domenica 2 aprile 2017

STACANOVISMO E CONTRORIFORME NEL CAPITALISMO NEOLIBERISTA*- Paolo Massucci**

*Da:   http://contropiano.org/
**collettivo di formazione marxista Stefano Garroni 

Analisi dei messaggi ideologici nella presente fase del capitalismo

In una edificante serata del popolare festival di San Remo di quest’anno abbiamo avuto il piacere di assistere alla presentazione di una “nuova” figura nel panorama ideologico neoliberista: quella dello Stachanov nostrano. Si tratta di un impiegato pubblico modello, il quale, in quarant’anni di lavoro, non ha fatto neppure un giorno di malattia ed inoltre ha accumulato ben 239 giorni di ferie non godute. Ci si potrebbe chiedere -se fosse cosa seria- se la ricerca medica stia studiando il caso, per scoprire i segreti della “salute miracolosa”. Invece, riguardo ai 239 giorni di ferie non godute -se fosse vero-, saremmo curiosi di sentire anche il parere della moglie, se mai ne avesse.

E’ notizia di questi stessi giorni che Boeri, presidente dell’INPS, il quale si è distinto per il tentativo -ad oggi fallito- di sacrificare la pensione di reversibilità per i superstiti, intenderebbe intensificare i controlli medico-fiscali per i dipendenti pubblici assenti per malattia. E, con l’occasione, richiederebbe di aumentare, da quattro a sette, le ore giornaliere di reperibilità per le visite di controllo del medico fiscale per i dipendenti in malattia del settore privato, uniformando così la durata della reperibilità dei dipendenti privati a quella dei dipendenti pubblici. Per questi ultimi infatti detta durata era già stata portata da quattro a sette ore dal ministro Brunetta del governo Berlusconi.

Si tratta, secondo Boeri, la classe dirigente e i giornalisti venditori al dettaglio dell’ideologia neoliberista e repressiva, di semplice ristabilimento di un principio di equità (naturalmente non viene neppure considerata la possibilità di uniformare per tutti la durata delle fasce di controllo alle quattro ore attuali dei dipendenti privati e neppure di stabilire un livello intermedio tra le quattro e le sette ore). Eppure, specularmente, nessuno di loro ha giudicato iniquo il cambiamento effettuato da Brunetta, allorché introduceva l’aumento della fascia oraria di reperibilità esclusivamente per il pubblico impiego: è stata considerata, anzi -quella di Brunetta- una misura “più che sacrosanta!”.

Al principio di equità si è ispirata anche la controriforma delle pensioni Fornero del governo Monti: essa ha innalzato di tanti anni l’età pensionabile (che secondo le stime supererà i 70 anni per i quarantacinquenni di oggi), soprattutto per le donne, le quali prima avevano una pensione anticipata rispetto agli uomini e ora sono state equiparate agli uomini, semplicemente innalzando l’età delle donne a quella degli uomini (con un aumento di ben dieci anni!). Non volevamo la “parità tra sessi”?

lunedì 27 marzo 2017

La Cina nel processo di globalizzazione*- Spartaco A. Puttini



Sotto la guida di Reagan e della Thatcher, Stati Uniti e Gran Bretagna vararono nel corso degli anni Ottanta una serie di politiche che contribuirono a ristrutturare le società dell’Occidente (e non solo dell’Occidente) e l’ordine internazionale. Il processo di globalizzazione neoliberista [1] che ha plasmato il mondo negli ultimi decenni ha il proprio epicentro proprio nella Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Su quest’onda si impose un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal “Washington Consensus”.

Oggi, invece, il presidente USA, Donald Trump e la premier britannica Theresa May puntano esplicitamente a sottrarsi, in termini e modalità pur differenti, alla morsa dell’interdipendenza sempre crescente tra le varie regioni del globo che è stata un tratto caratteristico del processo di globalizzazione. Il nuovo presidente statunitense, in particolare, arriva a mettere in discussione alcune delle stelle cardinali seguite dalla politica americana negli ultimi decenni. Lo fa sul dossier messicano, principalmente per porre fine ai processi migratori che scavalcano il Rio Grande, incorrendo nella seria conseguenza di mandare in malora il NAFTA, l’area integrata di libero scambio che riunisce USA, Canada e Messico e che riveste un’importanza strategica essenziale nella politica estera statunitense. Più in generale Trump mette in discussione la bontà dei progetti di integrazione regionale a guida Usa, che erano stati promossi al fine di legare al carro statunitense aree strategiche vitali nella sempre più difficile competizione geopolitica con gli antagonisti dell’unipolarismo americano: Russia e Cina.

Cosa ha spinto Trump, finora, ad assumere posizioni così singolari? In parte, questa postura risponde alla promessa di far rinascere uno stato del benessere che ha caratterizzato il sogno americano, sogno ormai sepolto grazie all’impatto sociale del neoliberismo. E’ questo il significato più profondo dello slogan agitato durante la corsa per la Casa Bianca: “first america great again”. Far tornare grande l’America, significava per lui, ricostruire le basi dello standard di vita statunitense, ormai museo dei ricordi e tornare ad alimentare il mito del self made man di cui lui stesso rappresenta incarnazione evidente. Su questa base ha costruito il suo successo contro chi sosteneva lo status quo di strategie politiche che parte dell’establishment stretto attorno alla Clinton riteneva indiscutibili, al fine di garantire l’egemonia statunitense. Questo non significa che a Washington siano stati abbandonati i sogni di gloria, ma significa che il paese è al suo interno spaccato e che nelle stanze del potere il dibattito sulla strada da intraprendere è serrato.

Forse la strategia di Trump inverte quella precedente: non tenta più di strappare la Cina dalla Russia, come ipotizzato dalla diplomazia del ping-pong di Kissinger in poi, ma di strappare la Russia dalla Cina. Una trappola nella quale la Russia non intende cadere, come ha sottolineato in un discorso alla Duma il ministro degli Esteri russo Lavrov [2].

Se in alcune cerchie si parla (propriamente o meno è un’altra questione) di de-globalizzazione, in discussione ci sono le relazioni troppo stringenti e vincolanti che sono state strette nei decenni scorsi tra Usa e Cina, che hanno dato un loro contributo nel promuovere lo spostamento dell’asse economico del mondo dall’Atlantico all’Asia orientale e nel mirino c’è la Cina. Cina che appare oggi paradossalmente come alfiere delle politiche di interdipendenza. Per capirne i motivi bisogna risalire però alle radici della scelta di Deng Xiaoping di attuare la politica di riforme e apertura che sono state alla base del miracolo cinese.

domenica 26 marzo 2017

Vita quotidiana all'Avana*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.lacittafutura.it/     

Vedi anche: Il blocco contro Cuba: il genocidio più lungo della Storia  https://www.youtube.com/watch?v=vItDZLwt6Hg 

Cosa ci dice la vita quotidiana a Cuba.

Vita quotidiana all'Avana

Uscendo la mattina ancora fresca da un edificio popolare e periferico ti accoglie la tiepida umidità non incontaminata dell'Avana. I vicini si avvicinano e ti salutano, chiedendoti informazioni sulla tua vita e suoi tuoi famigliari. È difficile liberarsi in pochi minuti tanto i rapporti sono stretti e continui. Trascinando il suo carrettino, qualche venditore ambulante grida offrendo ai passanti pane, frutta e verdura. È anche possibile veder passare un carretto, caricato di materiale vario, tirato da un cavallino docile e mansueto. Le piante lussureggianti che ombreggiano qualche viale danno un senso di vitalità istintuale che può rianimare qualche turista del vecchio mondo. Ora comincia la grande fatica, cui non si sottraggono neppure gli uomini (anzi questa sembra essere una grande conquista delle donne cubane): fare la spesa per sopperire alle necessità quotidiane. Se ti sei fatto la lista delle cose da comprare devi fare parecchi giri, perché non tutto si trova nel medesimo luogo. Ci sono i grandi magazzini dello Stato, che in molti casi hanno più l'aspetto di depositi che di supermercati, e le tiendas particulares. È possibile pagare sia in convertibles (CUC, grosso modo l'equivalente di un euro) o in pesos, tenendo presente che un CUC vale 24 pesos. Per esempio, se si compra una piccola bottiglia di olio di oliva, che non fa certo parte degli alimenti consumati dai cubani, in CUC costa 6,40 in pesos 160.

Vi sono alimenti che per le difficoltà di produzione e di approvvigionamento sono introvabili, altri è possibile trovarli dopo aver fatto alcuni giri e seguendo i consigli dei passanti che ti indicano i possibili luoghi riforniti di quello che cerchi. Senza voler risalire troppo indietro nel tempo, appare evidente che nessun settore dell'economia cubana sia stato colpito come quello agricolo, dopo la dissoluzione del blocco socialista. In particolare la produzione dello zucchero e dei suoi derivati: se alla fine degli anni ‘80 del ventesimo secolo a Cuba si lavoravano circa 8 milioni tonnellate metriche di canna da zucchero, a partire dal 2010 si supera appena un milione di tonnellate. Quasi tre quarti delle industrie di lavorazione della canna sono state chiuse e le terre prima destinate a tale coltivazione sono state abbandonate. Dal 2007 si è cominciato a ridistribuire queste terre sotto varie forme, ma solo nel primo decennio del ventunesimo secolo è cresciuta la produzione dei prodotti più cari nei mercati dei prodotti agricoli. Questa è la ragione per la quale Cuba è diventata fortemente dipendente dall'importazione di alimenti dall'estero (J. I. Domínguez, Introducción, in Desarrollo económico y social en Cuba, 2013: 11). 

sabato 25 marzo 2017

Introduzione a Per la Critica dell'Economia Politica*- Stefano Garroni

Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati.
Questo è, di primo acchito, il discorso che Marx fa. E’ vero, tuttavia, che guardando le cose più a fondo -per così dire con uno sguardo più sospettoso e scaltrito-, la faccenda si rivela più complessa.

Il fatto stesso che Marx ponga il tema del ‘punto di partenza’ (Ausgangspunkt) significa, implicitamente, richiamare Hegel, il quale aveva iniziato, ad es., la sua Scienza della logica (Wisenschaft der Logik) proprio affrontando la questione dell’Ausgangspunkt. Ed Hegel è richiamato anche nel proseguo. Infatti, quello che Marx, subito, indica come naturalmente il punto di partenza, a ben vedere, corrisponde ad una immediata considerazione, ad un diretto collegamento con l’esperienza: in altre parole, è come se Marx dicesse «basta guardar gli uomini che lavorano, per rendersi conto che lavorano in condizioni socialmente determinate».

Sennonché uno dei punti centrali del ragionamento, che Marx svolgerà in questo testo, è proprio la dimostrazione che cogliere la struttura sociale della produzione è operazione tutt’altro che naturale, perché, al contrario, assai raffinata -un’operazione, che richiederà di far ricorso a complesse procedure sia logiche che epistemologiche. Insomma, come vedremo, l’effettivo Ausgangspunkt, per Marx, richiederà un rapporto tutt’altro che immediato e naturale con l’esperienza.

Giungere all’effettivo punto di partenza, infatti, richiede superare la fase della robinsonata. Ma che cos’è quest’ultima? E’ il momento in cui l’insieme immediato -di uomo e sue condizioni di lavoro- viene rotto: il «tutto» dell’esperienza si scinde e l’individuo si separa dalle condizioni oggettive (sociali e naturali) della sua attività produttiva, ponendosele, per così dire, di fronte, come poteri estranei, dai quali egli è tanto indipendente, quanto essi stessi sono indipendenti da lui. In termini hegeliani, questo è il momento dell’intelletto (Verstand) che, giusta la lezione di Hegel, introduce, appunto, la scissione nella totalità immediata. Solo superando questo momento, sarà possibile -lo vedremo- conquistare l’effettivo punto di partenza.
La conclusione è chiara: il semplice discorso che Marx fa di primo acchito, in realtà, è un richiamo assai preciso ad un fondamentale ritmo del ragionamento hegeliano. Fin da subito, dunque, comprendiamo che sarà possibile intendere effettivamente queste pagine di Marx, solo a condizione di evidenziarne il legame con la riflessione di Hegel.

venerdì 24 marzo 2017

Tesi su Feuerbach* - Karl Marx

*Questo testo tanto breve quanto denso fu scritto da Marx nel marzo del 1845. Rimase tuttavia a lungo inedito finchè non fu pubblicato nella Neue Zeit (1886) da Engels che lo riprodusse in appendice al suo Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca (1888). Si è usata qui la traduzione italiana di Palmiro Togliatti, in appendice al vol. Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80.  https://www.marxists.org/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/05/ancora-sulla-dialettica-tesi-su.html
Ascolta anche:     https://www.youtube.com/watch?v=b8MG0OUn4Vo

I

Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l'oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E' accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora l'attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell'Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l'importanza dell'attività "rivoluzionaria", dell'attività pratico-critica.

II

La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. E' nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.

mercoledì 22 marzo 2017

Internazionalismo e questione nazionale nel pensiero di Gramsci*- Salvatore Tinè


Quello del rapporto tra internazionalismo e questione nazionale è uno dei temi fondamentali del pensiero gramsciano in tutto l’arco della sua evoluzione. Già in alcuni articoli del 1918, il giovane Gramsci sottolineava la permanente vocazione cosmopolitica del sistema di produzione capitalistica. Una vocazione  che gli appariva particolarmente evidente nei settori più avanzati del capitalismo mondiale, ovvero nei grandi gruppi industriali e finanziari inglesi e americani. Sono questi gruppi infatti a sostenere, secondo Gramsci, il disegno wilsoniano di un nuovo ordine mondiale fondato insieme sul principio della libertà e dell’indipendenza dei popoli  e delle nazioni e su quello della libertà degli scambi internazionali. Libero da ogni residuo di particolarismo feudale così come dalle varie forme di statalismo e di protezionismo burocratico e corporativo, caratteristiche dei grandi paesi dell’Europa continentale, il modello capitalistico anglosassone si presenta come l’espressione più matura della logica internazionalistica e liberoscambista propria della moderna economia borghese. Scrive Gramsci in un articolo intitolato La Lega della Nazioni, pubblicato su Il Grido del popolo, il 19 gennaio 1918.

L’economia borghese ha così suscitato le grandi nazioni moderne. Nei paesi anglosassoni è andata oltre: all’interno la pratica liberale ha creato meravigliose individualità, energie sicure, agguerrite alla lotta e alla concorrenza, ha discentrati gli Stati, li ha sburocratizzati: la produzione, non insidiata continuamente da forze non economiche, si è sviluppata con un respiro d’ampiezza mondiale, ha rovesciato sui mercati mondiali cumuli di merce e di ricchezza. Continua ad operare; si sente soffocata dalla sopravvivenza del protezionismo in molti dei mercati europei e del mondo.[1] 

lunedì 20 marzo 2017

La barbarie dello «specialismo»*- José Ortega y Gasset



La tesi era che la civiltà del secolo XIX ha prodotto automaticamente l’uomo‐ massa. Conviene di non chiudere la sua esposizione generale senza analizzare, in un caso particolare, il meccanismo di questa produzione. In tal modo, nel concretarsi, la tesi guadagna in forza persuasiva. 

Questa civiltà del secolo XIX, dicevamo, può riassumersi in due grandi dimensioni: democrazia liberale e tecnica. Consideriamo adesso soltanto quest’ultima. La tecnica contemporanea nasce dall’accoppiamento del capitalismo con la scienza sperimentale. Non tutta la tecnica è scientifica. 

Chi fabbricò nell’età preistorica le torce con la pietra focaia, mancava di senso scientifico non sospettarlo minimamente l’esistenza della fisica. 

Soltanto la tecnica moderna europea ha una radice scientifica, e da questa radice le deriva il suo carattere specifico, la possibilità di un progresso illimitato. Le altre tecniche ‐mesopotamiche, nilota, greca, romana, orientale‐ tendono fino a un punto di sviluppo che non possono sorpassare, e, appena lo raggiungono, cominciano a retrocedere in una misera involuzione. 

Questa prodigiosa tecnica occidentale ha reso possibile la meravigliosa prolificità della casta europea. Si ricordi il dato statistico da cui è partito questo saggio e che, come facemmo notare, racchiude in germe tutte queste meditazioni. Dal secolo V al 1800, l’Europa non giunge a ottenere una popolazione maggiore di 180 milioni. Dal 1800 al 1914 ascende a più di 460 milioni. Il salto è unico nella storia dell’umanità. Non si può dubitare che la tecnica ‐insieme alla democrazia liberale‐ ha generato l’uomo‐massa nel senso quantitativo di questa espressione. Però queste pagine hanno cercato di mostrare che è anche responsabile dell’esistenza dell’uomo‐massa nel senso qualitativo e peggiorativo del termine. 

Per «massa»  ‐ed è un’avvertenza che facemmo fin dal principio‐ non si intenda specialmente l’operaio; non designa qui una classe sociale, ma un tipo o un modo d’essere dell’uomo che si ritrova oggi in tutte le classi sociali, che per ciò stesso rappresenta il nostro tempo, su cui esso prevale e domina. 

Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’epoca? Senza dubbio, la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio, il tecnico: ingegnere, medico, finanziere, professore ecc., ecc. Chi, dentro a questo ambiente tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente, l’uomo di scienza. Se un personaggio «astrale» visitasse l’Europa e, con animo di giudicarla, le domandasse attraverso a quale tipo d’uomo, fra quelli che l’abitano, preferisse di essere giudicata, non c’è, dubbio che l’Europa indicherebbe, compiaciuta e sicura di una sentenza favorevole, i suoi uomini di scienza. E, naturalmente, il personaggio «astrale» non domanderebbe di portare il giudizio su individui d’eccezione, ma cercherebbe la norma, il tipo generico dell’uomo di scienza, vertice dell’umanità europea. 

Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo‐massa,. E non a caso, né per difetto personale di ciascun uomo di scienza, ma perché la scienza stessa  ‐radice della civiltà- lo tramuta automaticamente nell’uomo‐massa: cioè, fa di lui un primitivo, un barbaro moderno. 

domenica 19 marzo 2017

Sul CAPITALE: Storia e Logica*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 11/03/99: Sul Capitale - Storia e Logica https://www.facebook.com/groups/
Qui l'audio dell'incontro:   https://www.youtube.com/playlist?list=PL88CA5CCDE4BD1EAC


[...] La prova induttiva, in definitiva, è questa: il mondo, il mondano, cioè la dimensione dell’esistente, è la dimensione del finito, del particolare; di ciò che per esistere ha bisogno di altro. E’ il mondo degli effetti che hanno bisogno delle cause, ma a loro volta le cause sono effetti di altre cause, quindi ogni esistente rinvia ad altro per giustificare la propria esistenza. In questo continuo rinvio del contingente a una causa che lo spiega, la quale causa a sua volta diventa però un contingente che è effetto di un’altra causa ecc., ; in questo continuo rinvio non si raggiunge mai una stabilità, non si raggiunge mai una ragione dell’esistenza di questo contingente: donde la necessità di postulare una ragione fuori del mondo del contingente, che sia la ragione di tutto il mondo contingente.

[...] E’ molto importante il fatto che quando Hegel affronta questo tipo di prova dell’esistenza di dio, mette in evidenza che accettando queste prove, e quindi accettando quel ragionamento per cui il contingente trova nel necessario la propria causa, si dimostra anche il contrario, e cioè che è proprio il contingente che pone il necessario. Cioè che così come è vero che il particolare, il finito, il contingente, ha bisogno del necessario per esistere, il necessario intanto esiste in quanto è necessario del contingente.

E’ del tutto chiaro che se esiste una legge che vieti qualcosa, esisterà la violazione di quella legge: in quanto la gente ruba c’è una legge che dice “Non rubare”, e quindi la legge del non rubare, intanto può esistere in quanto esiste il contrario del non rubare, cioè il fatto del rubare. Questa legge, intanto può esistere in quanto esiste il contrario di se stessa, cioè la sua violazione, e quindi il mondo della legge, della regola, del diritto, implica l’esistenza del mondo del delitto.

[...] No, no, no, noi diamo per scontato che sia vero. Ma capisci che cosa mostruosa è dire che un evento storico, è quello che è per ragioni logiche? E’ cosa mostruosa perché tu hai fatto della logica, delle leggi logiche, la legge della storia. Il che è la follia più totale. Basta assistere a una seduta del nostro parlamento per vedere che la politica con la logica non ha nulla a che vedere. Spiegare la storia, la politica, l’economia, con le leggi logiche, è il massimo dell’aberrazione nel senso che tu inventi un mondo di sogni. Sembrerebbe allora che nella storia il miglior politico sia il miglior logico matematico, perché è quello che sa fare meglio i conti logici, ed è quindi il miglior politico, e invece non è vero nulla.

E' interessante che Marx molte volte, quando deve spiegare il suo discorso, ricorre proprio a quello schemino che dicevo. Per esempio c’è uno scritto sulla forma di valore, che è tutto costruito in questa maniera: tanto di X è uguale a tanto di Y, perché valgono tutti 10 lire.

sabato 18 marzo 2017

La produzione capitalistica di fabbrica fondata sulle macchine*- Aleksandr A. Kusin

*da Aleksandr A. Kusin, Marx e la tecnica, Gabriele Mazzotta Editore, Milano, 1975   www.resistenze.org  
Leggi anche:   https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2016/06/30/limperialismo-nel-xxi-secolo/ 


"La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro l'operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro. E' fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l'operaio ad adoprare la condizione del lavoro ma viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l'operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica il mezzo di lavoro si contrappone all'operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e succhia la forza-lavoro vivente." (K. Marx, Il Capitale

"Finché il capitale è debole, esso stesso ricerca  ancora le grucce di modi di produzione tramontati… Ma non appena si sente forte, esso getta via le grucce e si muove in accordo con le sue proprie leggi. Non appena comincia a percepirsi come ostacolo allo sviluppo e a essere vissuto come tale, esso cerca rifugio in forme che, mentre sembrano perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano al tempo stesso la dissoluzione sua e del modo di produzione su esso fondato."  (Karl Marx, Grundrisse)

“il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo  cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale” (Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo) 


1. La necessità tecnica del passaggio dalla manifattura alla produzione meccanizzata di fabbrica

venerdì 17 marzo 2017

Marxismo e femminismo*- Simona De Simoni**

*La conferenza si è tenuta nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.
**   http://operaviva.info/schede/simona-de-simoni/
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-giornata-internazionale-delle-donne.html#more

Una panoramica storica:


Dalla seconda metà del novecento: 
https://www.youtube.com/watch?v=3KGFH4Ie6kU 

giovedì 16 marzo 2017

Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?*- Karl Marx

*Da K. Marx “Lavoro salariato e capitale”   https://ildiariodellatalpa.wordpress.com/
 Tutto il testo:   https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/lavcap.htm


Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?

Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco [22] al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro [23] o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa.

Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese [24] paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro. Il borghese [25] compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro [26]. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro [27], per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro [28], sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro [29], dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.

Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro [29], con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro [30]. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro [29], contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro [31]; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.

mercoledì 15 marzo 2017

America Latina: dal boom economico alla crisi* - Osvaldo Coggiola**

*seminario alla Biblioteca Popolare A. Gramsci del Tufello, via Monte Favino 10, Roma, 10/03/17
**Osvaldo Coggiola, prof di Storia presso la Università di San Paolo del Brasile (USP)

martedì 14 marzo 2017

Marx rivisitato (2): capitale, lavoro e sfruttamento*- Riccardo Bellofiore

*Da:   http://www.dialetticaefilosofia.it/   (pubblicato in Il terzo libro del Capitale di Marx, a cura di Marco L. Guidi, “Trimestre”, XXIX, n. 1-2, 1996, pp. 29-86)  
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/01/marx-rivisitato-capitale-lavoro-e.html 


   Lavoro astratto, scambio e produzione capitalistica

[…] Secondo Marx, le merci si scambiano perché già eguali prima del loro confrontarsi sul mercato.

Le merci hanno cioè un valore di scambio, si pongono in certi rapporti relativi tra di loro, perché sono valori assoluti, prima della metamorfosi finale con il denaro, che pure è la loro destinazione essenziale. Dietro il valore assoluto Marx rinviene, appunto, nient’altro che lavoro astratto oggettivato [18].

Il modo di esposizione all’inizio del Capitale dà l’apparenza di svolgersi secondo un processo logico che va dal valore di scambio al valore al lavoro; e, perciò, di una progressiva espunzione dalle merci di tutte le caratteristiche diverse da quella di essere meri prodotti di lavoro.

Come è stato mille volte osservato, se si ragiona secondo questa procedura, non si vede perché oltre al lavoro, elemento attivo della produzione, non dovrebbe rimanere anche la natura, elemento passivo.

Quest’ultima, d’altra parte, entra nei processi produttivi come natura trasformata: include perciò, oltre alle quantità di lavoro passato coagulato nei mezzi di produzione, anche la scienza, la tecnica e l’innovazione. Non si vede allora perché anche questi ulteriori elementi non debbano essere considerati creatori del valore. Sarebbe inoltre, in questo caso, decisiva l’obiezione di Böhm- Bawerk: oltre all’essere prodotti di lavoro, le merci possiedono tutte la caratteristica dell’utilità – esistono, semmai, merci che non sono esito di processi di lavoro.

Il fatto è che la sequenza marxiana non va letta dal valore al lavoro ma in senso inverso, dal lavoro al valore [19]. La domanda che si pone Marx è in sostanza questa: quale è la condizione del lavoro in quella situazione sociale particolare in cui la società non si costituisce nel momento in cui gli esseri umani producono, ma posteriormente, nello scambio di prodotti in quanto merci?

Qual è, dunque, la condizione del lavoro quando gli individui, nel momento della sua erogazione, sono reciprocamente indifferenti, immediatamente separati, e la loro connessione sociale è demandata al meccanismo impersonale del mercato – alle cose – invece che essere implicita già nella stessa attività?

Quando, insomma, la socialità di ciò che hanno prodotto si realizza post factum, e si incarna in un potere d’acquisto generale, indifferente a ogni determinazione specifica, il denaro?

lunedì 13 marzo 2017

«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»*- Domenico Losurdo




«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».
(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista) 


Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi

1. Democrazia e pace?

Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).

Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).

Nonostante non indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica:

«La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».

Non si doveva neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).

sabato 11 marzo 2017

La crisi dell'economia italiana all'interno della crisi dell'area euro - Marco Veronese Passarella

Seminario di Marco Veronese Passarella nell'ambito del corso di Economia Monetaria.

Un'interpretazione basata sul paradigma della riproducibilità.Una risposta critica di Riccardo Bellofiore. 

venerdì 10 marzo 2017

DEL FETICISMO*- Stefano Garroni

*Riproduzione di alcuni passaggi tratti dalla discussione del 2/04/99 sul CAP. 24° DEL TERZO LIBRO DEL CAPITALE.   https://www.facebook.com/groups/
Qui l’audio di tutto l’incontro https://www.youtube.com/playlist?list=PLF3B95A47287B917B
Qui tutta la trascrizione dell'incontro:  https://www.facebook.com/mirko.bertasi.7/posts/10212727174763040 


Stefano Garroni: [...]L’affermazione “la dottrina marxista-leninista” è totalmente folle, perché non esiste empiricamente. 

Perché esiste una ricerca che non è conclusa, e sulla base di una non-conclusione Marx ne ha pubblicata una parte. Quindi è tutto un lavoro da fare ancora. E va sempre ricordato che Marx di libri ne ha pubblicati pochissimi. Ha pubblicato Miseria della filosofia, La sacra famiglia, e il primo libro de Il capitale. Il resto sono opuscoli e materiale enorme per libri che non vengono mai scritti.

Poi ovviamente con Lenin la cosa è ancora più evidente perché essendo un uomo politico interviene sempre sul “momento”, sostanzialmente: modifica, rettifica, cambia, e quindi il senso fondamentale è quello di una elaborazione in movimento, in sviluppo.

[...]I termini vanno intesi come schemi di ragionamento, come problematiche, come impostazione dei problemi. Voglio dire: c’è un’osservazione che fece Bertrand Russell, a proposito di Hegel. Russell dice che Hegel è un pensatore il cui intento è superare le contraddizioni, togliere le contraddizioni. Generalmente quando si parla di Hegel si parla del filosofo che mette in evidenza le contraddizioni. Russell sottolinea che Hegel vuole toglierle le contraddizioni. Questa osservazione è estremamente importante e giusta, nel senso che per Hegel è chiaro che se io metto in evidenza l’esistenza di una realtà contraddittoria, allora metto in evidenza anche l’esistenza di un processo oggettivo che tende al superamento di quella contraddizione. Hegel prende posizione per questo processo obiettivo che potenzialmente toglie le contraddizioni. La contraddizione per Hegel è scandalo che va tolto.

[...]Se io mi muovo per il superamento delle contraddizioni vuol dire che io ritengo sia che le contraddizioni debbano essere tolte, sia che le contraddizioni possono essere tolte.

giovedì 9 marzo 2017

Lavoro agile o smart working: il lavoro del futuro (o del presente?)*- Benedetta Gagliardoni**

**Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Macerata
Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/02/smart-working-sfruttamento-illimitato.html   

Chi non sognerebbe di poter svolgere almeno parte del proprio carico lavorativo al di fuori del normale posto di lavoro?
Questa idea, fino a poco tempo fa un’utopia, sta prendendo piede anche nel nostro Paese, diventando una modalità di lavoro sempre più concreta.
Lavoro agile o smart working?

Il lavoro agile, detto anche “smart working”, nasce a seguito dell’avvertita esigenza di individuare strumenti in grado di rendere maggiormente flessibile la prestazione lavorativa e di aumentare, così, la produttività, riducendo i costi in capo al datore di lavoro e favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro del prestatore.
L’equiparazione linguistica tra l’espressione inglese “smart working” e la traduzione italiana “lavoro agile” ha suscitato diverse perplessità, dovute al fatto che, mentre la seconda sembra rimandare direttamente all’obiettivo di semplificare l’armonizzazione tra vita quotidiana e lavoro, evocando, così, una modalità lavorativa parzialmente indipendente, la prima, traducibile letteralmente come “lavoro intelligente” sembrerebbe volta maggiormente a sottolineare la volontà di trovarsi in una realtà lavorativa caratterizzata da tecnologia, efficienza, versatilità, creatività ed al passo con i tempi. Tuttavia, seppur le due espressioni assumano significati non propriamente coincidenti, si ritiene opportuno individuare l’essenza del lavoro agile o smart working per mezzo di un’operazione di bilanciamento tra quelle che sono le esigenze prettamente conciliative tra vita e sfera lavorativa e quello che è il mutamento del metodo di lavoro, sempre più tendente a modalità “smart” di svolgimento della prestazione lavorativa.

L’intervento del Ddl 2233: cosa si intende per lavoro agile?