mercoledì 26 aprile 2017

Etica Nicomachea Libro II (Giusto mezzo)*- Aristotele

*Da:    http://www.ilgiardinoedipensieri.eu/ 
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/04/aristotele-etica-nicomachea-francesco.html 


1. Da dove nasce la virtù?

1.1. La virtù morale è il frutto dell’abitudine, non dell’insegnamento
La virtù ha dunque due forme: una intellettuale, l’altra etica.
Se è intellettuale, è in gran parte all’insegnamento che deve la sua nascita e la sua crescita. Proprio per questo ha bisogno di esperienza e di tempo. Se invece è etica, è frutto dell’abitudine. Da qui deriva il suo nome, come piccola modificazione del termine ethos (1).

2. La virtù morale non è data per natura
È quindi chiaro che nessuna delle virtù morali ci è data per natura.

2.1. Primo argomento
Infatti nulla di ciò che è ci è dato per natura si modifica con l’abitudine. Così la pietra che cade per natura verso il basso non può prendere l’abitudine di andare verso l’alto, neppure se la si volesse abituare gettandola diecimila volte per aria. Non più di quanto il fuoco possa abituarsi ad andare verso il basso, perché nessun comportamento naturale può essere modificato con l’abitudine.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che ci sono date le virtù. Al contrario, la natura ci ha fatti in modo da poterle ricevere, ma è seguendo i nostri fini che le acquisiamo, attraverso l’abitudine.

2.2. Secondo argomento
Di più, tutto quanto la natura mette a nostra disposizione, l’acquisiamo all’inizio sotto forma di capacità e solo dopo diventa per noi in atto, come si vede bene osservando i sensi. Infatti non è che le nostre facoltà sensibili nascano dall’atto frequente di vedere o dall’atto frequente di intendere: è l’inverso, perché possiamo usare i sensi perché li abbiamo e non è affatto l’uso che ce ne dà il possesso.
Ora, le virtù nascono da atti precedenti, come avviene per il possesso delle tecniche. Infatti, quando dobbiamo apprendere come fare qualcosa, è attraverso il fare che l’apprendiamo. Così è costruendo che si impara a costruire, e suonando la citara si diviene citaristi. Nello stesso modo, è così che esercitandoci a fare azioni giuste che diventiamo giusti, e agendo con moderazione che diventiamo moderati, o con coraggio coraggiosi.

2.1. Conferma
Ne è testimonianza quanto accade nelle città. I legislatori infatti cercano di creare nei loro concittadini le abitudini che li rendano buoni cittadini: è proprio questo l’obiettivo di qualsiasi legislatore. Chi non si pone questo obiettivo, va incontro a fallimenti. Ed è proprio questo che differenzia un buon regime politico da uno che non lo è.

3. Somiglianza tra le azioni e gli stati che li precedono
Di più, sono le stesse azioni che determinano sia la nascita che la distruzione di una virtù, esattamente come per le tecniche. Infatti suonare la citara fa nascere sia buoni che cattivi citaristi, e lo stesso accade negli altri casi, per i costruttori come per tutti gli altri artigiani, bravi o no, perché costruir bene fa diventare bravo un costruttore, costruir male lo fa diventare un cattivo costruttore. Se così non fosse, non ci sarebbe affatto bisogno di qualcuno che insegni il mestiere; chiunque sarebbe un artigiano bravo o non bravo.
E così è anche per le virtù. A seconda del modo in cui entriamo in relazioni d’affari con gli altri diventiamo alcuni giusti, altri ingiusti. E a seconda del modo in cui ci comportiamo di fronte ai pericoli, prendiamo l’abitudine di cedere alla paura o di mantenere il nostro sangue freddo e diventiamo quindi nel primo caso paurosi, nel secondo coraggiosi. Lo stesso accade per le situazioni in cui sono in gioco i nostri desideri o per quelle in cui rischiamo di innervosirci. Si diventa infatti padroni di sé e moderati, oppure nervosi, a seconda dei comportamenti che si sono mantenuti nelle varie circostanze della vita.
In una parola, c’è una somiglianza tra le azioni e gli stati che le precedono.

4. Conclusione: l’importanza delle prime abitudini
Per questa ragione le nostre azioni devono rispondere a determinate esigenze di qualità, perché le differenze che ne nascono condizionano le nostre virtù.
L’importanza di acquisire questa o quella abitudine sin da piccoli non è quindi marginale, ma è decisiva: tutto ne dipende.

5. Come agire secondo virtù?
Dal momento che il nostro lavoro, al contrario di altre volte, non ha per fine adesso l’elaborazione di una teoria (non è per sapere che cos’è la virtù che stiamo portando avanti il nostro esame, ma per agire bene, altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno di questo nostro lavoro), è necessario prendere in esame la specificità delle azioni interrogandoci sul modo in cui compierle, perché sono proprio le azioni a determinare sotto tutti i profili le abitudini che acquisiamo e le virtù che ci caratterizzano, come abbiamo prima detto.

5.1. Ipotesi comune e preliminare
Essendo questa la domanda, “agire con razionalità” è la risposta comune e l’ipotesi da cui partire. Diremo più avanti in questo contesto che cosa si debba intendere per razionalità e quale rapporto abbia con le altre virtù.
È tuttavia necessario sottolineare sin da adesso che ogni argomentazione che riguardi le azioni è necessariamente approssimativa e deve rinunciare al rigore, conformemente alla regola che abbiamo enunciato all’inizio, che è necessario che gli argomenti siano appropriati alla materia studiata. Ora i beni che le nostre azioni perseguono e gli interessi a cui mirano non sono stabili, come accade anche per quanto riguarda la salute.
Questo in generale. Se poi studiamo i casi particolari, a maggior ragione mancheremo di rigore, perché non cadono sotto alcuna regola né sotto alcuna legge, e chi agisce deve sempre aver cura di studiare le circostanze specifiche, esattamente come accade in medicina o andando per mare. Tuttavia, nonostante i limiti del nostro discorso, dobbiamo pur dare un contributo.

4.2. L’equilibrio tra l’eccesso e la mancanza favorisce e presenza la virtù
Dobbiamo quindi sin dall’inizio considerare che questo genere di beni è messo in crisi sia che manchi sia che se ne abbia in eccesso. Per esaminare quello che non ci è chiaro, è bene prendere a testimone quel che ci è chiaro. Prendiamo ad esempio il vigore fisico e la salute: se facciamo troppa ginnastica o non ne facciamo affatto il nostro vigore ne risente comunque, così come il bere e il mangiare troppo, o troppo poco, rovinano la salute, mentre nella giusta misura ci manteniamo in salute, miglioriamo noi stessi e ci conserviamo.
Lo stesso accade per la padronanza di sé, il coraggio e le altre virtù. Infatti chi tutto fugge, chi ha paura di ogni cosa e chi non affronta nulla, finisce col diventare un debole; e chi non ha paura di nulla e va incontro a tutti i pericoli, finisce col diventare un temerario incosciente. Parallelamente, chi gode di ogni piacere e non se ne fa mancare nessuno, diventa incapace di dominare se stesso, mentre chi li evita tutti, come i rustici, finisce col diventare un insensibile.
A rovinare la capacità di autocontrollarsi e il coraggio sono dunque sia la mancanza che l’eccesso, mentre l’equilibrio conserva queste virtù.

4.3. L’equilibrio rinforza le capacità
Non è solo questo. La nascita, la crescita e la rovina delle virtù derivano, certo, dalle stesse azioni e ne sono l’effetto, ma gli atti con cui le virtù si manifestano sono, essi stessi, le medesime azioni. Lo si osserva bene, ad esempio, in certi casi evidenti, ad esempio nel vigore fisico. Se si diventa vigorosi a forza di nutrirsi bene e di allenarsi senza risparmio, è anche vero che proprio queste cose manifestano il fatto che una persona è nel pieno vigore delle sue forze.
Lo stesso si osserva per le virtù. Infatti, se è a forza di tenere a distanza i piaceri che impariamo a diventare padroni di noi stessi, è anche vero che una volta che lo siamo, siamo anche capaci di tenere a distanza i piaceri. E lo stesso accade col coraggio. Infatti, quando prendiamo l’abitudine di sfidare la paura e di affrontarla, diventiamo coraggiosi, ed è quando siamo diventati che siamo davvero capaci di affrontare quel che ci fa paura.

4.4. Il piacere manifesta lo stato della virtù
Inoltre, dobbiamo considerare un indice dello stato delle virtù il piacere o il dolore che si aggiungono alle azioni che compiamo.
Chi tiene a distanza, infatti, i piaceri del corpo e trova in questo del piacere, è padrone di sé, mentre chi fa la stessa cosa, ma con dolore e per forza, non è certo padrone di sé. Nello stesso modo, chi affronta i pericoli ed è contento di farlo, o almeno non ne soffre, è coraggioso, mentre chi li affronta, ma ne soffre, è un debole.

5. La virtù morale mette in gioco il piacere e il dolore
Piacere e dolore sono in effetti in gioco quando si tratta della virtù morale, perché è il piacere che ci fa commettere le peggiori azioni ed è il dolore che ci provocano a far sì che noi si fugga dalle azioni belle. Per questo dobbiamo essere educati in modo opportuno sin da piccoli, come dice Platone (2), abituandoci a godere e a soffrire per questa o quella azione. L’educazione corretta, infatti, consiste in questo.
Inoltre, se le virtù mettono in gioco azioni e passioni, e se tutte le azioni e tutte le passioni implicano piacere e dolore, allora necessariamente la virtù mette in gioco il piacere e il dolore.
Lo suggerisce anche il fatto che le punizioni sfruttano lo stesso meccanismo, perché agiscono come una medicazione. E le medicine ricorrono spesso ai mezzi contrari.
Di più, come dicevamo prima, ogni stato dell’anima ha una natura in rapporto col genere di azioni che la rendono peggiore o migliore e che si esprime attraverso di esse. Ora, piacere e dolore rendono cattivi se si cercano gli uni e si fuggono gli altri senza criterio: in certi casi si devono cercare, in altri fuggire, ora in un modo, ora in un altro, e solo la ragione ci dice quando e come cercarli o fuggirli. Per questa ragione c’è chi definisce le virtù in termini di impassibilità e di riposo; a torto però, perché questa formula è troppo semplice e nulla dice sul modo in cui si deve o non si deve restare impassibili, né suo momento opportuno per farlo. Non precisa nulla. Proponiamo dunque l’ipotesi che la virtù, quando il piacere e il dolore sono in gioco, è la tendenza naturale a fare ciò che è meglio, e il vizio è il contrario.
Dobbiamo però vederci chiaro su questi temi, anche a causa delle considerazioni che seguono. Ci son tre cose, infatti, che entrano in gioco quando scegliamo qualcosa, e altre tre quando rifiutiamo qualcosa: il bello, l’utile e il piacevole, i cui contrari sono il brutto, il dannoso e il doloroso. Dunque, l’uomo agisce bene quando riesce a comportarsi correttamente, mentre agisce male quando non riesce a farlo. E questo accade soprattutto quando c’è di mezzo il piacere, perché questo, come per qualsiasi altro animale, accompagna ciò che può diventare l’oggetto di una scelta. Il bello e l’utile, infatti, hanno un volto piacevole.
Inoltre da piccoli abbiamo conosciuto il piacere, che è cresciuto con noi. Per questo è difficile estirparlo, incrostato com’è nell’esistenza. E d’altronde per giudicare le nostre azioni, chi più, chi meno, usiamo come metro il piacere e il dolore. Per questa ragione è necessario essere sempre attenti, perché non si può dimenticare l’importanza che riveste, per le nostre azioni, la coscienza che abbiamo del piacere e del dolore e il senso che diamo loro.
Inoltre, come dice Eraclito, si combatte con maggiore difficoltà il piacere che l’impulsività. Ed è sempre sul terreno più difficile che si sviluppano la tecnica e la virtù, perché il successo vale di più su questo terreno. E inoltre è per questa ragione che il piacere e il dolore sono la materia che attrae tutta l’attenzione della virtù e della politica. Chi ne fa buon uso, infatti, sarà buono, chi ne fa un cattivo uso sarà cattivo.

6. Condizioni delle azioni virtuose (approfondimento)

6.1. Difficoltà: come distinguere una bella azione da un’azione virtuosa?
Si è dunque detto che la virtù concerne piaceri e dolori, che le azioni con cui essa nasce sono anche quelle che la fanno crescere o morire, se vanno in direzioni divergenti, e che quelle con cui essa è nata sono anche quelle in cui si manifesta in atto.
Bene così. Ma ci si può chiedere che cosa si vuole dire affermando che si deve fare ciò che è giusto per diventare giusti, e si deve fare qualcosa di moderato per diventare persone capaci di moderazione. E in effetti se si fa ciò che è giusto e moderato, si è già giusti e moderati! Così se si scrive o si fa della musica, la si sa scrivere e si è musicisti!

6.2. Risposta: i tratti distintivi dell’azione virtuosa
Ma è così anche per le tecniche. Si può infatti scrivere correttamente sia per caso che grazie all’aiuto di altri. Diremo che uno sa scrivere correttamente quando lo fa seguendo una tecnica che egli possiede.
Ma c’è una differenza tra le tecniche e le virtù. I risultati delle tecniche sono infatti opere che contengono in se stesse la loro perfezione. È sufficiente che abbiamo questa qualità al momento della produzione. Invece le azioni che la virtù genera, anche se possiedono in sé questa o quella qualità, non sono, quanto alla causa, azioni di giustizia o di temperanza. Al contrario, bisogna ancora che chi agisce le metta in atto in un certo modo: innanzitutto, deve sapere ciò che fa; poi deve decidere e, agendo, volere per se stessi gli atti che compie; e infine, in terzo luogo, deve agire con una disposizione d’animo ferma e immutabile.
Ora queste condizioni per il possesso delle tecniche non entrano nel conto per il possesso delle altre tecniche, se non il sapere; ma per il possesso della virtù, di fatto la forza del sapere è trascurabile, pressoché nulla, mentre le altre disposizioni dell’animo, piuttosto che essere trascurabili sono piuttosto tutto. E sono queste che entrano in gioco quando diciamo che, con l’abitudine, si diviene giusti e temperanti.

6.3. Conclusione
Dunque le azioni compiute sono dette giuste e temperanti, quando sono come le compirebbe l’uomo giusto e temperante. D’altra parte l’uomo giusto e temperante non è quello che le compie e basta, ma quello che, compiendole, agisce con la disposizione d’animo di quelli che sono giusti e temperanti.

7. Natura della virtù
Dobbiamo adesso anche studiare che cos’è la virtù.

7.1. A quale carattere dell’anima è legata la virtù?
Dunque, dal momento che nell’anima troviamo passioni, potenzialità e tendenze, la virtù deve essere una di queste cose.
Ora, per passione io intendo: desiderio, ira, paura, animosità, invidia, gioia, amore, odio, tristezza, gelosia, pietà, insomma tutto ciò da cui segue piacere e dolore.
Per potenzialità intendo: quel che consente di dire che siamo capaci di provare una certa passione, per esempio che siamo capaci di adirarci, o di provare dolore o pietà.
Per tendenza intendo: quel che fa sì che noi siamo inclini o non inclini verso queste passioni. Se per esempio siamo fortemente o debolmente tendenti all’ira, allora siamo poco inclini; se invece siamo mediamente tendenti verso l’ira, allora siamo ben disposti verso di essa. E così è per le altre passioni.

7.1.1. La virtù non è una passione
E dunque le virtù e i vizi non dobbiamo identificarle con delle passioni, perché non è per le nostre passioni che ci si chiama virtuosi o viziosi, ma proprio per le nostre virtù o i nostri vizi. E infatti non è per le nostre passioni che si parla bene o male di noi: non si parla bene di uno perché ha paura o perché si è innervosito, non più di quanto se ne parli male: per parlarne bene o male dipende dal modo in cui queste passioni hanno preso il sopravvento. E invece per le virtù e per i vizi parla bene o male di noi.
Ancora, non ci innervosiamo o abbiamo paura perché scegliamo di farlo, mentre le virtù corrispondono a determinate scelte o almeno non ne sono indipendenti.
Inoltre, si dice che siamo mossi dalle passioni, ma non si dice che siamo mossi dalle virtù o dai vizi, ma che abbiamo una certa tendenza verso una determinata virtù o un vizio.

7.1.2. La virtù non è una capacità
Ora, per questa ragione virtù e vizi non sono neppure delle potenzialità. Non si dice infatti che noi siamo buoni o cattivi solo perché la semplice capacità di provare passioni. Da questo non vengono né lodi né critiche. D’altra parte, le nostre potenzialità derivano dalla nostra natura, perché non nasciamo per natura né buoni né cattivi. Ne abbiamo parlato prima.

7.1.3. La virtù è uno stato
Se dunque le virtù non sono né passioni né potenzialità, evidentemente sono delle tendenze.

7.2. Qual è la differenza all’interno di questo genere?
E con questo abbiamo dunque detto genericamente che cos’è la virtù. Non basta però affermare che è una tendenza: bisogna anche specificare che tipo di tendenza.

7.2.1. La virtù è la tendenza a portare a compimento e perfezione la natura propria dell’uomo
Dobbiamo dunque osservare che ciascuna virtù mette in valore ciò di cui è virtù, consentendo così di svolgere al meglio il proprio compito. Ad esempio la virtù dell’occhio fa sì che quest’organo sia perfetto e svolga bene il proprio compito: e infatti la virtù dell’occhio consiste nel farci veder bene. Parallelamente, la virtù del cavallo è di essere un buon cavallo, perfetto per la corsa, per portare chi lo cavalca e per reggere di fronte ai nemici.
Quindi, se questo è vero sempre, allora è anche vero che la virtù dell’uomo deve essere quella particolare tendenza che lo rende un uomo buono e che gli permette di svolgere il suo specifico compito.

7.2.2. Come è possibile questo?
Come è possibile questo? L’abbiamo già detto, ma segue anche da quanto diremo, considerando nella sua specificità la natura della virtù.

7.2.2.1. Il giusto mezzo va determinato in relazione a noi stessi
Sia nelle realtà continue che in quelle divisibili possiamo trovare il più, il meno e l’eguale. E lo si trova sia nella realtà stessa, sia in rapporto a noi. Ora, l’eguale è una sorta di punto di mezzo tra l’eccesso e il difetto.
Per ciascuna realtà chiamo poi posizione di mezzo ciò che si trova a eguale distanza da ciascuno dei due estremi, posizione che è una e una sola per ciascuna realtà. Chiamo invece posizione di mezzo rispetto a noi quel punto che non è, per noi, né troppo, né troppo poco; e non è certo una cosa unica: non è lo stesso punto di mezzo per tutti.
Per esempio, se dieci è troppo e due poco, sei è il numero intermedio della serie, perché supera ed è superato da una quantità eguale. E questo numero è infatti intermedio secondo la proporzione numerica. Invece la posizione intermedia relativa a noi stessi non deve essere determinato in questo modo. Infatti se per un uomo dieci mine di cibo sono troppe e due poche, chi stabilisce la dieta non sempre prescriverà sei mine, perché forse sono ancora molte per uno, e poche per un altro. Per Milone (3), infatti, saranno poche, ma per un principiante di ginnastica potrebbero essere molte. E lo stesso è per la corsa o la lotta.

7.2.2.2. La virtù ha di mira il mezzo
L’esperto quindi evita l’eccesso e il difetto. Cerca al contrario il punto di mezzo e lo pone come obiettivo. E questo mezzo non è quello della cosa, ma è quello determinato in relazione a noi. Quindi, se ogni scienza riesce bene nel proprio compito proprio mirando al punto medio e andando in questa direzione nel produrre le proprie opere – da qui viene l’abitudine di dire, a proposito delle opere riuscite, che non hanno nulla né di poco né di troppo, con l’idea che l’eccesso e il difetto rovinano la perfezione, mentre il punto intermedio la realizza -, e se d’altra parte i bravi artigiani, come si dice, hanno di mira questa perfezione quando lavorano, allora la virtù che, come la natura, supera in rigore e in valore ogni forma d’arte, deve mirare al punto di mezzo.

7.2.3. Dunque, la virtù morale consiste nel punto di mezzo
Io parlo della virtù etica, cioè di quella che riguarda passioni e azioni. Ora, in questo campo c’è un eccesso, un difetto e un mezzo. Esempio: si può essere paurosi, oppure coraggiosi, provare dei desideri, irritarsi, provare pietà o, in definitiva, provare piacere e dolore, sia troppo che troppo poco, e non va bene in nessuno dei due casi; ma essere così quando è necessario, per dei buoni motivi, verso le persone giuste, con un obiettivo sensato e nel modo opportuno, ebbene questo significa collocarsi in un punto mediano e perfetto; ed è esattamente in questo che consiste la virtù. Parallelamente, anche nelle azioni c’è un eccesso, un difetto e un punto di mezzo.

7.2.4. Questo punto di mezzo è eccellente
Ora, la virtù riguarda passioni e azioni in cui l’eccesso e il difetto sono un errore, oggetto di critiche, mentre il punto di mezzo è apprezzato e visto positivamente. E questi due tratti sono tipici della virtù. Dunque la virtù è una sorta di medietà, proprio perché mira sempre ad una posizione intermedia tra un eccesso e un difetto.
Inoltre l’errore ha molti volti – il male infatti non ha limiti e confini, come hanno sostenuto i Pitagorici (4), mentre il bene è una realtà finita – mentre il giusto ne ha uno solo. È per questo che il male è facile e il bene difficile: è facile mancare il bersaglio, difficile è centrarlo. Quindi il vizio e legato all’eccesso e al difetto, la virtù è legata alla posizione intermedia. “Si è nobili in un sol modo, villani in molti modi (5)”.

7.3. Definizione della virtù
Per conseguenza la virtù è una tendenza della nostra vita interiore che mira al giusto mezzo, identificato rispetto a noi. Questa definizione è razionale ed è quella che darebbe un uomo saggio. D’altra parte alcuni vizi sono tali per eccesso, altri per difetto; e infatti i vizi o restano al di qua, o vanno al di là, del giusto nelle passioni e nelle azioni, mentre la virtù identifica il giusto mezzo e lo sceglie.

7.4. Precisazioni

7.4.1. La virtù può essere detta un estremo
Per queste ragioni la virtù è in posizione intermedia, per la sua essenza e se si bada alla sua vera natura. Tuttavia nell’ordine del bene e della perfezione sta ad un estremo, nel punto più elevato.

7.4.2. Il male senza eccesso né difetto
È anche vero però che non è possibile trovare in ogni genere di azione o di passione un punto intermedio. Alcune hanno un nome che le associa immediatamente a qualcosa di perverso: per esempio la gioia maligna, l’impudenza, l’invidia e, tra le azioni, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Tutte queste cose, in effetti, e quelle dello stresso tipo sono da respingere per essere in sé stesse cattive, e non è l’eccesso o il difetto, in questi casi, a renderle tali. Quando si tratta di simili passioni o azioni non è mai possibile agire correttamente; si è sempre in errore in questi casi. Non è mai possibile trovare del bene o del male, ad esempio, nel commettere adulterio con una persona piuttosto che con un’altra, né c’è mai un caso in cui è necessario commetterlo, né un modo corretto per farlo; al contrario, sono azioni che, comunque si commettano, si sbaglia.

7.4.3. La virtù non è mai legata a un eccesso o a un difetto 
Sarebbe come se si ritenesse che agire ingiustamente, o essere vigliacchi o incapaci di controllarsi implicasse un mezzo, un eccesso e un difetto. Se così fosse, dovrebbe esserci una medietà nell’eccesso e nel difetto, un eccesso nell’eccesso e un difetto nel difetto! Ma come la capacità di controllarsi e il coraggio escludono l’eccesso o il difetto, perché il giusto mezzo è qui, per così dire, un culmine, così nelle azioni comportarsi come prima dicevamo non può esserci alcuna medietà nell’eccesso o nel difetto. Al contrario, in qualsiasi modo si compiano quelle azioni, si è in errore, perché in definitiva né dell’eccesso né del difetto esiste una medietà, né esiste un eccesso o un difetto nella medietà.

8. Disposizioni particolari
Non dobbiamo però fermarci a queste tesi generali. È infatti necessario applicarle ai casi particolari. Infatti per le azioni le tesi generali sono sempre un po’ vuote, mentre quelle legate ai casi particolari sono più ricche di verità perché le azioni appartengono al dominio delle cose particolari ed è su questo terreno che la ricerca ci deve portare.
Vediamo quindi questa tabella (6).

8.1. Quando sono in gioco la paura e la temerarietà
Così dunque, quando sono in gioco passioni come la paura e la temerarietà, il giusto mezzo è il coraggio. Chi sbaglia per eccesso di paura non lo si indica con un nome specifico (capita spesso che il nostro linguaggio manchi di parole precise), mentre chi nutre una eccessiva fiducia di sé lo si dice temerario; quanto a chi da un lato è dominato da una eccessiva paura, dall’altro manca di spirito d’iniziativa, è un vigliacco.

8.2. Quando sono in gioco i piaceri e i dolori
Quando invece sono in gioco i piaceri e i dolori (non tutti, però, soprattutto se parliamo dei dolori), il giusto mezzo è la moderazione e l’eccesso è l’intemperanza. Certo, di persone troppo poco sensibili ai piaceri non se ne incontrano molte. È forse per questo che non c’è un termine specifico per indicarli, però possiamo dire che sono degli insensibili.

8.3. Quando è in gioco il denaro 

8.3.1. Se si tratta di piccole somme
Quando si tratta di dare del denaro o di procurarselo, il giusto mezzo è la generosità, mentre l’eccesso e il difetto sono, rispettivamente, la prodigalità e l’avarizia, vizi questi che sono reciprocamente contrari tanto per l’eccesso che per il difetto. Il prodigo infatti da una parte dà via il denaro in maniera eccessiva, dall’altra è in difetto nel cercarlo, mentre l’avaro da un lato se ne accaparra in maniera eccessiva, d’altra parte ne spende troppo poco. Per il momento ci accontentiamo di un esame sommario, ma più avanti saremo più precisi su questo argomento.

8.3.2. Se si tratta di grandi somme
Quando è in gioco il denaro, si danno poi anche altri modi di essere e di comportarsi. Medietà è la magnificenza. Il magnifico infatti si distingue dal generoso perché il primo ha a che fare con grandi somme, il secondo con piccole. L’eccesso corrispondente è l’ostentazione o la volgarità, e il difetto è la meschineria. Questi vizi differiscono da quelli relativi alla generosità, ma quale sia questa differenza lo diremo più avanti.

8.4. Quando sono in gioco gli onori
Quando invece sono in gioco l’onore o il disonore, il giusto mezzo è la magnanimità, l’eccesso è forse una sorta di vanità, e la mancanza è la pusillanimità.
Ma se, come abbiamo detto che riguardo alla magnificenza la generosità differisce perché in essa sono in gioco piccole somme, parallelamente riguardo alla magnanimità che implica grandi onori deve esserci un’altra virtù che implichi un onore di minore importanza.
Si può infatti aspirare all’onore come è giusto che si debba fare, oppure troppo o troppo poco. Ora, chiamiamo ambizioso chi nutre aspirazioni eccessive, chiamiamo modesto chi manca d’ambizioso, ma chi mantiene una via intermedia tra questo eccesso e questo difetto non ha un nome preciso. E quindi non esistono nomi per indicare le tendenze corrispondenti, salvo per quella dell’ambizioso, che è l’ambizione.
Da qui il fatto che gli estremi rivendichino il posto intermedio e noi stessi d’altra parte finiamo per chiamare chi lo occupa ora un ambizioso, ora un modesto, e ci capita di lodare tanto l’uno quanto l’altro. Quanto ai motivi per cui agiamo così, ne parleremo più avanti. Per il momento seguiamo la tabella che abbiamo prima proposto.

8.5. Quando è in gioco l’ira
Quando è in gioco l’ira, anche lì c’è un eccesso, un difetto e una via di mezzo, ma di fatto non hanno nome. Tuttavia, visto che chiamiamo bonario chi segue la via di mezzo, potremmo chiamare bonarietà questa via mediana. Quanto agli estremi, chi eccede può esser chiamato irascibile, e il vizio corrispondente irascibilità; chi invece manca per difetto, è in definitiva uno che non si lascia irritare da niente e il suo vizio e l’incapacità di irritarsi.

8.6. Quando sono in gioco le relazioni sociali
Ci sono poi altre tre medietà che presentano alcune somiglianze tra loro, anche se sono in realtà differenti le une dalle altre. Tutte infatti riguardano le relazioni, in parole ed azioni, proprie della vita in società. Sono differenti perché una concerne ciò che può esserci di vero in queste relazioni, e le altre due si riferiscono a quello che può esserci di piacevole, sia nel gioco, sia in tutti gli altri aspetti dell’esistenza.
Dobbiamo parlare anche di queste per meglio renderci conto che, in ogni caso, la via di mezzo è la migliore, mentre le vie estreme non sono né corrette né apprezzabili, ma sono da criticare. Certo, la maggior parte delle tendenze del nostro animo non hanno un nome, ma bisogna tentare, come negli altri casi, di dargliene uno, per esigenze di chiarezza e per potere segue le vie di mezzo che questi nomi indicano.

8.6.1. Riguardo alla verità
Così dunque quando è in gioco la verità chi tiene la via di mezzo è una persona franca e la virtù corrispondente è la franchezza. Invece allontanandosi dalla verità, se si eccede si cade nella millanteria, e chi segue questa via è un millantatore, se si dissimula per tartuferia, si cade nell’ironia, e chi si comporta così è uno ironico.

8.6.2. Riguardo al gioco
Quando si tratta della piacevolezza che deriva dal gioco, chi tiene la via di mezzo è una persona di spirito, mentre chi eccede cade nella buffoneria e diventa un buffone; chi invece cade nel difetto opposto, è una persona che manca del tutto si spirito, è rozzo.

8.6.3. Sulla piacevolezza in generale
Quando invece si tratta della piacevolezza negli altri aspetti dell’esistenza, chi è piacevole come si conviene è una persona socievole e la via di mezzo che egli segue è la socievolezza. Invece chi eccede, senza peraltro perseguire alcun secondo fine, è una persona compiacente, mentre se lo fa perseguendo un proprio interesse, è un adulatore. Quanto a chi manca di tatto, e si dimostra in ogni cosa sgradevole, è in qualche modo una persona litigiosa e scorbutica.

8.7. Quando sono in gioco le passioni
Anche nelle passioni, quando esse sono in gioco, c’è una via di mezzo.

8.7.1. Il pudore
Il pudore, per esempio, non è una virtù, ma parliamo egualmente bene di chi è pudico perché su questo tema uno, si dice, tiene la via di mezzo, l’altro è eccessivo, e un altro manca di riservatezza.
L’eccessivo somiglia al timido, che si vergogna di tutto, chi invece manca di ogni riservatezza non si vergogna assolutamente di nulla. Il pudico è chi tiene la via di mezzo.

8.7.2. L’indignazione
Quanto all’indignazione, è una via di mezzo tra l’invidia e la gioia maligna. Quel che è in gioco infatti è il dolore o il piacere che proviamo a seconda di quello che capita agli altri. Infatti chi è portato ad indignarsi prova dispiacere per i successi degli altri quando ritiene non li abbiano meritati, mentre l’invidioso, che è un eccessivo, prova dispiacere per qualsiasi successo degli altri. Chi invece prova gioia maligna, non si dispiace proprio di nulla, ma gioisce del male altrui.
Su tutto questo però dovremo ancora tornare.

8.8. Altri casi
La giustizia, da parte sua, non può essere intesa in un solo modo; la distingueremo quindi più avanti nei due modi in cui è possibile concepire questa virtù e chiariremo in che senso si tratta di vie di mezzo. Parallelamente, tratteremo delle virtù razionali.

9. L’opposizione tra vizi e virtù
Le tendenze dell’animo umano sono quindi tre: due sono vizi, per eccesso e per difetto, e una sola è la virtù, la via di mezzo. Ciascuna tendenza si trova quindi in conflitto con le altre in una specifica maniera, perché le tendenze estreme sono sia contrarie alla tendenza intermedia sia contrarie tra loro, così come la tendenza intermedia è contraria alle estreme.

9.1. Il giusto mezzo in rapporto agli estremi 
Infatti, come l’uguale rispetto al minore è maggiore, e rispetto al maggiore è minore, nello stesso modo le tendenze dell’animo che segue la via di mezzo tra due estremi sono eccessi in rapporto ai difetti, ma difetti in rapporto agli eccessi, sia nelle passioni che nelle azioni.
Così i coraggiosi, paragonati ai deboli, sembrano temerari, ma paragonati ai temerari, sembrano deboli. E lo stesso accade per il temperante: sembra intemperante rispetto a chi è insensibile, ma in paragone all’intemperante sembra insensibile; e il generoso, se paragonato all’avaro, sembra uno che butta i soldi, ma paragonato a chi davvero butta i soldi sembra avaro.
È per questo che gli estremi spingono chi tiene la posizione di mezzo ciascuno verso l’altro, e il coraggioso, per un vigliacco, è un temerario, ma per un temerario è un vigliacco; e in tutti gli altri casi si osserva un fenomeno analogo.

9.2. Gli estremi tra loro
Ora, visto che le opposizioni reciproche sono queste, gli estremi sono molto più contrari tra loro che ciascuno di essi in rapporto al mezzo, perché sono più distanti tra loro che dal mezzo come il grande dal piccolo e il piccolo dal grande, piuttosto che entrambi dall’eguale. Certi estremi poi  sembrano presentare alcune somiglianze col centro, come la temerarietà col coraggio e la prodigalità con la generosità; invece gli estremi non potrebbero essere più differenti. Ora, le cose più lontane tra loro le definiamo contrarie. Quindi le maggiormente contrarie sono le più lontane.

9.3. Ciascuno degli estremi paragonato al centro
Quanto al punto di mezzo, l’opposto più netto a volte è il difetto, a volte l’eccesso. Così per il coraggio l’opposto non è la temerarietà. Che è un eccesso, ma la vigliaccheria, che è una mancanza. Invece per la temperanza non è l’insensibilità, che è una mancanza, ma l’intemperanza, che è un eccesso.

9.4. Ragione di questa apparente relatività
Ora, questo accade per due motivi, di cui uno deriva dallo stato stesso delle cose. Infatti, visto che uno dei due estremi è effettivamente più vicino al punto di mezzo e gli assomiglia di più, non è lui, ma piuttosto il suo contrario che noi prendiamo per opposto. Così, quel che sembra rassomigliare di più al coraggio è la temerarietà, che è in effetti più vicina; quel che somiglia di meno è invece la vigliaccheria; e quindi lo prendiamo per opposto, visto che il più lontano dal mezzo sembra essere il più contrario. Ecco dunque un primo motivo, che deriva dallo stato stesso delle cose.
Il secondo invece deriva da noi stessi. È che i versanti verso cui incliniamo di preferenza, in qualche modo per natura, sono quelli che sembrano di preferenza contrari al mezzo. Così siamo personalmente più inclini per natura ai piaceri; quindi, siamo più volentieri portati all’intemperanza piuttosto che alla moderazione; dunque, chiamiamo più volentieri contrari i versanti verso i quali il nostro orientamento ci porta di preferenza e, per questa ragione, l’intemperanza, che è un eccesso, costituisce la disposizione interiore più contraria alla temperanza.

10. Conclusioni

10.1. In sintesi
Abbiamo dunque detto che la virtù morale è una medierà, e abbiamo precisato in che senso lo è; abbiamo detto che è una medierà tra due vizi, uno per eccesso, uno per difetto; e che questo accade perché la virtù tende alla medierà sia nelle passioni che nelle azioni. Di questo abbiamo parlato a sufficienza.

10.2. Difficoltà dell’essere virtuosi 
È chiaro allora perché è una cosa impegnativa essere virtuosi, visto che, in ciascuna situazione, è impegnativo identificare e seguire la via mediana: anche prendere il centro di un cerchio non è alla portata di tutti, perché bisogna saperlo prendere. Così arrabbiarsi è alla portata di tutti ed è cosa facile, come lo è dare del denaro a qualcuno e far spese; invece farlo nei confronti della persona giusta, nella misura, nel momento, per lo scopo e nel modo giusto, ebbene questo non è più alla portata di tutti né è cosa facile. Ecco spiegato perché il bene è cosa rara, lodevole e bella.

10.3. Qualche consiglio 
Mirando alla medierà, è quindi utile prendere le distanze da quel che è più contrario e seguire il consiglio di Calipso
“fuori da questi vapori e dal vortice tieni la nave…”
Dei due estremi infatti uno porta più dell’altro verso l’errore. Se quindi stare esattamente al centro è difficile, bisogna, come si dice, “prendere la seconda via navigabile” e scegliere il minore dei mali. E il miglior modo per far questo è quello che noi indichiamo.
D’altra parte, si deve prestare attenzione alle nostre personali tendenze, perché ciascuno di noi ha proprie inclinazioni naturali. Ce ne renderemo ben conto se prestiamo attenzione al piacere e al dolore che proviamo. Il nostro dovere è orientarci in senso contrario perché allontanandoci molto dall’errore arriveremo alla via di mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti.
Ma soprattutto è necessario stare attenti a ciò che è piacevole e desiderabile, perché manchiamo di imparzialità di fronte a queste cose. Quindi quel che provavano gli anziani del popolo davanti ad Elena, anche noi dobbiamo provarlo davanti al piacere e in ogni occasione ricordare le loro parole perché, se respingiamo in questo modo il piacere, sbaglieremo meno.
Per riassumere, comportandoci così saremo nella posizione migliore per seguire la via mediana.

10.4. Casi particolari e difficili
Certo facile non è, e ci sono casi particolari in cui lo è ancora meno.
Non è facile infatti definire come, contro chi, per quali motivi e per quanto tempo arrabbiarsi! A noi stessi infatti capita di dir bene di persone troppo poco irascibili, e le chiamiamo bonarie, mentre in altri casi ci complimentiamo con coloro che reagiscono duramente e li chiamiamo virili.
Si dirà: non critichiamo di certo chi devia un po’ dalla rotta, in eccesso o in difetto; ma critichiamo chi devia molto, perché non passa inosservato. Tuttavia, fino a che punto e in che misura è criticabile? È tutt’altro che facile dare la formula per pronunciarsi su questo punto! Capita lo stesso per gli oggetti sensibili. Questo genere di dati fa riferimento a casi particolari e solo la sensibilità identifica le differenze.
Tutto questo è sufficiente a far vedere come la via intermedia sia sempre da lodare, ma anche come talvolta sia necessario orientare la rotta verso l’eccesso o il difetto, perché è così che sarà più facile raggiungere il punto di mezzo e il bene.

Note
1. In greco i termini che in italiano traduciamo con costume (nel senso di uso, consuetudine) e abitudine sono molto simili.
2. Il riferimento è alle Leggi, II, 653 ss., e alla Repubblica, III, 401.
3. Aristotele scrive nel IV secolo a.C. Milone è un atleta del VI, citato quindi come esempio paradigmatico di ginnasta che si è espresso ai massimi  livelli ed è divenuto proverbiale per la sua bravura.
4. Dei Pitagorici possiamo citare su questo punto il frammento 58 (DK).
5. Non sappiamo di chi sia questo verso, né a quale opera appartenga.
6. Anche più avanti Aristotele fa riferimento ad una tabella, ma di fatto la trattazione che segue non sembra rispondere ad una tabella delle virtù, che in Aristotele si trova, ma altrove (cioè in Etica Eudemia, B 1220).

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