata la reazione alle vittorie conseguite dai lavoratori sul piano sociale, dovute anche allo scenario internazionale, in cui il “capitalismo puro” aveva dovuto moderarsi per l'esistenza di un modello alternativo, pur con tutti i suoi problemi.

lunedì 25 aprile 2016

Dialoghi di profughi IX.* - Bertolt Brecht

*Da:   https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-ix-bertolt-brecht/10151291297043348?pnref=story
Cos'è "Dialoghi di Profughi":    http://www.controappuntoblog.org/2013/10/18/quando-si-parla-di-umorismo-io-penso-sempre-al-filosofo-hegel-fluchtlingsgesprache-dialoghi-di-profughi-brecht-bertolt/ 




LA SVIZZERA, FAMOSA PER L’AMORE DELLA LIBERTA’ E IL FORMAGGIO. – EDUCAZIONE ESEMPLARE IN GERMANIA. – GLI  AMERICANI.



ZIFFEL     La Svizzera è un paese famoso perché vi si può essere liberi. A patto però di essere turisti.

KALLE     Io ci sono stato e non mi ci sono sentito troppo libero.

ZIFFEL     Probabilmente non abitava in albergo. Bisogna stare in albergo. Da lì uno può andare dove vuole. Intorno alle più alte montagne, da cui si godono i panorami più belli, non ci sono steccati né niente. Si dice che in nessun posto ci si sente più liberi che in cima a una montagna.

KALLE     Ho sentito dire che gli stessi svizzeri non ci salgono mai, a meno che non siano guide, e allora non sono veramente liberi perché sono costretti a portare in giro i turisti.

ZIFFEL     Le guide hanno probabilmente meno sete di libertà degli altri svizzeri. Storicamente, la sete di libertà della Svizzera deriva dal fatto che il paese si trova in una posizione geografica sfavorevole. E’ circondato da potenze smaniose di conquiste. Di conseguenza gli svizzeri devono sempre stare sul chi vive. Se le cose stessero diversamente non avrebbero bisogno di sete di libertà. Non si è mai sentito parlare di sete di libertà presso gli esquimesi. La loro posizione geografica è più favorevole.

venerdì 22 aprile 2016

E. Bloch, K. Korsch, L. Althusser.* - Renato Caputo



Il marxismo di E. Bloch; dalla filosofia alla scienza: il marxismo di Korsch; marxismo e strutturalismo: L. Althusser; introduzione a La scuola di Francoforte

La Scuola di Francoforte: Horkheimer; T. W. Adorno; H. Marcuse, W. Benjamin.   https://www.youtube.com/watch?v=qwZXv27HISA&feature=share

La parabola della filosofia di G. Lukacs dalla coscienza di classe all'ontologia dell'essere sociale.   https://www.youtube.com/watch?v=QuKzkmVLD-c  

giovedì 21 aprile 2016

CRITICA DELLA RAGION SPURIA*- Riccardo Bellofiore





Nel capitalismo il lavoro è sfruttato. Questa è la base dell'analisi
marxiana e negarla è negare Marx. Una polemica con i critici della teoria del valore




La tesi che nell'economia capitalistica il lavoro salariato sia "sfruttato" costituisce il nodo centrale della teoria marxiana: talmente essenziale che abbandonarlo implica approdare alla costruzione di un marxismo senza Marx.

Chi propone un'affermazione del genere ha però l'obbligo di affrontare la sfida degli attacchi a quella teoria. Attacchi sempre più efficaci, tanto che difficilmente qualcuno osa richiamarvisi al giorno d'oggi. Le ragioni delle critiche più diffuse sono presto dette. Sul terreno dei principi, non terrebbe il fondamento su cui Marx costruisce la teoria del valore, ovvero la riconduzione di quest'ultimo a nient'altro che lavoro. Sul terreno dei fatti, si sarebbero esaurite le basi materiali del discorso marxiano.

Per un verso, assisteremmo ad una tendenziale "fine del lavoro", e non ad una sua sempre più pervasiva centralità. Per l'altro, sarebbe ormai scomparsa quella figura del lavoratore omogeneo perché dequalificato in cui si tradurrebbe empiricamente la nozione marxiana di "lavoro astratto".

Vale la pena di partire da una rilettura delle basi categoriali della critica dell'economia politica. Il ragionamento di Marx è il seguente. Nel processo capitalistico i lavoratori salariati riproducono il valore dei mezzi di produzione impiegati (trasferendo in avanti il lavoro morto storicamente ereditato dal passato) e aggiungono un neovalore. Quest'ultimo rappresenta sul mercato in forma monetaria il lavoro "vivo" speso nel periodo corrente e oggettivato nel reddito nazionale. Il valore di tutta la forza-lavoro occupata è dato dal lavoro contenuto nella "sussistenza" merceologicamente definita, il "lavoro necessario".

mercoledì 20 aprile 2016

La filosofia francese contemporanea - Francesco Valentini


"Questo volume si ripropone di esaminare le manifestazioni più importanti del pensiero francese postbergsoniano. Il periodo di maggiore rigoglio di questo pensiero è stato certamente l'immediato dopoguerra con le celebri discussioni intorno all'esistenzialismo e al marxismo, strettamente connesse con le idee della Resistenza e con le nuove condizioni politiche. Crediamo che con essa la Francia abbia avuto voce europea.

Il nostro esame avrà a suo centro tale ordine di problemi e ne seguirà l'evoluzione, un'evoluzione in ceto modo autocritica, perché condurrà alla riconquista di posizioni tradizionali: marxismo, hegelismo, cristianesimo cattolico. La sempre minor fortuna del termine"esistenzialismo" è un segno esteriore di questo processo. La ricostruzione del pensiero di Gabriel Marcel fatta dal Padre Troisfontaines e nella quale il Marcel ha riconosciuto l'opera che egli avrebbe dovuto scrivere è una felice sistemazione della sua filosofia nel quadro del cattolicesimo più ortodosso. Da parte sua Sartre si dichiara marxista, mentre Eric Weil riprende i temi classici dell'hegelismo. E' superfluo dire che tale ritorno su vecchie posizioni non svaluta affatto il cammino percorso per raggiungerle ancora una volta e che esse stesse ne escono in varia misura rinnovate.

Le nostre analisi verteranno dunque su questi problemi; e ciò naturalmente implicherà una preferenza per taluni autori e talune correnti, onde sarà facile lamentare delle "assenze". Questa avvertenza mirerebbe a giustificarle almeno in parte e, in ogni caso, a pregare il lettore di voler giudicare il libro più per quello che contiene che per quello che manca." 

(Francesco Valentini) 


lunedì 18 aprile 2016

Colonizzazione dell'immaginario e controllo sociale* - Renato Curcio

*Da:     http://www.rivistapaginauno.it/            http://www.sinistrainrete.info/
Vedi anche:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2015/08/demenza-digitale.html



L’Impero virtuale, nonostante il titolo, non è un lavoro su internet; internet è solo lo sfondo, è un territorio che oggi fa parte dello spazio in cui viviamo e quindi in qualche modo, parlando di questo libro, lo attraverseremo. Non è neanche un sermone contro le tecnologie, che esistono fin da quando un uomo ha preso in mano una clava, ossia uno strumento, e che quindi accompagnano l’intera storia dell’umanità. Non si tratta dunque di essere né pro né contro, ma di mantenere vivo un pensiero critico – che in quest’epoca fa un po’ difetto – anche sugli strumenti, soprattutto quelli che non sono né secondari né trascurabili per il fatto che investono la nostra vita, sia lavorativa che relazionale. Intendo la nostra vita di specie, cioè una vita che è trasversale e ci mette sullo stesso piano di un cittadino cinese, spagnolo, del Sudafrica ecc. È una riflessione necessaria perché queste nuove tecnologie, a differenza di quelle precedenti della società industriale, si implementano a una velocità straordinaria, per cui abbiamo di fronte a noi un percorso di trasformazione sociale che va talmente veloce che la nostra capacità di coglierne il senso dello sviluppo, il significato e le implicazioni, come singoli cittadini e anche ricercatori e soprattutto come lavoratori che vivono in vario modo questi territori, è disorientata. Un disorientamento che assume due facce: quella dell’accettazione, spesso acritica, di queste tecnologie, come se fossero ormai una normalità; oppure un’accettazione molto dolorosa, perché chi deve fare i conti con un bracciale che monitorizza la sua vita lavorativa per ogni secondo di spazio e di tempo, ha certamente una relazione diversa con questi dispositivi rispetto a una persona che li utilizza in maniera acritica o superficiale.

In questo libro è importante il sottotitolo: Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale. La proposta di ragionamento è infatti sulle tecniche e sulle modalità di colonizzazione dell’immaginario, indubbiamente la materia prima più preziosa che esista sul pianeta, perché se perdiamo la capacità di immaginare in modo autonomo prospettive che ci facciano bene, è certo che può esserci chi è interessato a immaginare per noi delle prospettive che, al contrario, tanto bene non ci fanno.
Siamo abituati a pensare la colonizzazione per ciò che la storia ci consegna, una storia atroce di prepotenze e di atti di forza, di guerre, di tentativi di subordinazione di altri Paesi, ma cosa significava e cosa significa in termini di pensiero critico? Per prima cosa vuol dire immaginare un ordine diverso di un certo territorio, e poi imporlo ai propri fini. Per esempio, vedo una bella prateria, immagino di trasformarla in un allevamento intensivo di mucche, ed ecco che mi approprio con la forza di quel territorio e trasformo il suo ordine in un ordine produttivo per me, al di là della storia, della cultura, di tutto ciò che quel territorio costituisce storicamente e culturalmente. La storia del colonialismo è quindi la storia dell’imposizione a dei territori di un ordine immaginario a fini produttivi.

È una storia violenta, realizzata in nome di una ideologia e di grandi miti, per esempio in nome della superiorità dell’Occidente che va a portare la sua cultura in altri territori. L’Italia conosce molto bene la pochezza di questo ragionamento, dalla seconda metà dell’Ottocento a tutto il periodo fascista siamo andati in Africa a portare la cultura imperiale, colonizzazioni che si sono tradotte in uso di gas tossici, iprite, arsenico... Questo ha significato anche costruire grandi fabbriche, la Montecatini è nata sulla produzione di queste sostanze che nel 1922 erano già state messe fuori legge, ma che noi abbiamo usato negli anni ‘40 soprattutto, prima in tutto il Corno d’Africa e poi nel periodo tra il ‘42 e il ‘43 nell’area più a nord.

venerdì 15 aprile 2016

Capitalismo 2015 - Antonio Carlo

Leggi anche:   http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8743-antonio-carlo-capitalismo-2016-l-anno-piu-nero-dal-2009.html



Seconda parte:    https://www.youtube.com/watch?v=xcAkTuxmXT8

A proposito di secoli (lunghi o brevi) di Grandi Depressioni e di crolli.

Qualche anno fa uno storico inglese di grande valore (Eric Hobsbawm) ha enunciato la teoria del XX secolo come secolo breve che sarebbe iniziato nel 1914 (prima guerra mondiale) per finire nel 1989 (caduta del muro di Berlino) solo con una durata di soli 75 anni. Sorprende che uno storico dell’economia come l’inglese, che dà un peso prevalente alla struttura economica come si conviene ad un marxista di valore, dia qui un peso preponderante a fattori politici o politicomilitari; a nostro avviso invece il XX secolo dura esattamente 100 anni: dal 1873 al 1973. Questo perché noi privilegiamo nell’analisi fattori strutturali: nel 1873 con la crisi di quell’anno e la prima Grande Depressione durata fino al 1896 si ha la trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo oligopolistico, ciò che caratterizzerà la storia del XX secolo. Nel 1973 con la grande crisi del petrolio emerge il dominio della grande impresa multinazionale che paralizza l’azione regolatrice dello Stato e determina una situazione del tutto nuova nell’economia mondiale con livelli di anarchia e di ingovernabilità senza precedenti anche per un sistema, come quello capitalistico, in cui rotture e crisi sono assai frequenti. Da allora ha inizio il XXI secolo, l’ultimo secolo nella storia del capitalismo (ultimo nel senso di definitivo) in cui l’anarchia e l’incontrollabilità dell’economia sono un fatto pressoché quotidiano, viviamo cioè, o meglio galleggiamo, in una situazione di crisi ed instabilità permanente. L’oligopolio un tempo nazionale, trasformatosi in Impresa Multinazionale diventa una mina vagante assolutamente incontrollabile.

Le IM paralizzano gli Stati, fanno esplodere la disoccupazione a livelli insopportabili, determinano un livello di evasione fiscale insostenibile, spingono gli Stati verso il default etc. Tutto questo si può definire una situazione di crollo del capitalismo. Ovviamente chi è abituato a considerare il crollo come qualcosa di repentino, come normalmente è per il crollo di un palazzo, non può assuefarsi a questa idea, ma in realtà per noi crollo significa una situazione di ingovernabilità continua e crescente in cui i problemi si pongono continuamente e non si risolvono mai, incancrenendo. Il crollo, dunque, comprende una fase storica che già si protrae da oltre 40 anni dalla crisi del 1973- 75 che ha evidenziato tutti i problemi che oggi sono sul tappeto e che sono andati crescendo decennio dopo decennio.

Quando potrà protrarsi nel tempo questo crollo continuo non è dato sapere, per quanto se è esatta l’analisi sinora prospettata, mi riesce difficile capire come questo sistema possa sopravvivere galleggiando anche solo oltre i prossimi 15 anni. Una cosa comunque mi sembra certa: nessuna società può sopravvivere se non risolve il problema del governo delle proprie contraddizioni, e oggi soluzioni alle contraddizioni prospettate non se ne vedono ed esse tendono giorno dopo giorno ad incancrenirsi. Le conclusioni sono facili da trarre, per chi non voglia fare lo struzzo.

Leggi tutto:   https://mrzodonato.files.wordpress.com/2016/01/acarlo_capitalismo-2015.pdf

giovedì 14 aprile 2016

Dialoghi di profughi VIII.* - Bertolt Brecht

*Da:   https://www.facebook.com/notes/maurizio-bosco/dialoghi-di-profughi-viii-bertolt-brecht/10151263220568348?pnref=story



DEL CONCETTO DI BONTA’. – LE ATROCITA’ TEDESCHE. – IL PENSIERO DI CONFUCIO SUI PROLETARI. – SULLA SERIETA’. 




KALLE    La parola «buono» ha un brutto suono.

ZIFFEL    Gli americani per dire «buon uomo», usano il termine sucker, pronunciato «saggher», e possibilmente sputato fuori da un angolo della bocca. Vuol dire uno che è sempre fregato, un sempliciotto, la vittima ideale per un imbroglione affamato.

KALLE    Basta pensare a un «buon garzone panettiere», a braccetto con un «allegro operaio metallurgico»,, e allora ti casca la benda dagli occhi. I buoni, in larga scala, sono soltanto quelli che non fanno parte della cosiddetta gente perbene. Gli operai tessili ci vestono, i braccianti ci nutrono, i muratori e i metallurgici ci fanno le case, i birrai ci dissetano, i tipografi ci istruiscono, e tutti per un compenso notoriamente misero: un disinteresse simile non lo conosce nemmeno il Sermone della Montagna.

ZIFFEL    Chi dice che sono buoni? Per essere tali, dovrebbero essere soddisfatti del loro misero compenso e contenti di renderci la vita comoda. Ma non lo sono.

KALLE    Non faccia lo sciocco. Mi basta solo chiederle: gli consiglierebbe, in coscienza, di accontentarsi del misero salario che pigliano?

ZIFFEL    No.

mercoledì 13 aprile 2016

Dispotismo* (di ieri, di oggi...) - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 



Marx rimproverò che “Hegel osserva in un punto delle sue opere che tutti i grandi fatti della storia del mondo e i loro personaggi compaiono, per così, a due riprese. Egli ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in tragedia, la seconda in farsa”. Il dispotismo che si ripresenta puntualmente nel­l’involuzione della società borghese capitalistica è storia vecchia, che con lo scorrere del tempo sarà sempre più evidente e dura, ma anche drammaticamente ridicola – se si tiene conto che ormai si è giunti alla terza, quarta volta o più. Le gesta di Berlusconi hanno precedenti illustri, nella finzione letteraria e nell’analisi scien­tifica. Da Brecht a Benjamin, da Marx a Engels (per limitarsi agli autori qui parafrasati), ma senza dimenticare altri nomi del calibro di Vico, Lafargue, Lu Hsün, Kraus, han­no visitato ampiamente il tema, di cui qui si vuole offrire un sintetico campionario [repetita juvant].

L’ordinamento giuridico borghe­se e il delitto, secondo le regole del romanzo poliziesco, sono tra loro antagonisti. Nel romanzo poliziesco Il partito di Mackie Messer, il rapporto fra ordinamento giuridico bor­ghese e delitto è rappresentato in modo conforme alla realtà. L’ultimo si rivela come un caso particolare dello sfruttamento che è sancito dal primo. Nei manuali di criminologia i de­linquenti sono indicati come ele­menti asociali. Ma per alcuni la storia contemporanea ha confu­tato questa definizione. Facen­dosi delinquenti, secondo la nuova scuola, molti sono di­ventati modelli sociali. Chi segue tale scuola ha la na­tura di un capo. Le sue parole hanno un tono statale, le sue azioni un tono commerciale. I compiti di un capo non sono mai stati più difficili di oggi. Non basta usare la forza per la con­servazione dei rapporti di pro­prietà. Non basta obbligare gli stessi espropriati al proprio sfruttamento. Questi compiti pratici esigono di essere risolti. Ma come da una ballerina non si pretende solo che sappia danzare, ma anche che sia graziosa, così il fascismo non esige solo un salvatore del capi­tale, ma anche che egli “appaia” come un gentiluomo. È questo il motivo per cui un tipo così, in questi tempi, ha un valore inesti­mabile. Egli è capace di osten­tare ciò che il piccolo borghese intristito ritiene tipico di una per­sonalità. Nessuno vuole dargli spiegazioni, uno deve farlo. Ed egli lo può. Poiché questa è la dialettica della cosa: dato che egli vuole assumersi la respon­sabilità, i piccoli borghesi lo rin­graziano con la promessa di non chiedergli conto di nulla.

martedì 12 aprile 2016

Le lacrime di Confindustria* - Antonella Stirati


Anche se la quota salari presenta delle fluttuazioni legate al ciclo economico, è evidente una tendenza di lungo periodo negativa: dalla fine degli anni 1970 sino al 2007 vi è una riduzione della quota tra i 5 e i 10 punti di PIL. Solo dopo la crisi del 2007 la quota del lavoro aumenta. Le cause vanno dunque ricercate nella crisi stessa – che nata come crisi finanziaria è poi diventata, grazie in larga misura alle politiche di austerità, una crisi da caduta della domanda interna. 

La crisi genera un andamento sfavorevole della produttività, che dopo una forte caduta nel 2008 e 2009 torna a crescere nei due anni successivi, per poi declinare nuovamente rimanendo intorno ai livelli raggiunti nel 2007, e provoca anche una riduzione dei prezzi nel settore manifatturiero, sia in assoluto che relativamente all’indice dei prezzi al consumo. 

Conseguenza di questo è che i redditi da lavoro del settore manifatturiero diminuiscono in termini di prezzi al consumo dopo il 2010, ma aumentano in termini del valore della produzione manifatturiera. Tanto l’andamento della produttività che la divergenza tra prezzi al consumo e prezzi della produzione manifatturiera sono le cause della crescita della quota dei salari sul PIL

Diversamente dall’analisi proposta da Confindustria, che data l’inizio della crescita della quota salari al 1998, i dati qui presentati mostrano che l’aumento della quota dei salari sul Pil è strettamente legato alla crisi economica successiva al 2008; che i redditi medi da lavoro in termini di potere d’acquisto sono stagnanti dal 2010, e che all’origine dell’aumento della quota dei salari nell’industria manifatturiera e nel settore privato vi sono fenomeni – la caduta/stagnazione della produttività e dei prezzi, in particolare nel settore manifatturiero – strettamente legati all’andamento negativo della domanda e del PIL.

Conclusioni

La richiesta da parte di Confindustria di rimediare alla caduta della quota dei profitti e alla caduta degli investimenti attraverso una compressione dei salari rischia di aggravare la situazione, come già segnalato recentemente da numerosi economisti con l’appello Un contratto per il futuro. Ormai numerosissimi studi applicati mostrano che una diminuzione della quota dei salari riduce la domanda interna per consumi senza stimolare gli investimenti (cfr ad esempio Stockhammer, 2011) e quindi una caduta del potere d’acquisto dei salari approfondirebbe la crisi da domanda interna della economia italiana, determinando, a livello macroeconomico, sia il proseguimento della contrazione degli investimenti e con essi del sistema produttivo, sia effetti negativi sulla crescita della produttività, che come abbiamo visto dipende in misura rilevante dall’andamento della domanda aggregata e del PIL.

lunedì 11 aprile 2016

Le classi nel mondo moderno II. La complessità del conflitto* - Alessandro Mazzone

*Da:    http://www.proteo.rdbcub.it/
Prima parte:   http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/le-classi-nel-mondo-moderno-alessandro.html
Terza parte:    http://ilcomunista23.blogspot.it/2016/04/le-classi-nel-mondo-moderno-iii-nuove.html 


Chi edificò Tebe dalle sette porte?

Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi    
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.

Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge. 


Supponiamo per prima cosa di avere: da una parte il lavoro vivo, valore d’uso della forza lavoro, acquistata come ogni altra merce (e, per clausola di astrazione, al suo valore pieno, che varia naturalmente secondo le condizioni storico-sociali della sua riproduzione, compreso dunque il costo della sua formazione e il mantenimento della prole, senza di che il lavoro vivo cesserebbe presto di esistere). Dall’altra parte, i mezzi di produzione, separati dal lavoratore, che perciò non ha altro da alienare che la sua forza lavoro. Questa separazione - risultato, nel mondo moderno, di un lungo e doloroso processo di espropriazione dei produttori diretti, contadini e artigiani - è il primo elemento concettuale che permette di costruire la nozione di “classi” [1]. Infatti, abbiamo con ciò dall’altra parte i detentori dei mezzi di produzione [di qui innanzi: MP]: i quali dunque disporranno di un potere di comando sulla forza-lavoro [di qui innanzi: fl], poiché essa potrà operare, essere effettivamente lavoro vivo, soltanto se e in quanto essi la vogliano utilizzare.

Ma possiamo noi, con questo solo elemento, dire: ecco le “classi”, da una parte i lavoratori, dall’altra i detentori dei MP? No. La clausola di astrazione, introdotta da Marx in 1,5,2, importa per ora soltanto la continuità nel tempo del RP attraverso le diverse condizioni date, e solo dal lato dei lavoratori. Essa vuol dire che essi potranno sussistere, formarsi e riprodursi - ecco tutto. Ma ancora non sappiamo né come il RP funzioni, né come esso si produca [2], né come il suo contenuto si modifichi nello sviluppo del processo di produzione - che peraltro, come sappiamo, è in definitiva processo di produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro nella natura. Abbiamo dunque finora soltanto, per così dire, una linea divisoria ideale, che separa due spazi. E dai due lati di questa ideale linea divisoria non abbiamo ancora (come molti, invece, hanno creduto) “capitale” e “lavoro” nel loro divenire, modificarsi, svilupparsi secondo leggi interne, ma soltanto il dato ogni volta immediatamente presente, e che non possiamo ricondurre al processo complessivo in cui le classi effettivamente si formano e operano. Non lo possiamo, perché non abbiamo gli elementi per collegare il “dato” al “processo”. Non abbiamo, in altre parole, una forma di movimento.

La forma di movimento è quella del capitale stesso. Esso non è soltanto rapporto di capitale tra capitalisti e salariatima processo del capitale.

domenica 10 aprile 2016

Finanza perversa ed economia reale altrettanto perversa. Alle origini della crisi* - Riccardo Bellofiore (2009)

*Da:    http://www.alternativeperilsocialismo.it/

 Affronterò essenzialmente due questioni: la natura della crisi e i tempi, l’Europa. 

 Il quesito che cerco di pormi da qualche anno, in riflessione congiunta con Joseph Halevi, è quale crisi di quale capitalismo stiamo vivendo. L’ultima nasce come crisi finanziaria il 9 luglio 2007, istantaneamente è anche crisi bancaria tradotta da settembre-ottobre scorsi in maniera del tutto evidente in crisi reale. 

 Molti i luoghi comuni per affrontarla, che hanno sempre un aspetto di verità ma anche un altro distorcente. Si tratta di una crisi finanziaria che uccide un’economia reale? Questa mi sembra una posizione discutibile perché quello che cercherò di sottolineare è l’intreccio tra una finanza perversa e una economia reale altrettanto perversa.

 L’altra tesi è che sia la crisi di un mondo di bassi salari, in cui c’è stata una redistribuzione a danno del lavoro che alla fine si traduce in una crisi da domanda.
Di nuovo questo - come la perversione della finanza - è un fatto reale ma spiega molto poco perché è esistente da molto tempo. 

 Terzo luogo comune: è una crisi del neoliberismo - e anche qui c’è una verità - ma il neoliberismo viene inteso come sostanzialmente il ritorno dopo il 1980 a politiche di “lasciar fare”, mentre a mio parere siamo vissuti in un pieno di politiche economiche e si tratta di capirle. 

La tendenza alla stagnazione

 Come riportato dal Financial Times il 2 marzo 2009, si tratta di una crisi più grave di quella del 1973 e della new economy - simile a quella arrivata a metà della crisi del 1929 - dopo c’è stata una ripresa azionistica e borsistica che si tratterebbe di commentare. Se ci collochiamo in un’ottica di lungo periodo vediamo che questa nuova grande crisi dopo quella del Trenta, in cui la crescita del Pil fu solo dell’1.3, sta dentro un rallentamento dei tassi di crescita dagli anni Settanta in poi e sostanzialmente il periodo dagli anni Ottanta a oggi vede prevalere una tendenza alla stagnazione.

sabato 9 aprile 2016

BREVI NOTE SU IDEALISMO E MATERIALISMO* - Aristide Bellacicco**

*Da:   http://www.lacittafutura.it/
**Collettivo di Formazione marxista Stefano Garroni


La polarità idealismo-materialismo ha caratterizzato a lungo, e fino ai nostri giorni, il dibattito sulla relazione fra il pensiero di Hegel e quello di Marx. Ma si potrebbe tentare, come d'altra parte già è stato fatto, una lettura dei due filosofi che superi questa secca contrapposizione e lo schematismo che, a partire da Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, ha segnato uno dei nodi teorici più importanti in seno al movimento comunista. 



Prendo le mosse da un'arcinota definizione di Hegel, che si trova nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto, riguardante l'essenza della filosofia. "La filosofia" scrive Hegel in quel testo "è il proprio tempo appreso in pensieri." Scrutando bene in questa definizione si possono mettere in evidenza due cose: 

  1. esiste qualcosa come "il proprio tempo"
  2. questo "qualcosa" non coincide con il pensiero ma è da quest'ultimo fatto proprio attraverso un processo di apprendimento
Il "proprio tempo" è dunque "esterno" al pensiero: fra le due istanze esiste una relazione ma non un'identità.

Un'analoga relazione si può rintracciare nel Marx dellaIntroduzione alla critica dell'economia politica (1857). Scrive Marx in questo frequentatissimo testo: "Il concreto è concreto perché è la sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice... il metodo di risalire dall’astratto al concreto è il solo modo per il pensiero di appropriarsi del concreto, di riprodurlo come concreto nello spirito. Mai però il processo di genesi del concreto stesso."

È possibile sostenere che fra l'hegeliano "proprio tempo" e il marxiano "concreto" esista un'omologia di significato?