mercoledì 26 febbraio 2020

Da Wittgenstein a Marx via Rossi-Landi - Roberto Fineschi

Da: http://www.ilsileno.it/filosofiesemiotiche - Roberto Fineschi è un filosofo italiano. (Marx. Dialectical Studies) -
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                            TEMI WITTGENSTEINIANI - Stefano Garroni 
                             L. WITTGENSTEIN - LA CULTURA MEDIA CONTEMPORANEA - NOTE AL RAMO D'ORO DI FRAZER - Stefano Garroni - 09-01-97


Introduzione 

Quando sono stato invitato a scrivere un contributo sul rapporto Marx-Wittgenstein sono stato un po’ esitante. In primo luogo non sono certo un esperto di Wittgenstein, anzi, sono un modesto lettore delle sue opere più importanti e non ho molto di significativo da dire in proposito. In secondo luogo, come esperto di Marx, solo tangenzialmente mi sono occupato di temi legati alla filosofia del linguaggio o alla semiotica. Ho però cominciato a leggere un po’ di letteratura ed ho trovato diversi spunti interessanti, soprattutto nel semiologo marxista italiano Ferruccio Rossi-Landi (ROSSI-LANDI 1968, 1977, 1983) e in altri interpreti (ABREU 2008; GAKIS 2015; KITCHING & PLEASANTS 2002; READ 2000; RUBINSTEIN 1981). Alla luce di questi studi ho forse inteso meglio come trattare il tema e deciso di contribuire. 

La prima parte di questo saggio è dedicata alla lettura di Wittgenstein proposta da Rossi-Landi, la seconda all’analisi di come Rossi-Landi cerchi di risolvere attraverso Marx quelle che reputa aporie di Wittgenstein, la terza, infine, a una valutazione critica della questione e al senso di un possibile rapporto Marx-Wittgenstein. 


1. Il Wittgenstein di Rossi-Landi 

La lettura di Wittgenstein da parte di Rossi-Landi è chiaramente influenzata dalla sua intenzione di sviluppare una teoria marxista della linguistica. Il suo scopo non è una ricostruzione critica del suo pensiero, ma fornire un solido fondamento al suo progetto nella stessa tradizione della filosofia del linguaggio (la stessa cosa che cerca di fare nel suo dialogo con Saussure). 

Quello di Rossi-Landi è un approccio marxista(1), in cui la componente storico-sociale è assolutamente decisiva; da questo presupposto, la sua valutazione del Tractatus non può che essere estremamente critica, in quanto lo si considera addirittura «pre-kantiano» proprio per l’assenza dell’elemento storico-sociale (ROSSI-LANDI 1968: 22). Questo Wittgenstein è sostanzialmente ignorato e considerato inadeguato non solo per un confronto con Marx, ma come contributo al pensiero occidentale moderno. Tutta cambia invece con le Ricerche, dove invece si percepisce il «flusso della vita» (ROSSI-LANDI 1968: 23). 

Sulla base della nota 583 delle Ricerche(2), Rossi-Landi può affermare che, secondo Wittgenstein, l’ambiente [Umgebung] dà rilevanza al significato. Il significato di una parola è dato dal suo uso nel linguaggio, dice Wittgenstein nella nota 43(3), e Rossi-Landi commenta che il linguaggio acquisisce significato in un contesto, vale a dire quello pubblico nel quale impariamo a parlare (ROSSI-LANDI 1968: 24). Il gioco linguistico come tale non si riferisce solo all’uso linguistico, ma include elementi extra-linguistici, una prassi sociale che implica un uso linguistico dell’azione extralinguistica. Secondo Rossi-Landi si può derivare questa conclusione dalla nota 7 delle Ricerche(4). 

Se il significato sta nell’uso di una parola, in una prassi che ha luogo in un contesto pubblico, Rossi-Landi assume, traendo queste conclusioni dalle note 199(5) e 242(6), che ci sono regole in ciò implicate. Queste regole vanno pensate come condivise, debbono corrispondere a comportamenti sociali determinati e accettati, a una prassi sociale. Questa ulteriore conclusione è implicita nelle note 200-202(7) (ROSSI-LANDI 1968: 25 s.). 

Rossi-Landi cerca di mostrare come per Wittgenstein almeno implicitamente, il linguaggio, con i suoi presupposti sociali, sia una prassi condivisa. A questo proposito, passando dal Trattato alle Ricerche, egli fa qualcosa di molto simile a quanto Marx e Feuerbach avevano fatto con Hegel: avevano individuato la chiave dell’alienazione intellettuale e filosofica (un uso distorto del linguaggio) nella prassi sociale. L’incoerenza del linguaggio filosofico è una conseguenza di una prassi determinata e ha origine in una prassi linguistica sbagliata. 

Se questi sono gli aspetti positivi nella teoria di Wittgenstein, tuttavia Rossi-Landi individua anche determinati limiti, perché Wittgenstein è capace solo di mostrare come l’alienazione filosofica sia fondata su un’azione linguistica collettiva, ma questo fondamento non è concepito come storico. Perciò Rossi-Landi può concludere che, più che sociale, questa prassi linguistica è solo pubblica, non considera veramente il processo di produzione del linguaggio; e neppure è storica: come gli individui stessi siano prodotti come soggetti non è affatto considerato; questi molti individui sono meramente presupposti. Dato è pure il significato delle parole: è usato, ma come venga prodotto non è oggetto d’indagine. La stessa cosa la si può dire per l’uso improprio del linguaggio, secondo Rossi-Landi fondamento dell’alienazione linguistica: si mostra che esso esiste e che ciò è importante, ma come esso abbia luogo non è ulteriormente analizzato (ROSSI-LANDI 1968: 55 ss.). 

Rossi-Landi sembra dunque insistere sulla struttura di quella prassi specifica che è il linguaggio come attività sociale e la mette in relazione al concetto di «uso» per dare conto di quella specifica relazione sociale che produce una prassi alienata come alienazione linguistica. Se questo è un possibile contenuto marxista nell’approccio del secondo Wittgenstein, Rossi-Landi si chiede come tali elementi marxisti abbiano fatto breccia nel suo pensiero. Il riferimento a Sraffa nella prefazione delle Ricerche è una indicazione esplicita(8), ma sfortunatamente Rossi-Landi mai sarà capace anche in seguito di andare oltre questo generico rimando(9). Un riferimento più preciso è relativo a una possibile lettura dell’Ideologia tedesca da parte di Wittgenstein, un’opera pubblicata per la prima volta proprio negli anni trenta nella prima Marx-Engels-Gesamtausgabe (MARX & ENGELS 1932). Rossi-Landi sostiene addirittura che alcuni passaggi wittgensteiniani sarebbero una parafrasi da quel testo; sfortunatamente mai avrà modo di mostrare a quali si riferisse. 

Si potrebbe del resto aggiungere che lo status attuale dell’opera pubblicata con il titolo Ideologia tedesca è sostanzialmente cambiato. La citata edizione nella prima Marx-Engels-Gesamtausgabe era un collage arbitrario realizzato dall’editore Adoratsky che usò in modo non filologico i vari manoscritti lasciati da Marx ed Engels. Non è qui ovviamente possibile approfondire la questione, pare però si possa sostenere che l’opera sia stata sovrastimata come presunto luogo di fondazione del materialismo storico (si veda Fineschi 2020). Dunque, se pure Wittgenstein l’avesse letta, è difficile dire che tipo di influenza marxiana essa avrebbe potuto avere. A prescindere da questo aspetto, tuttavia, è interessante valutare il tentativo di Rossi-Landi, sulla base della sua personale lettura di Wittgenstein, di sviluppare una teoria marxista del linguaggio, capace di dare risposta alle questioni sollevate, ma non affrontate da Wittgenstein(10). Ciò consentirebbe di rifondare la linguistica su base storica e sociale. 

2. Marx e la teoria del linguaggio secondo Rossi-Landi 

Una valutazione del tentativo di Rossi-Landi di elaborare una teoria della produzione linguistica su basi materialistiche si scontra oggi con alcune difficoltà oggettive che vanno al di là della sua ricerca. La principale è la sua fondazione nel pensiero di Karl Marx. Questo autore, fino all’altro ieri considerato fra i più importanti, se non addirittura il più importante, nella storia del pensiero occidentale, è oggi caduto in un tale discredito che a stento lo si riesce a studiare in ambito accademico. Scomparso dagli insegnamenti, scomparso dai campi di ricerca, dissoltosi insieme al cosiddetto Socialismo reale. Un così severo giudizio è lo specchio dell’altrettanto, spesso, acritico entusiasmo di un tempo. Fortunatamente non tutto è andato perduto, anzi, paradossalmente questa deideologizzazione di fatto ha permesso uno studio più disinteressato ed obiettivo della sua teoria da parte di coloro che hanno deciso di interessarsene(11). 

Al di là di un contesto più libero intellettualmente, tuttavia, la grande novità che rivoluziona gli studi marxiani è rappresentata dalla nuova edizione storico-critica delle sue opere e di quelle di Engels, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe. Essa sta rivoluzionando non tanto, o non solo, le interpretazioni, ma la stessa base testuale sulla quale esse possono svilupparsi. Altrove è stato mostrato con dovizia di dettagli che tipo di novità essa comporta, si ricordi qui semplicemente che opere fondamentali come Il capitale, l’Ideologia tedesca, I manoscritti economico-filosofici, solo per citare gli esempi più eclatanti, non esistono nella forma storica in cui sono stati conosciuti(12). 

Le novità che la riconsiderazione di questo vasto materiale inedito comporta impongono anche una riconsiderazione dei presupposti sui quali Rossi-Landi fondò a suo tempo la sua teoria della produzione linguistica, del linguaggio come lavoro e come mercato. Prenderò quindi le mosse da alcune considerazioni sulla teoria della storia di Marx per poi vedere che tipo di implicazioni esse abbiano su Rossi-Landi. Ciò accadrà entro limiti ristretti. Non è mia intenzioni infatti analizzare la più ampia e stratificata concezione del linguaggio e dell’ideologia da essa derivata. Entro i confini di un’analisi parziale del contributo di Rossi-Landi, mi interessa individuare in che misura si possa definire marxiana la sua fondazione ed in che termini la si possa riprendere e continuare oggi. Quanto segue non ha pretese di completezza od esaustività; lo si consideri un contributo alla discussione; gli esperti di Rossi-Landi più e meglio di me sapranno valutare il valore delle mie considerazioni. 

2.1. Dialettica di continuità e discontinuità storica in Marx 

Che cosa significa in Marx lavoro? Questa è la complessa domanda da cui bisogna partire per cercare di operare un confronto plausibile. Essa corre parallela a quesiti in Marx fondamentali, come quelli sul funzionamento del modo di produzione capitalistico, della teoria della merce, del lavoro in generale. Il problema è quello della continuità/discontinuità storica legata alla teoria del lavorare e del produrre. 

Marx ha cercato di elaborare una teoria del processo storico che parlasse della storia degli uomini, per cui si potesse dire che tutto quello che è successo possa essere riferito in qualche modo agli esseri umani che lavorano insieme, ma al tempo stesso come questa non fosse una storia indefinita di uomini, ma si articolasse in periodi con dei punti di rottura, di discontinuità, per cui esse fossero diverse fasi di una stessa cosa. 

Secondo Marx lo snodo per articolare questo discorso è il processo lavorativo (MARX 2011: cap. 5). Esso è quell'elemento che permette di tenere insieme, in primo luogo, la continuità e la discontinuità con la natura (13). Questo è ancora un altro punto: gli esseri umani non agiscono nel vuoto ed essi stessi sono un prodotto dell'evoluzione naturale; ad un dato momento si differenziano dalle altre specie animali in quanto riescono a lavorare, ad instaurare un processo che si articola attraverso la loro attività, attraverso la loro azione finalizzata a scopo su un oggetto di lavoro, attraverso dei mezzi di lavoro, con un risultato, il prodotto, che può essere altro da loro stessi(14). Riescono a dare una oggettualità esterna allo stesso individuo che agisce. Alcuni animali sono capaci di farlo, ma comunque è l'uomo che ne fa la sua attività principale. Questo primo elemento determina una continuità e una discontinuità con il processo naturale in generale, perché l'uomo, elemento naturale, agisce su altri elementi naturali, per creare un mondo tipicamente umano, quindi naturale-umano. 

Su questa prima continuità/discontinuità fra uomo (a sua volta natura) e natura insiste l'altra, cui accennavo prima, fra storia umana in generale e fasi specifiche di essa in particolare: gli uomini, che sono tali in quanto producono, non produrranno sempre nello stesso modo; ciò che li accomuna è che sempre produrranno, sempre produrranno in forme associate, però non lo faranno sempre nella stessa maniera. Le diverse modalità, attraverso le quali gli elementi del processo lavorativo, che prima ricordavo, vanno ad unirsi (questa unione permette l'effettiva realizzazione del processo lavorativo) caratterizzano le diverse fasi storiche della produzione(15). 

Il punto chiave è questo: sono tutte diverse epoche del produrre; esse inizialmente si differenziano per le modalità attraverso cui questi elementi, che compongono il processo lavorativo, si uniscono e permettono l'effettiva estrinsecazione dell'attività. Quello che è tipico del modo di produzione capitalistico è che sia il capitalista che il lavoratore sono individui liberi, nel senso che il codice riconosce a ciascuno il diritto di vendere o non vendere, comprare o non comprare. Questa poi si rivelerà essere una parvenza, ma formalmente il codice riconosce ciò come atto volontario e sono liberi di farlo e stanno gli uni di fronte all'altro come uguali. I principi fondamentali dei codici borghesi sono dunque, in qualche modo, il riflesso di questo stato di cose(16). Ciò non basta ovviamente: per essere produzione capitalistica, essa deve anche implicare produzione di valore e, soprattutto, l’estrazione di plusvalore(17); si assiste inoltre alla trasformazione del modo di produrre verso forme «tipicamente» capitalistiche (vedi la produzione del plusvalore relativo e le forme della sussunzione del lavoro sotto il capitale) (MARX 2011: capp. 10 ss.). 

Questa distinzione fra lavoro in generale e modalità specifiche in cui esso si realizza implica che il concetto di «prodotto» stesso vada articolandosi: abbiamo un prodotto in generale, risultato del lavoro in generale, e la merce come forma storicamente determinate in cui esso si manifesta nel modo di produzione capitalistico. La merce è unità di contenuto materiale - l’effetto utile - e forma sociale - essere portatrice di valore(18). Solo come questo doppio in sé stessa essa è merce, prodotto creato specificamente per lo scambio. Del prodotto dello schiavo, il padrone antico non si appropria attraverso lo scambio e quindi esso non è merce. Il risultato della corvée medievale va al signore senza intermediazione mercantile. La spartizione mezzadrile allo stesso modo non conosce le gioie del mercato. Al prodotto del lavoro, in sostanza, tocca in sorte la stessa natura multipla legata all’analisi dei livelli di astrazione: essere al tempo stesso un prodotto, cosa che la accomuna a tutte le forme del produrre, ed essere una forma storicamente determinata di quel prodotto: merce. Solo col modo di produzione capitalistico il prodotto assume la forma generalizzata, universale, di merce, che va a incasellare sotto la forma merce la stessa capacità di lavorare che estrinsecandosi crea prodotti: la forza-lavoro e la sua estrinsecazione, il lavoro stesso. 

Il processo lavorativo ed il prodotto sono dunque la forma «denudata» dei processi storici effettivi, un contenuto materiale che come tale non esiste mai, ma che sempre si dà «incarnato» in forme storico-sociali specifiche. Il «contenuto materiale» si dà in «forma sociale». La continuità/discontinuità storica è dunque incardinata nella dialettica di universale e particolare e dei loro distinti-imbricati livelli di astrazione. 

2.2. Il linguaggio come lavoro e come mercato di Rossi-Landi 

Alla luce di quanto ricostruito, la ricerca di Rossi-Landi si presenta immediatamente come ricca di grandi potenzialità nell’analisi del lavoro linguistico(19). Al tempo stesso però emerge parallelamente una criticità legata all’individuazione dei livelli di astrazione ai quali l’analisi si svolge. Il titolo stesso della sua opera forse più importante rappresenta icasticamente questa tensione che corre attraverso tutta la sua opera. 

Rossi-Landi configura la sua teoria del lavoro umano linguistico partendo dall’assunto che esso è, sin dall’inizio, sociale, che esso produce parole: 

Le parole, come unità della lingua, sono prodotti del lavoro linguistico; di tali prodotti ci si serve come di materiali e strumenti nel corso di ulteriore lavoro linguistico, con cui si producono messaggi (ROSSI-LANDI 1968: 61). 

Poiché non si può considerare sociale il prodotto ed individuale il lavoro, egli critica la teoria di Sassure e la distinzione da questi introdotta fra «langue» e «parole», di cui qui non ci si occuperà(20). Quello che importa è l’introduzione del concetto fondamentale di «parlare comune» come via di uscita nella dicotomia socialità della lingua e produzione individuale: 

Il parlare comune è invece quell’insieme di tecniche sociali, cui l’individuo non può non ricorrere se vuol parlare e comunicare, e sulle quali poggiano tutti gli sviluppi linguistici specializzati» (ROSSI-LANDI 1968: 70). «Nel parlare comune si esprime il fatto che il linguaggio, soddisfacendo a bisogni sociali, è uno strumento non già dell’individuo bensì della società» (ROSSI-LANDI 1968: 71). 

A questo punto Rossi-Landi continua ad insistere sul carattere di prodotto del lavoro di questa complessa struttura sociale che è il parlare comune: 

Una lingua è un insieme istituzionalizzato di prodotti di precedente lavoro linguistico … Con le sue parti costitutive, cioè con le parole, le loro combinazioni e le regole per usare e combinare sia le parole sia le combinazioni, la lingua ci fornisce materiali e strumenti, nel senso tecnico di prodotti di lavoro sui e coi quali rispettivamente si lavora. Con questi materiali e strumenti noi costruiamo messaggi che ci servono per esprimerci e comunicare» (ROSSI-LANDI 1968: 78). 

Per sintetizzare, Rossi-Landi opera un efficace parallelo fra la teoria della produzione materiale, con tutto il suo portato e la sua strutturazione sociale, e la lingua, nell’analisi della quale non si possono non vedere le analogie strutturali. Il livello di astrazione a cui ci collochiamo è evidentemente quello universale-generale, transtorico. Le caratteristiche indicate rappresentano una sorta di taglio trasversale nelle struttura diacroniche per individuare le astratte caratteristiche universali del linguaggio. Esse saranno presenti, incarnate in forme specifiche, in tutte le forme del parlare e di esse rappresenteranno l’astratto corpus comune. Tale astrazione, ovviamente, non esiste di per sé, ma solo per estrapolazione dalle pratiche storicamente e diacronicamente determinate. L’estrapolazione consente tuttavia di fissare delle caratteristiche cosiddette universali, spina dorsale della continuità storica. Esattamente allo stesso modo in cui Marx estrapola la nozione di lavoro in generale (da non confondersi con quella di lavoro in astratto) da quella di processo di valorizzazione (si cfr. i passi del quinto capitolo del Capitale prima citati). 

Solide appaiono tali premesse per una teoria materialistica del linguaggio e credo che il parallelo delineato funzioni efficacemente. A questo punto della ricostruzione di Rossi-Landi, tuttavia, per la prima volta emerge un elemento di difficoltà che, a mio parere, si ripresenterà in varie fasi della sua teorizzazione e che riguarda esattamente la questione dei livelli di astrazione. Infatti, egli adesso introduce un ulteriore elemento di confronto con Marx paragonando il linguaggio al «denaro» e, successivamente, al «capitale costante»: 

La lingua, in quanto mezzo di scambio universale per qualsiasi comunicazione, presenta anche lo spesso notato aspetto del denaro, con cui si comprano e vendono tutte le altre merci. Come materiale, strumento e denaro, la lingua costituisce a pieno titolo il capitale costante di ogni ulteriore lavorazione linguistica, cioè di ogni espressione e comunicazione; ed è solo come capitale costante … che può essere intesa (ROSSI-LANDI 1968: 80). 

Si aggiunge a questo punto il riferimento al «capitale variabile» come parte vitalizzante dell’altrimenti morta componente costante: 

Il capitale linguistico costante è cosa morta se ad esso non si aggiunge un capitale variabile costituito dalla forza lavorativa linguistica erogata dagli uomini che parlano e intendono quella lingua, che in essa si esprimono e comunicano … Capitale costante e variabile riuniti costituiscono il capitale linguistico complessivo o totale per mezzo del quale avviene la comunicazione. La comunicazione è produzione e circolazione di messaggi nell’ambito di una comunità linguistica (ROSSI-LANDI 1968: 81 s.). 

La serie dei paragoni e degli accostamenti con elementi della teoria del capitale ritorna con un esplicito riferimento alla dimensione dello scambio linguistico come di immenso mercato: 

Una comunità linguistica si presenta come una specie di immenso mercato, nel quale parole, espressioni e messaggi circolano come merci (ROSSI-LANDI 1968: 83). 

Proseguendo nel gioco di parallelismi e rimandi alla teoria della merce e del capitale, Rossi-Landi si chiede quali siano le regole che regolano questa circolazione. La risposta è i valori in base ai quali vengono consumati e scambiati. 

Inizia a questo punto tutta una parte in cui le parole prima e l’enunciato poi in maniera più appropriata vengono intesi come unità di valore d’uso e valore. Rossi-Landi, per successive approssimazioni, cerca di caratterizzare in maniera sempre più precisa come le due categorie si differenzino e come esse possano costituirsi per analogia con la dialettica della forma di valore, trovando però serie difficoltà nel dare una definizione del valore di scambio. Cerca di fondarlo nella dimensione sociale intrinseca della parola, differenziandola dal lavoro necessario alla produzione del valore d’uso. Quel lavoro scompare nel prodotto, per usare la parola non ho bisogno di sapere come storicamente la si è prodotta. 

Una volta accettata la concezione del linguaggio come lavoro, la prima ipotesi di ricerca che si presenta è che anche le parole e le espressioni vengano adoperate, e i messaggi vengano trasmessi e ricevuti, non solo secondo il lavoro valore d’uso, ma anche e principalmente secondo il loro valore di scambio. In prima approssimazione, il loro valore di scambio andrà cercato nei rapporti reciproci i cui esse entrano dentro alla lingua di cui fan parte; nel caso dei messaggi, esso andrà cercato nel loro venir trasmessi e ricevuti nell’ambito d’una comunità linguistica, cioè nel loro circolare in un mercato linguistico che essi stessi costituiscono (ROSSI-LANDI 1968: 85). 

La difficoltà di trovare un significato preciso per il valore (a questo punto distinto anche dal valore di scambio) emergono anche nel seguente passaggio: 

In quanto distinto dal valore d’uso, il «valore» di una parola può essere inteso come sua posizione dentro alla lingua, così come il «valore» di una merce è la sua posizione dentro al mercato… La merce non è solo un oggetto fisicamente considerato; è un oggetto in potenziale rapporto con l’uomo perché dotato di proprietà atte a soddisfare un bisogno; in modo non dissimile, la parola come unità di significante e significato reca la proprietà di poter essere usata per comunicare, e in questo sta il suo valore d’uso. La posizione viene posta in luce dal valore di scambio che la parola assume entrando in rapporto con altre parole (ROSSI-LANDI 1968: 93)(21). 

Tutte queste difficoltà e definizioni approssimative e mai precise derivano, fondamentalmente, dall’impossibilità di distinguere tra prodotto e merce e nel comprendere che il linguaggio si colloca al livello del prodotto (e quindi del lavoro in generale) e non della merce (e quindi della dialettica lavoro astratto/lavoro concreto). Si introduce l’idea di merce come messaggio e questo la distinguerebbe dal prodotto; ma perché il prodotto non sarebbe messaggio esso stesso, perché collegato esclusivamente al valore d’uso? Ma in realtà, in tutte le forme di società in cui il prodotto può essere consumato da qualcuno che non sia il suo produttore immediato esso è potenzialmente sociale e comunicabile; il prodotto del resto è un messaggio anche nel consumo diretto della famiglia contadina autosufficiente, in quanto una divisione interna del lavoro sussiste anche là. Il prodotto, quindi, è sociale, anche senza che necessariamente assuma la forma di merce. La socialità del prodotto non coincide in sostanza con la forma merce e, quindi, dato questo contesto non solo la merce sarebbe messaggio. La forma di merce costituisce la socialità del prodotto nella sua specifica forma capitalistica, non coincide con la socialità di esso tour court

Per esplicitare quanto finora svolto, mi pare si possa sostenere che il problema fondamentale consista nel mettere in rapporto una struttura metastorica come il linguaggio con una struttura specifica del modo di produzione capitalistico, la forma di valore. La dinamica di uso e scambio della merce non è la stessa del linguaggio, perché quest’ultimo sussiste in tale dinamica al di fuori dei limiti logici e concettuali del modo di produzione capitalistico, mentre la forma di valore presenta quella dinamica e quelle caratteristiche solo entro i limiti ristretti del modo di produzione capitalistico. Così un enunciato, per esempio, non viene né venduto né comprato; il suo passaggio da una persona all’altra non è necessariamente di natura mercantile. Non è una proprietà privata. Comunicazione c’è stata infatti anche prima delle merci e prima del modo di produzione capitalistico. Se quindi può essere vero in un certo senso che la merce sia un messaggio, non è altrettanto vero che ogni enunciato o messaggio possa essere inteso come merce. Si tratta insomma di quella che una volta si sarebbe chiamata una ipostatizzazione, vale a dire l’utilizzo di categorie specifiche di un modo di produzione per il prodotto in generale. 

Lo stesso discorso va ad applicarsi al tema del lavoro rapportato/confrontato col lavoro linguistico. Il lavoro in generale non produce valore, mentre il lavoro linguistico in generale produce valore linguistico, se con esso si intende il peso di un certo termine dell’interscambio comunicativo. Si tratta della stessa sovrapposizione di prima in termini leggermente diversi. La lingua accumulata, l’esistenza di una strumentazione linguistica non significa che essa sia capitale, allo stesso modo in cui i mezzi di produzione tout court non sono capitale. Essi diventano capitale solo in un modo di produzione specifico. Per «animare» il lavoro morto è vero che ci vuole per Marx il «lavoro vivo»; ma che quest’ultimo, o meglio il suo portatore, appaia sotto forma di capitale variabile rappresenta una delle forme storicamente determinate assunta dalle forze produttive, quella capitalistica. Utilizzare quindi queste categorie, che funzionano solo per il modo di produzione capitalistico, in generale per il linguaggio, che esiste anche al di fuori di esso, si presta di nuovo alla critica di ipostatizzazione. 

La questione di fondo è quella dei livelli di astrazione. A quale si colloca l’analisi del linguaggio? In quale livello dell’analisi marxiana andrebbe a collocarsi il lavoro linguistico? Temo non al livello della forma di valore o del capitale costante/variabile, come invece pare suggerire Rossi-Landi(22). 

2.3. Conseguenze 

2.3.1. «Economia» 

Questa forzatura, a mio parere, ha ricadute su altri aspetti del discorso di Rossi-Landi. Per continuare a fondare la sua teoria del lavoro umano linguistico sopra il concetto di valore e, addirittura, capitale, egli si vede infatti sempre più spinto a concepire la «economia» e la socializzazione del prodotto come «sfera della circolazione», mentre produzione e consumo starebbero fuori dal terreno specifico dell’analisi teorica marxiana(23). Quindi si sostiene l’equivalenza di economia e scambio, economia come studio dei messaggi-merci. 

L’economia in senso proprio è studio di quel settore del segnico non-verbale, che consiste nella circolazione di un particolar tipo di messaggi solitamente chiamati «merci». Più in breve, e con una formula: l’economia è studio dei messaggi-merci. Questa è la sua pertinenza. Al di fuori dei messaggi-merci ci sono la produzione e il consumo dei corpi non-segnici delle merci» (ROSSI-LANDI 1968: 116). 

Se ci si occupasse anche di produzione e consumo, sostiene ulteriormente, si andrebbe in un ambito più vasto di quello economico. Allora anche lo studio della comunicazione, occupandosi di produzione e consumo linguistico oltre lo scambio, si estende oltre lo spazio dell’economico. 

Qui la distanza da Marx è notevole, tanto per iniziare per i limiti posti all’ambito di quella che si chiama analisi economica: che Marx escluda produzione e consumo pare onestamente in aperta contraddizione con i concetti base della sua impostazione. Tutto ciò però avviene per il peccato originale succitato, vale a dire l’idea che una teoria del linguaggio debba essere pensata in prima misura al livello della merce e della forma di valore, mentre essa è più astratta e va fondata al livello del processo lavorativo in generale e del prodotto, che già implica socialità verticale ed orizzontale. Che essa possa poi approfondirsi ulteriormente per la sua caratterizzazione specifica al livello del modo di produzione capitalistico va bene, ma non è quello che fa, almeno qui, Rossi-Landi. 
Questo riduzionismo relativo alla teoria di Marx riemerge anche nel passo seguente: 

L’economia marxiana come scienza che studia le merci quali messaggi e di tali messaggi considera l’intero percorso, offre il primo compiuto modello dialettico d’un processo comunicativo socialmente reale; è con essa che prende l’avvio l’esplorazione sistematica di tale processo, che si cominciano a portare alla luce i rapporti reciproci fra gli uomini e quei loro onnipresenti prodotti che sono i messaggi nonché i rapporti dei messaggi fra di loro. Proprio il suo lasciar fuori la produzione e il consumo dei corpi portatori di quei messaggi fa dell’economia marxiana una scienza tipicamente semiotica; ma proprio il suo considerare l’intero processo comunicativo dei messaggi-merci ne fa una scienza compiutamente umana, una compiuta scienza del sociale (ROSSI-LANDI 1968, p. 119). 

Lo stesso Rossi-Landi pare mettere giustamente in guardia contro l’illusione di sviluppare una teoria del generale dal particolare, in quanto l’errore consisterebbe nell’identificare il particolare come tale con l’universalità (ROSSI-LANDI 1968: 122) (non tanto nel vedere come l’universale sia incarnato nel particolare e ne consustanzi la dinamica di svolgimento). Egli stesso, però, di fatto, mi pare universalizzi immediatamente il particolare derivandone una teoria generale del linguaggio. 

2.3.2. Alienazione e Classi dominanti 

Una seconda ricaduta di questa impostazione mi pare emerga nel modo in cui Rossi-Landi definisce il concetto di alienazione. Da una parte è evidente l’intento di evitare appiattimenti della storicità umana su un astorico uomo in generale. La categoria di alienazione è inevitabile snodo di questa considerazione: 

In questo paragrafo si propone un minimum per l’uso del termine «alienazione», un riferimento a quello che si avverte di negativo ma al tempo stesso di rimediabile nella situazione umana complessiva, considerata nella sua realtà storico-sociale. L’alienazione fa parte della definizione-in-corso di «uomo», anche se certo non la esaurisce … la storia dell’uomo, così come si è svolta finora, non può venir dissociata da forme sempre diverse ma sempre presenti di alienazione (ROSSI-LANDI 1968: 133). 
L’alienazione è dunque una disfunzione nel modo in cui l’uomo si è staccato dalla natura istituendo rapporti con la natura e con gli altri uomini staccandosi dalla natura stessa. L’alienazione è una falsificazione generale dell’istituirsi e nello svolgersi della storia (ROSSILANDI 1968: 134). 

Su questa base è possibile dare una definizione di ideologia: 

L’ideologia è una razionalizzazione discorsiva cioè una sistemazione teorica di un atteggiamento o stato di falsa coscienza … L’ideologia è falsa coscienza divenuta falso pensiero tramite l’elaborazione segnica e l’uso del linguaggio in una lingua (ROSSI-LANDI 1968: 137). 

La differenza qualitativa è data dalla presenza o assenza del linguaggio. Il concetto di ideologia va approfondendosi collegandosi a quello di praxis. 

La falsa coscienza è coscienza separata dalla praxis, ed è così anche praxis separata dalla coscienza; l’ideologia è pensiero separato dalla praxis, ed è così anche praxis separata dal pensiero. L’ideologia è pertanto falso-pensiero-e-falsa-praxis (ROSSI-LANDI 1968: 138). 

Il processo di de-dialettizzazione e de-totalizzazione porta all’Alienazione linguistica. 

È la falsificazione che fa scattare il meccanismo dell’alienazione nelle due forme principali della falsa coscienza e del falso pensiero, ognuna con la praxis che a essa competerebbe e con quelle che di fatto l’accompagna; o viceversa. Ogniqualvolta abbiamo forme di coscienza o di pensiero in qualsiasi modo «false» perché separate dalla praxis che a esse competerebbe e quindi accompagnate da un’altra praxis, o viceversa, si ha un dissidio o scompenso dialettico, lungo ognuna delle direzioni di rapporto tra i vari termini. Chiamiamo questo dissidio o scompenso «de-dialettizzazione». È questa una astrazione indeterminata (ROSSI-LANDI 1968: 143-144). 

Quindi, 

È rivoluzionaria l’azione che tende a ricongiungere coscienza e praxis; è conservatrice l’azione che in un modo qualsiasi ostacola tale ricongiungimento. Sono queste le due progettazioni sociali fondamentali, entrambe interne alla situazione di falsa coscienza e dunque entrambe ideologiche (ROSSI-LANDI 1968: 152). 

Le ideologie conservatrici privilegiano gli elementi extra-storici, una concezione fondata sul passato che tende a determinare qualche determinato elemento del passato come extra-storico. 

Anche qui, da una parte si vede una possibile definizione generale di che cosa sia alienazione, dall’altra non si riesce a contestualizzarla nelle forme specifiche in cui essa si fa e si instaura nel contesto del modo di produzione capitalistico, col rischio, alla fine, di una critica generica dello stato attuale delle cose che non individua i gangli specifici attraverso i quali si articola la fase storicamente determinata, finendo quindi per proporre una struttura formalistica che funziona a livello transtorico ma che non morde il presente se non in maniera esteriore; alla fine si dice giustamente che il presente è alienato, ma non si mostra nello specifico come. Questo lo si vede anche nella parte finale del libro, dove si va ad affrontare la definizione di classe dominante e di proprietà privata linguistica. Si dice ad esempio: 

Ritengo possibile sostenere che su ogni mercato linguistico-comunicativo la classe dominante possiede privatamente il linguaggio nelle tre dimensioni di (i) controllo del codice o codici e delle modalità di codificazione; (ii) controllo dei canali cioè delle modalità di circolazione dei messaggi; (iii) controllo delle modalità di decodificazione e interpretazione (ROSSI-LANDI 1968: 249). 
Su tale fondamento si può anche proporre una definizione di ‘classe dominante’ come la classe che possiede i suddetti controlli (ROSSI-LANDI 1968: 250). 

Che cosa significa non «vengono compiute liberamente»? Esiste un uso «libero» della comunicazione al di fuori dalle dinamiche storico-determinante in cui essa si pratica? Solo a condizione di credere, quanto meno implicitamente, nell’esistenza di una comunicazione «naturale», piegata o deformata dallo stato presente di cose. Che poi nelle pratiche storiche, le classi dominanti o egemoni tendano a far valere i propri modelli come naturali o universali è sicuramente vero, ma questo, di nuovo, vale più o meno sempre e non aiuta a cogliere la specificità di come ciò si realizzi nel contesto del modo di produzione capitalistico. Se poi il termine di paragone di questa dinamica alienata di dominazione è l’Uomo, con la u maiuscola, sembra di nuovo apparire un potenziale rischio di essenzialismo(24). Non siamo più di fronte ad una dinamica di formazione dell’umano attraverso la dialettica di continuità/discontinuità, ma in un’ottica di essenza (data ab origine) e sua alienazione (nell’esperienza storica)(25). 

3. Ritorno a Wittgenstein? 

Se torniamo adesso al punto di partenza di questo saggio, la relazione tra Marx e Wittgenstein, alla luce dell’interpretazione di Rossi-Landi, che tipo di considerazioni si possono svolgere? 

Il punto di partenza di Rossi-Landi era l’apprezzamento per i progressi realizzati da Wittgenstein nel passaggio dal Tractatus alle Ricerche. Esso era interpretato come una specie di sviluppo interno alla stessa filosofia del linguaggio, un passaggio da un naturalismo individualista astorico a una concezione del linguaggio sociale, basata sulla pratica. L’ipotesi di Rossi-Landi è che questi elementi provengano da una qualche frequentazione, diretta o indiretta, con Marx. Egli mette in luce categorie come prassi, uso, ambiente sociale, regole determinate condivise socialmente in questo ambiente, alienazione, ecc. In una prospettiva dialettica marxiana si riscontrano qui importanti elementi di progresso in uscita dal contesto teorico mainstream della teoria del linguaggio. Rossi-Landi, tuttavia, non nasconde che Wittgenstein non è veramente capace di portare a compimento questo passaggio e non riesce a dare un vero contenuto storico alla sua teoria. Completare questo passaggio è esattamente lo scopo che si pone Rossi-Landi. Ho cercato di mostrare come in realtà anche lui non riesca nell’impresa o almeno solo in parte, in quanto non è capace di gestire ed articolare una teoria del linguaggio che sia tanto sincronica quanto diacronica attraverso i diversi livelli di astrazione in cui si sviluppa. Questo limite finisce per produrre un implicito, per quanto involontario, «naturalismo» quando per es. utilizza categorie specifiche del modo di produzione capitalistico come se fossero applicabili al linguaggio in generale. Oppure quando tratta l’alienazione o la lotta di classe ponendo l’accento, sostanzialmente, sugli elementi meta-storici, perdendo di vista ciò che è storicamente determinato nell’alienazione e nella lotta di classe capitalistiche. Finisce così per parlare dell’essere umano in generale e, implicitamente, reintroduce una forma di naturalismo. 

Pur tenendo presenti i suddetti limiti, a me pare che il tentativo di Rossi-Landi sia di grande interesse e possa fornire interessanti spunti per una teoria linguistica dialettica. In questo senso anche il modo di approcciarsi a Wittgenstein mi pare legittimo e non arbitrario, anche se ovviamente mosso da intenti specifici. La questione che resta aperta è come articolare una teoria del linguaggio che, accanto alla sua dimensione meta-storica, sia capace di includere l’esistenza storicamente determinata del parlare come processo complessivo e non come mera giustapposizione. Riuscire a dar conto di ciò significherebbe rispondere agli interrogativi impliciti in Wittgenstein e enunciati ad alta voce da Rossi-Landi. 

Un possibile approccio alternativo al rapporto Marx-Wittgenstein potrebbe invece muovere nella direzione opposta da quella appena indicata: invece di tentare di introdurre il processo storico nella teoria del linguaggio, si potrebbe «naturalizzare» la teoria della storia di Marx. In particolare, sulla base di alcune delle opere giovanili, è possibile dare una piega essenzialistica alla sua filosofia basandola sull’essere umano in generale, un concetto molto vicino all’antropologia pre-sociale dell’economia politica classica. Il riferimento non è solo al concetto di Gattungswesen nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, ma anche al quadro concettuale sviluppato intorno a individui-divisione del lavoro-scambio tipico dell’Ideologia tedesca. Mentre il primo è la trasfigurazione idealistica delle categorie dell’economia politica classica, il secondo è semplicemente la fondazione dell’economia classica stessa nei termini di Smith, senza una critica conclusiva di questi assunti, solo una loro generica storicizzazione. Il concetto di alienazione del giovane Marx, una forma imperfetta di naturalismo o un naturalismo solo con tracce embrionali di storia e società, può essere messo in relazione con il naturalismo di Wittgenstein che pure presenta tracce di storia e società. Ciò tuttavia costituirebbe una comparazione tra il Marx «borghese» con gli elementi più tradizionali di Wittgenstein. 

La forma di valore, pure malintesa da alcuni in termini di alienazione, è in verità nella teoria matura di Marx il tentativo di mostrare come lo stesso concetto di individuo astratto e l’idea di un’essenza umana-personale siano essi stessi prodotti storici. Il lato oggettivo del carattere feticistico della merce consiste nel concepire le cose, nella loro esistenza materiale/naturale, come dotate di proprietà sociali; il carattere soggettivo del carattere feticistico della merce consiste nel concepire gli individui, nella loro natura, come persone. Il secondo tipo di rapporto Marx-Wittgenstein è possibile, ma significa guardare a Marx con le lenti di Wittgenstein e non viceversa. 


NOTE

1 Su Rossi-Landi si vedano fra gli altri D’URSO (2014), BIANCHI (2015), BORRELLI (2017, 2018), PETRILLI (2004), PUNZO (2008, 2012).

2 «Ciò che ora accade ha significato – in questo àmbito [Umgebung]. L’àmbito gli conferisce importanza. E la parola «sperare» si riferisce a un fenomeno della vita dell’uomo» (WITTGENSTEIN 2014: § 583).

3 «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio» (WITTGENSTEIN 2014: § 43).

4 «Nella pratica [Praxis] dell’uso del linguaggio (2) una delle parti grida alcune parole e l’altra agisce conformemente ad esse … Possiamo anche immaginare che l’intiero processo dell’uso delle parole, descritto nel § 2, sia uno di quei giuochi mediante i quali i bambini apprendono la loro lingua materna. Li chiamerò «giuochi linguistici» (WITTGENSTEIN 2014: § 7).

5 «Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e cosí via. – Fare una comunicazione, dare o comprendere un ordine, e simili, non sono cose che possano esser state fatte una volta sola. – Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)» (WITTGENSTEIN 2014: § 199).

6 «Della comprensione che si raggiunge tramite il linguaggio non fa parte soltanto una concordanza nelle definizioni, ma anche (per quanto strano ciò possa sembrare) una concordanza nei giudizi. Ciò sembra togliere di mezzo la logica, ma non è cosí. – Una cosa è descrivere i metodi di misurazione, un’altra è ricavare ed enunciare i risultati della misurazione. Ma ciò che chiamiamo «misurare» è determinato anche da una certa costanza nei risultati delle misurazioni» (WITTGENSTEIN 2014: § 242).

7 «Per questo ‘seguire la regola’ è una prassi [Praxis]. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola ‘privatim’: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola» (WITTGENSTEIN 2014: § 202).

8 «Ancor piú che a questa critica … la mia gratitudine va a quella che un insegnante di quest’Università: Sraffa, ha per molti anni esercitato incessantemente sul mio pensiero. A questo stimolo sono debitore delle piú feconde idee contenute nel presente scritto» (WITTGENSTEIN 2014: Prefazione).

9 Altri hanno cercato di approfondire questo aspetto, come SEN (2003). Via Gramsci ci ha provato anche LO PIPARO (2014).

10 Rossi-Landi tornerà sul tema nel 1979 in occasione del secondo congresso della International Association for Semiotic Studies, nella serie "The Viennese Heritage" (ora in ROSSI-LANDI 1992). In questa relazione a me non pare affrontare i nodi già messi in evidenza nell’opera qui discussa; ne fa solo un riepilogo ragionato.

11 Per una panoramica su alcuni studi recenti su Marx in ambito nazionale ed internazionale si veda FINESCHI, REDOLFI-RIVA & SGRO’ (2013).

12 Sulla MEGA mi permetto di rimandare a FINESCHI (2008) e al più recente SGRO’ (2016).

13 «Il lavoro è, in primo luogo, un processo tra uomo e natura, un processo in cui, per mezzo della propria azione, egli media, regola e controlla il proprio ricambio materiale organico con la natura. L’uomo sta di fronte alla materia naturale stessa come potenza naturale. Per appropriarsi della materia naturale in forma utilizzabile per la propria vita, egli mette in movimento braccia e gambe, testa e mani, le forze naturali che appartengono alla sua corporeità. Agendo, attraverso questo movimento, sulla natura al di fuori di sé e modificandola, egli modifica contemporaneamente la natura propria. Sviluppa le potenze in essa assopite e assoggetta il gioco delle forze di essa alla propria sovranità» (MARX 2011: 197).

14 «I momenti semplice del processo lavorativo sono l’attività conforme a scopo, ovvero il lavoro stesso, il suo oggetto ed il suo mezzo». Ivi: 200: «Nel processo lavorativo, dunque, attraverso il mezzo di lavoro l’attività dell’uomo provoca una modificazione dell’oggetto di lavoro, scopo a cui si mirava sin dall’inizio. Il processo si estingue nel prodotto» (MARX 2011: 198).

15 Ho sviluppato queste riflessioni con maggiore ampiezza in FINESCHI (2001). Esse sono ampiamente debitrici delle considerazioni di MAZZONE (1980, 1987).

16 «Per riferire queste cose le une alle altre come merci, i tutori delle merci devono rapportarsi gli uni agli altri come persone, il cui volere dimora in quelle cose … Si debbono quindi riconoscere reciprocamente come proprietari privati. Questo rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, sia o non sia sviluppato legalmente, è un rapporto di volontà in cui si rispecchia il rapporto economico. Il contenuto di questo rapporto giuridico o di volontà è dato dal rapporto economico stesso» (MARX 2011: 97).

17 «Si vede che la distinzione ottenuta grazie all’analisi della merce fra il lavoro in quanto crea valore d’uso e lo stesso lavoro in quanto crea valore, si è adesso esposta come distinzione dei diversi lati del processo di produzione. Come unità di processo lavorativo e processo di costituzione di valore, il processo di produzione è processo di produzione di merci; come unità di processo lavorativo e processo di valorizzazione esso è processo di produzione capitalistico, forma capitalistica della produzione di merci» (MARX 2011: 216 s.).

18 «La ricchezza delle società in cui domina il modo di produzione capitalistico si manifesta fenomenicamente come una «immane raccolta di merci», la merce singola come sua forma elementare ... I valori d’uso costituiscono il contenuto materiale della ricchezza, quale ne sia la forma sociale. Nella forma sociale che dobbiamo trattare noi, essi costituiscono al contempo i portatori materiali del - valore di scambio» (MARX 2011: 45s.).

19 Rossi-Landi non è stato ovviamente il solo ad occuparsi di teoria del linguaggio su basi materialistiche ed in particolare in riferimento al concetto di lavoro. Fra gli altri si vedano ERCKEBRECHT (1973), HERING (1975), KOFLER (1970), LUKÁCS (1981), PONZIO (1970, 1973, 1974), VOLOŠINOV (1976). Una panoramica in SGRO’ (2019).

20 «Alla bipartizione tra lingua e parola si deve sostituire una tripartizione: il lavoro linguistico (collettivo) produce la lingua (collettiva) su e con cui si esercita il parlare dei singoli, i cui prodotti rifluiscono nello stesso serbatoio collettivo da cui ne sono stati attinti materiali e strumenti» (ROSSI-LANDI 1968: 69).

21 «Affinché il valore d’uso di una parola si estrinsechi in valore di scambio, occorre che entri in gioco il parlare cioè l’uso effettivo della lingua per fini espressivi e comunicativi». «Anche qui dunque, come già per la merce, il valore di scambio è la forma fenomenica del valore, che si realizza nel parlare … quale forma esterna del rapporto sociale fra i parlanti di almeno due parole» (ROSSI-LANDI 1968: 97).

22 Questioni legate alla traduzione in inglese (ROSSI-LANDI 1983) del titolo di Rossi-Landi (1968) mettono di nuovo in evidenza questa aporia strutturale. Rossi-Landi stesso (1977: 1788) aveva indicato di voler tradurre «lavoro» con «work» proprio poggiando su una nota engelsiana alla traduzione inglese del primo libro del Capitale (MARX 1990: 39 s. e 162), dove «work» è messo in relazione alla sola produzione di valore d’uso, ovvero sarebbe da intendere in senso meta-storico. «Labor» invece sarebbe il lavoro che specificamente produce valore. Lasciamo da parte il carattere problematico della nota engelsiana, che sembra confondere il «lavoro concreto», uno dei due caratteri del lavoro produttore di merci, e il «processo lavorativo» in generale e ammettiamo che «work» sia il lavoro meta-storico in generale. In quanto Rossi-Landi attribuisce al messaggio il carattere di merce da un lato e le qualità di capitale costante e variabile al lavoro linguistico dall’altro, egli sovrappone costantemente, senza mediazione, work e labor.

23 «Ovviamente l’economia non può esimersi dal fare costante riferimento anche alla produzione e al consumo; ma non li considera dal di dentro, bensì per così dire dal di fuori, in quanto essi costituiscono le due zone sociali in mezzo alle quali lo scambio e i suoi sviluppi si inseriscono» (ROSSI-LANDI 1968: 115).

24 «Che l’uomo invece vi sia intervenuto, e che senza tale intervento quei prodotti non si sarebbero mai formati, è proprio ciò che risulta ignorato. E siccome l’intervento di cui qui si parla, quello del linguaggio nella divisione del lavoro, è costitutivo dell’umano, l’inversione fa sì che l’uomo neghi se stesso come uomo. Nella pseudo-totalità in cui tale negazione ha luogo, ciò significa che l’uomo si afferma allora quale mero ingranaggio: quale portavoce ripetitore e vittima del processo sociale della produzione linguistica. Siccome i suoi stessi prodotti si sono organizzati in sistema al di sopra e contro di lui, il suo agitarsi sotto alla loro coltre lo sospinge sempre più in basso, verso ciò che non potendo più essere linguistico necessariamente diventa subumano» (ROSSI-LANDI 1968: 251 s.).

25 Questa problematica non è risolta, anzi semmai consolidata con uno schematismo intellettualistico ancora più marcato, in un’altra opera importante di Rossi-Landi sull’ideologia (ROSSI-LANDI 1982). Il tema è qui espressamente fondato sull’assunto della «situazione umana» (ROSSI-LANDI 1982: 83) e poi tutto giocato su definizioni più formalistiche che formali che astraggono sostanzialmente delle modalità storiche effettive di realizzazione.


TESTI CITATI


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