Tradotto in italiano e trascritto, direttamente dagli
articoli originali in lingua inglese presenti sul MIA, da Dario Romeo, marzo
2001
Sul finire degli anni
Settanta dell'Ottocento, la pace tra le classi inglesi iniziava a traballare.
La Grande Depressione, avvenuta durante il decennio, aveva colpito tutto il
mondo occidentale ed era stata, come sempre, particolarmente dura per gli
operai. Il ciclo capitalistico discendente rimetteva in moto i familiari
attacchi della classe capitalista contro i compromessi riformisti ch'erano
stati effettuati entro la società capitalistica.
George Shipton, Segretario del Consiglio sindacale inglese, faceva anche da
editore per il Labour Standard, l'organo dei sindacati inglesi. Egli chiese a
Engels di contribuire ad una discussione sul riformismo e sul movimento operaio
stesso.
Engels accettò e, tra il maggio e l'agosto 1881, scrisse 11 articoli, tutti
apparsi in editoriali anonimi. Egli utilizzò problematiche contemporanee per
elaborare principi economici di base sul socialismo scientifico e sulla natura
del capitalismo. Evidenziò in questi articoli l'inevitabilità del conflitto tra
capitalisti e proletariato - tale lotta non è un'aberrazione, è una
caratteristica centrale del capitalismo. I capitalisti saranno sempre
interessati ad abbassare i salari e le condizioni di vita della massa delle
persone prive di proprietà, semplicemente perché ciò è nel loro interesse.
Egli attaccò la visione dei sindacati come difensori quotidiani del
proletariato in tale battaglia. Nel suo primo articolo suggerì al movimento
operaio di abbandonare l'insignificante slogan "Una paga equa per un equo
lavoro" - in quanto la natura intrinseca del capitalismo impedisce ai
capitalisti di essere "equi" con gli operai, i cui salari essi devono
sempre tentare di abbassare - e di sostituirlo con lo slogan: "Possesso
dei mezzi di produzione - materie prime, fabbriche, macchinari - agli operai
stessi!"
Nell'articolo "Un partito degli operai", Engels sottolinea come i
sindacati da soli non possono liberare la gente dal ciclo ininterrotto della
schiavitù salariale. Questa deve unirsi in partito politico indipendente.
L'assenza di tale partito in Inghilterra tiene la classe operaia sotto il giogo
del "Grande Partito Liberale". E ciò crea confusione e demoralizzazione.
Da diverse lettere (a Marx, 11 agosto; a George Shipton, 10 e 15 agosto; a
Johann Philipp Becker, 10 febbraio 1882) apprendiamo che egli smise di scrivere
per tale giornale a causa della crescita di "elementi opportunisti"
all'interno del suo comitato di redazione.
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Una paga equa per un equo lavoro
Scritto: 1-2 maggio 1881
Pubblicato: fondo No. 1, 7 maggio 1881, come articolo di fondo
Questo è stato il motto del movimento operaio inglese negli
ultimi cinquant'anni. Esso ha svolto un buon servizio nel periodo della
crescita sindacale avvenuta dopo l'abrogazione delle infami Combination Laws
[Leggi sull'associazionismo] avvenuta nel 1824
[1]; esso ha svolto un servizio ancora migliore
all'epoca del glorioso movimento cartista, quando gli operai inglesi marciavano
alla testa della classe operaia europea. Ma i tempi scorron veloci, e molte
cose che risultavano desiderabili cinquanta, o addirittura trent'anni fa, oggi
non sono più adeguate e sono completamente fuori posto. Anche tale parola
d'ordine, onorata dal tempo, appartiene a queste cose.
Una paga equa per un equo lavoro? Ma cos'è una paga equa, e
cos'è un equo lavoro? Come vengono determinati dalle leggi d'esistenza e di
sviluppo della società contemporanea? Per rispondere a tale quesito non
dobbiamo affidarci alla scienza della morale o alla legge dell'equità, né ad
alcun sentimento d'umanità, giustizia o persino di carità. Ciò che è moralmente
equo, ciò che è equo per la legge, può esser assai lontano dall'esser
socialmente equo. L'equità o iniquità sociale sono decise da una sola scienza -
la scienza che si occupa dei fatti materiali della produzione e dello scambio,
la scienza dell'economia politica.
Ora, cosa intende l'economia politica per paga equa e per
equo lavoro? Semplicemente il saggio salariale e la lunghezza ed intensità
della giornata lavorativa determinati dalla concorrenza di datori di lavoro e
lavoratori nel libero mercato. E cosa sono queste cose, quando sono determinate
in tal modo?
Una paga equa, in condizioni normali, è la somma necessaria
a procurare al lavoratore quei mezzi di sussistenza che, secondo lo standard di
vita del proprio paese, gli servono a mantenersi in buono stato per lavorare e
per riprodurre la propria razza. Il saggio salariale reale, a causa delle
fluttuazioni del commercio, può essere ogni tanto al di sopra o al di sotto di
tale livello; ma, sotto condizioni eque, esso dovrebbe essere una media tra
tutte le oscillazioni.
Per equo lavoro si intendono quella lunghezza della giornata
lavorativa e quell'intensità di forza-lavoro reale che impiegano l'intera
energia lavorativa giornaliera dell'operaio senza sciupare le sue capacità per
i giorni seguenti.
La transazione, allora, può esser descritta nel modo
seguente: l'operaio dà al capitalista l'intera forza-lavoro giornaliera; cioè,
tutto ciò che egli può dare senza che sia resa impossibile la continua
ripetizione della transazione. In cambio egli riceve giusto quanto è necessario
a far replicare il medesimo accordo giorno dopo giorno, e nulla più. L'operaio
dà tanto, ed il capitalista tanto poco, quanto consente la natura dell'accordo.
Questa è una sorta di equità molto particolare.
Ma guardiamo questo fatto in modo un po' più approfondito.
Dal modo in cui, secondo gli economisti, i salari e la giornata lavorativa
vengono stabiliti dalla concorrenza, sembra che l'equità richieda un paritetico
punto di partenza per entrambe le parti. Ma ciò non corrisponde alla situazione
reale. Il capitalista, se non riesce a raggiungere un accordo con il
lavoratore, può permettersi di aspettare, e vive facendo affidamento sul
proprio capitale. Il lavoratore non ha questa possibilità. Egli non ha che il
salario per vivere e deve quindi prendere il lavoro quando, dove e nei termini
in cui gli viene offerto. Il lavoratore non dispone di un equo punto di
partenza. Egli è posto, dalla fame, in una terribile condizione di svantaggio.
Eppure, secondo l'economia politica della classe capitalista, questo è il
massimo dell'equità.
Ma tutto ciò è ancora una mera inezia. L'applicazione
dell'energia meccanica e delle macchine nei nuovi settori industriali, e
l'estensione ed il miglioramento dei macchinari nei settori ad essi già
soggetti, continua a rimuovere dal lavoro sempre più "mani"; e ciò
avviene ad un tasso assai più alto di quello con cui le "mani" soppiantate
vengono assorbite dalle, e trovano impiego nelle, manifatture del paese. Queste
"mani" soppiantate formano un vero esercito industriale di riserva ad
uso del Capitale. Se il commercio non tira, esse posson solo morire di fame,
chieder l'elemosina, rubare, o ricorrere alle Case di lavoro
[2]; se il commercio tira, invece, esse sono a
portata di mano per espander la produzione; e finché l'ultimo uomo, donna o
fanciullo di quest'esercito di riserva non avrà trovato lavoro - cosa che
accade solo in periodi di frenetica sovrapproduzione - fino a quel momento la
sua concorrenza terrà bassi i salari, e così, con la sua sola esistenza,
rafforzerà il potere del Capitale nella sua lotta contro il Lavoro. Nella sua
corsa contro il Capitale, il Lavoro non solo parte in posizione svantaggiata,
esso deve anche trascinarsi dietro una palla di cannone legata ai suoi piedi.
Eppure ciò è equo secondo l'economia politica Capitalista.
Ma andiamo ad indagare con quali fondi il Capitale paga
questi assai equi salari. Dal capitale, certamente. Ma il capitale non produce
valore. Il lavoro, affianco alla terra, è l'unica fonte di ricchezza; il
capitale in sé non è altro che lavoro accumulato. Così che i salari del Lavoro
sono pagati dal lavoro, e l'operaio è pagato da ciò che egli stesso ha
prodotto. Secondo ciò che potremmo chiamare senso comune di equità, i salari
del lavoratore dovrebbero consistere nel prodotto del suo lavoro. Ma ciò non
sarebbe equo secondo l'economia politica. Al contrario, il prodotto del lavoro
dell'operaio va al Capitalista, e l'operaio ottiene da esso non più dello
stretto necessario al suo sostentamento. E così il punto d'arrivo di questa
insolitamente "equa" corsa concorrenziale è che il prodotto del
lavoro di coloro che lavorano si accumula inevitabilmente nelle mani di coloro
che non lavorano, e diviene nelle loro mani il più potente mezzo per
assoggettare gli uomini che lo hanno prodotto.
Un equo salario per un equo lavoro! Molto si potrebbe dire
anche a proposito di un'equa giornata lavorativa, l'equità della quale è
esattamente uguale a quella dei salari. Ma ciò dobbiam lasciarlo per un'altra
occasione. Da ciò che si è detto è perfettamente chiaro che la vecchia parola
d'ordine ha fatto i suoi giorni, e difficilmente sarà ancora utile. L'equità
dell'economia politica, che stabilisce le leggi che governano la società reale,
tale equità pende tutta da un lato - il lato del Capitale. Lasciate, allora,
che il vecchio motto venga seppellito per sempre e rimpiazzato con un altro: POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE: MATERIE PRIME, FABBRICHE,
MACCHINARI AGLI OPERAI STESSI!
Scritto: 15-16 maggio 1881
Pubblicato: No. 3, 21 maggio 1881, come articolo di fondo
In un precedente articolo abbiamo esaminato un vecchio e
glorioso motto, "un equo salario per un equo lavoro", e siamo giunti
alla conclusione che il più equo salario, date le attuali condizioni sociali, è
necessariamente pari all'assai iniqua divisione del prodotto del lavoro umano,
la cui più vasta porzione entra nelle tasche del capitalista, mentre il
lavoratore deve accontentarsi di quanto basta per mantenersi in condizione di
lavorare e per riprodurre la propria specie.
Questa è una legge dell'economia politica, o, in altre
parole, una legge della presente organizzazione sociale della società, che è
più potente di tutti gli statuti e di tutte le leggi della Camera dei Comuni
inglese messe assieme, incluse quelle della Court of Chancery
[3] [Corte di giustizia]. Ma la società è
divisa in due classi opposte - da un lato i capitalisti, monopolizzatori di
tutti i mezzi di produzione, della terra, materie prime e macchinari;
dall'altro i lavoratori, operai deprivati di ogni proprietà dei mezzi di
produzione, padroni di nient'altro che della loro forza-lavoro. Finché sussiste
tale organizzazione sociale, la legge del salario resterà in pieno vigore, e
continuerà a fissare, giorno dopo giorno, le catene con le quali l'operaio è
reso schiavo del proprio prodotto - monopolizzato dal capitalista.
I sindacati di questo paese hanno per oltre sessant'anni
lottato contro questa legge - con che risultati? Sono riusciti a liberare la
classe operaia dalla schiavitù in cui il capitale - il prodotto delle sue
stesse mani - la tiene? Hanno permesso ad una sola sezione della classe
lavoratrice di superare la schiavitù salariale, di divenir proprietaria dei
propri mezzi di produzione, delle materie prime, attrezzi e macchinari
necessari alla loro attività, e così di divenir padrona del prodotto del
proprio lavoro? È ben risaputo che essi non solo non ci sono mai riusciti, ma
anche che non ci hanno mai provato.
Lungi da noi l'affermare che i sindacati, per questo motivo,
sono inutili. Al contrario essi, in Inghilterra tanto quanto in ogni paese
industrializzato, sono una necessità per le classi lavoratrici nella loro
battaglia contro il capitale. Il saggio medio di salario è pari alla quantità
di denaro sufficiente a riprodurre la specie degli operai in un certo paese,
secondo lo standard di vita abituale di quel paese. Lo standard di vita può
essere assai differente per diverse classi di lavoratori. Il grande merito dei
sindacati, nella loro battaglia per alzare il saggio salariale e per ridurre
l'orario di lavoro, è che essi tendono a far salire lo standard di vita. Ci
sono molte attività nei quartieri orientali di Londra il cui lavoro non è meno
qualificato ed è tanto duro quanto quello dei muratori e dei loro operai,
eppure in queste attività si guadagna difficilmente la metà del salario di
questi ultimi. Perché? Semplicemente perché una potente organizzazione permette
agli uni di mantenere un relativamente alto standard di vita; mentre gli altri,
disorganizzati e privi di potere, devono sottomettersi non solo
all'inevitabile, ma anche all'arbitraria usurpazione di coloro che li
impiegano: il loro standard di vita viene gradualmente ridotto, essi imparano a
vivere con salari sempre più bassi, ed i loro salari cadono naturalmente a quel
livello che essi stessi hanno imparato ad accettare come sufficiente.
La legge del salario, allora, non è di quelle che seguono
una linea categorica. Non è, entro certi limiti, inesorabile. C'è in ogni
momento (escluse le grandi depressioni) ed in ogni attività una certa libertà
entro la quale il saggio salariale può esser modificato dai risultati della
battaglia tra i due gruppi contendenti. I salari sono in ogni caso fissati
dalla contrattazione, e nelle contrattazioni colui che resiste più a lungo e
meglio, ha maggior possibilità di ottenere di più di ciò che gli è dovuto. Se
l'operaio isolato cerca di condurre la trattativa con il capitalista, egli
verrà facilmente battuto e dovrà arrendersi all'arbitrio del capitalista; ma se
un'intera categoria di operai forma una potente organizzazione, raccogliendo
fondi che le permettano, se necessario, di sfidare i loro datori di lavoro e di
mettersi così in condizione di poter trattare con i datori come forza unitaria,
allora, e solo allora, essa avrà la possibilità di ottenere persino quella
miseria che, secondo la costituzione economica della società presente, può
esser chiamata come un equo salario per un equo lavoro.
La legge dei salari non viene rovesciata dalle battaglie
sindacali. Al contrario, essa è rafforzata da queste lotte. Senza i mezzi di
resistenza sindacali, l'operaio non riceve neppure ciò che gli è dovuto secondo
le regole del sistema salariale. È solo con la paura dei sindacati innanzi ai
suoi occhi che il capitalista può esser costretto a tener conto dell'intero
valore commerciale della forza-lavoro del suo operaio. Volete una prova?
Guardate i salari pagati ai membri dei grandi sindacati, e poi guardate i
salari pagati in quelle innumerevoli piccole attività di quella pozza di
stagnante miseria che sono i quartieri orientali di Londra.
Così, i sindacati non attaccano il sistema salariale. Non
sono l'altezza o la bassezza dei salari ciò che costituisce la degradazione
economica della classe lavoratrice: tale degradazione è compresa nel fatto che,
anziché ricevere per il suo lavoro l'intero prodotto del suo stesso lavoro, la
classe operaia deve accontentarsi di quella porzione della propria produzione
chiamata salario. Il capitalista intasca l'intera produzione (e con questa paga
il lavoratore) perché egli è il proprietario dei mezzi del lavoro. E, perciò,
non c'è riscatto reale per la classe lavoratrice finché essa non diviene
proprietaria di tutti i mezzi di produzione - terra, materie prime, macchinari,
ecc. - ed in questo modo anche la proprietaria DELL'INTERO PRODOTTO DEL PROPRIO
LAVORO.
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