mercoledì 12 aprile 2017

AUTOGOVERNO E TIRANNIDE*- Alessandro Mazzone


*Da:  La contraddizione.   145 – ott.dic.13
Questo articolo è stato pubblicato nel 1999 sul no. 73 della rivista. In questa occasione, per ragioni editoriali, pur riproponendo integralmente il corpo del testo, abbiamo ridotto il numero delle note a margine, escludendo quelle di carattere bibliografico per cui rimandiamo alla precedente versione presente anche sul sito web della rivista.


Lidea dello stato: un’analisi del potere presente


1. Perfino un liberale come Norberto Bobbio ha riconosciuto che l’at­tacco neoliberale ad ogni forma di socialismo è ormai, e sostanzialmente, un at­tacco alla democrazia tout court. Ma per chi ritiene che gli ideologemi neolibe­rali siano piuttosto figure di superficie di un processo, in cui il capitalismo tran­snazionale tende fra l’altro ad abbattere quel poco o tanto di democrazia che si è depositata anche in istituzioni negli Stati del cosiddetto Occidente (e che in un Paese come il nostro è risultato delle lotte dei lavoratori durante quattro genera­zioni) – conviene riprendere la questione alla radice.

Si tratta di domandarsi a quali condizioni sia pensabile, nel mondo attua­le, democrazia, cioè autogoverno di una comunità umana, in cui gli individui siano i luoghi dell’azione, e che promuova, anche attraverso regole e istituzioni, il miglior sviluppo dei suoi membri. E si vede allora che la questione della de­mocrazia è più ampia di quella delle istituzioni, o anche della configurazione, modalità di esercizio, limiti e scopi istituzionali di un potere di comando. Si tratta, al di là di ogni dottrina dei fini dello Stato, innanzitutto dei “fini” tout court (“ciò che si persegue per sé stesso”, come dice Aristotele in apertura dell’Etica Nicomachea), e di come questi fini possano essere comuni a molti, o a tutti. Si tratta insomma dell’autogoverno di una comunità umana in quanto tale. Questo, naturalmente, è il problema della politica da Platone in poi, in tutta la tradizione filosofica europea: di cui anche quella liberale è, certo, un elemento – ma è solo per strabismo o fanatismo che se ne vuol recidere il legame col resto, decretando che prima di Locke e Hobbes c’è il buio, che la nozione di comunità umana e del suo rapporto con la natura (cioè con la non-libertà, non-società, non-storia) va relegata tra le anticaglie, e che “siamo” tutti, moderni o postmoderni, “individui” nel senso borghese, e lo saremo in sæcula sæculorum.

Chiamo Corpus collectivum hominum et rerum [d’ora in poi: cchr] la nozione (astratta!) di una qualsiasi comunità umana, capace di riprodursi bioti­camente (riproduzione sessuata), e mediante lavoro, cioè dotata di un suo rap­porto biotopico tipico con l’ambiente naturale. L’autogoverno di ogni pensabile cchr ha, innanzitutto, un oggetto e una materia. Oggetto sono le modalità o for­me di moto della produzione e riproduzione della comunità stessa, che variano nel tempo, e che – oggi – tendono a inglobare non solo la produzione e riprodu­zione di individui umani (cioè sociali, prodotti e acculturati e dotati di modalità d’azione storicamente definite) – ma le determinanti biotiche ed ambientali di questa riproduzione. L’oggetto dell’autogoverno è idealmente coestensivo di tutte le forme di vita della comunità, ma solo nella misura in cui la comunità è effettualmente libera, può determinare sé stessa, ossia al limite non ha niente fuori di sé.1 Ma – si dirà giustamente – quante cose una comunità umana ha “fuori di sé”! La natura, per cominciare, inclusa la sua propria naturalità, etc.! Precisamente. Chiamiamo tutto questo “materia” dell’autogoverno, e abbiamo che materia dell’autogoverno è ciò che entra via via nel contenuto dei fini, che gli uomini si pongono, come materia, ossia non-volontà, non-ragione, non-posizio­ne e realizzazione di fini, ma appunto materia e condizione di quelle. La “materia” non può essere “scelta”, se non a valle della posizione di fini 2, perché senza questi fini non ci sarebbero né condizioni né mezzi della loro realizzazio­ne, e anzi la comunità sarebbe un insieme di automi.3

Questa definizione dell’autogoverno non parrà “troppo larga” a chi riflet­te a due aspetti. Uno, per così dire, comune a tutte le epoche: non posso “volere” allevare dei figli se non ne ho le condizioni soggettive (capacità, preveggenza...) e oggettive (mezzi “naturali” e “sociali” sempre, anche in una società primitiva). Il secondo aspetto, invece, proprio del nostro mondo di oggi: se è vero, come è vero, che “il pane non è prodot­to dal lavoro dei soli panettieri, ma è l’anello fi­nale di un processo complessivo”, se insomma sempre di più, man mano che progredisce la divisione sociale del lavoro, e la riproduzione sociale complessiva [rsc] è sempre più risultato dell’interazione di tutti gli elementi del cchr, allora “governo” e “autogoverno” non può che significare: gestione razionale e libera di sfere sempre più ampie della riproduzione sociale degli uomini nella natura. Ora: il procedere e globalizzarsi dell’interazione, in cui la rsc ha luogo, ha una forma di movimento, e un nome: esso si chiama modo di produzione ca­pitalistico [d’ora in poi, mpc]. E il problema dell’autogoverno della comunità, allora, diventa problema del rapporto tra lei medesima e la sua materia – che son poi le forme del mpc in quanto diventate non-volontà, non-ragione (cosid­detta mera “razionalità strumentale”), “cose” che gli uomini hanno fatto e si ergono di fronte a loro, ecc.

La classica discussione marxista del rapporto tra classi e Stato si iscrive, a ben guardare, in questo orizzonte. Al livello della teoria del modo di produzione le classi sono forme di esistenza delle forze produttive (che sarebbero infatti mera astrazione senza i rapporti di produzione in cui operano e si muovono!)4. Ma il mpc, per sua natura propria, tende a inglobare ogni forma di vita, secondo una dinamica conoscibile, e riconoscibile nei processi empirici. Ne consegue che il rapporto di produzione (di classi) è il luogo in cui figure di relazione de­terminate vengono poste e diventano possibili. Con loro divengono via via pos­sibili modi d’essere di individui e gruppi (che sono secondi concettualmente e ontologicamente rispetto alle classi); e queste figure di relazione e modi d’esse­re vengono attuate e regolate. Ma questo “attuare” e “regolare”, in quanto è posizione di fini, è autogoverno del Corpus collectivum hominum et rerum. Es­so è soggetto e oggetto a sé medesimo, (ossia libero): ma lo è nella misura in cui governa razionalmente la sua materia, e non ne è dominato. Ovvero: nella misura in cui fa di lei condizione e mezzo dei suoi fini di “libero sviluppo di cia­scuno” (secondo l’espressione del Manifesto ), divenuti possibili, e poi razional­mente posti e perseguiti.

La domanda “come è possibile governare l’economia” è priva di senso, finché “economia” è intesa e fissata appunto come meccanismo autonomo! Ma questa rappresentazione ideologica è fuori campo concettualmente da più di un secolo, grazie in primo luogo (ma non solo) a Marx; e non ha nulla a che fare né con l’analisi di ben determinati e istituzionalmente configurati mercati reali, né, a maggior ragione, con il discorso teorico rigoroso.

La domanda di principio è invece: come è pensabile, in un certo grado di sviluppo della rsc in forma capitalistica, l’autogoverno del cchr, ossia la sfera della posizione di fini (nel linguaggio di Hegel: “Spirito”, o “seconda natura”), rispetto a ciò che non sempre è stato, ma è ormai diventato , “materia”, mezzo e condizione di realizzazione di fini umani (nel linguaggio di Hegel, “Natura”, o “prima natura”). In Marx, come in Hegel, hai una filosofia della libertà, cioè dell’autogoverno del Corpus collectivum. In entrambi, beninteso, l’individuo resta sempre il luogo dell’azione (non, invece, il cosiddetto singolo: non si na­sce singoli se non in quando esseri biologici, individui di specie; e si diventa singoli nella vita sociale, tanto più se ne fa propria, attivamente, e tanto più ci si “singolarizza”). Le differenze sono altre, e le vedremo brevemente.

2.  Hegel sa che “volontà” è essenzialmente “pensiero”, e, nello svolgi­mento sistematico, “ragione”. Nella Filosofia del diritto e, in genere, nello Spi­rito obiettivo, questa volontà-pensiero-ragione è la sfera dell’autogoverno del Corpus collectivum secondo fini comuni. Questi sono universali per la forma (come già in Kant): ma la loro “materia” (determinazione dell’individuo che è volizione, e per cui esso si fa “singolo”, universale riflesso in sé), è ora assunzione-negazione (infinita) di contenuti storici. Questi contenuti non hanno esi­stenza “fuori” dell’agire: così, p. es. una legge positiva non conosciuta e ricono­sciuta nelle coscienze non è una legge. L’individuo è il luogo dell’agire, ma nel­la forma universale. É ormai riconosciuto il debito di Hegel verso Rousseau; ma va detto anche che la teoria hegeliana dello Stato, e della possibilità e realtà sol­tanto processuale di fini comuni non si riduce alla mera critica del dover-essere kantiano, ma attraverso questa (e proprio nelle affermazioni più “scandalose”: lo Stato “realtà effettuale dell’Idea etica” [FD, § 257], etc.) – la teoria hegeliana of­fre una soluzione del problema rousseauiano: come è possibile la volonté générale, che non può essere sommatoria di diversi, mera volonté de tous? Lo “Stato” è assunzione-negazione, superamento della determinazione naturalisti­ca, che è di per sé pre-razionale e solo può esser fatta immagine e somiglianza della ragione [FD, § 18 et al.]. E noi, va detto subito, ritroviamo questa dialetti­ca nella nozione di naturwüchsig [naturalmente cresciuto], e del suo supera­mento, nel Capitale.

Hegel rifiuta anche ogni identificazione dello Stato con la società civile, mero “Stato dell’intelletto e della necessità” – non della libertà. Non solo: come meglio intendiamo oggi (dopo il lavoro di Ilting, Henrich, Losurdo etc.): la so­cietà civile è incapace di autoregolazione, produce gli estremi della ricchezza e del pauperismo, la “plebe”, che non è solo privata della sussistenza, ma anche di dignità e cittadinanza (mentre “essere cittadino” è il “supremo dovere” - FD § 258). C’è di più: questa incapacità di autoregolazione, proprio perché (come no­tò Marx) “Hegel è all’altezza dell’economia politica moderna”, cioè di Smith se non di Ricardo, importa che la autoattuazione del Corpus collectivum (della “se­conda natura” che si instaura sulla prima e la plasma secondo la sua forma, quella della libertà-pensiero-ragione) non possa aversi nella logica del “si­stema dei bisogni” e della società civile in genere. Con i suoi mezzi e nel suo linguag­gio, il filosofo aveva visto lontano: i “limiti della competitività” [cfr. Gruppo di Lisbona, 1995] stanno nel suo esser “natura”, “spiriti animali del capitalismo”. Il carattere feticistico delle “leggi dell’economia politica borghese” consiste (per Marx) nella loro pretesa “eternità” – cioè nel presentarsi appunto come “na­tura” – obliterando la dimensione di produzione umana (sociale, scilicet) di una “seconda natura”, che ha un suo decorso e un suo limite, oltre il quale essa di­venta irrazionalità.

3.  Anche la pluralità “naturalistica” degli Stati (in lotta tra loro come in­dividui naturali, cioè in guerra), realisticamente vista da Hegel, è strettamente collegata al “punto di vista dell’economia politica moderna”, della Ricchezza di Nazioni individue. Il “sistema dei bisogni” è infatti affinamento/moltiplicazione dei lavori e dei bisogni, divisione del lavoro, mediazione del lavoro diviso nello scambio [FD, § 60 s.: “valore”]. Ma la società civile è perciò stesso concettual­mente intermedia tra famiglia e Stato vero e proprio: è un “infinito” bensì, in quanto attraverso il suo momento negativo si attuano le capacità potenziali degli individui umani, il principio moderno dell’infinito valore dell’individuo. Non è, e non può essere, fine ultimo, cioè autosufficiente e autofondante.

Per intendere questa posizione della società civile hegeliana nell’archi­tettura dello “spirito obiettivo” non è adeguato, il richiamo (che pur si è fatto), alla fase manifatturiera della Rivoluzione industriale, presente in Smith e, certo, anche in Hegel. Il problema è ben altro: il rapporto della “seconda natura” cioè della libertà-pensiero-ragione alla determinazione naturalistica e violenta è pen­sato da Hegel come superamento parziale e non-concluso della “natura” nello “spirito”. (Perciò poi anche il passaggio necessario, riguardo all’unità dello svolgimento filosofico, e dunque coerente, alla dimensione quasi-intemporale dello Spirito Assoluto).

Il rinvio alla fase manifatturiera è, anzi, fuorviante. Si tratterà piuttosto degli elementi fisiocratici, presenti pure nella Ricchezza delle Nazioni: in Hegel, il lavoro del “ceto sostanziale” [FD, § 203], è bensì nel “terreno naturale” e pone scopi: ma senza infinità positiva del produrre – quindi non è pensabile qui scienza come forza produttiva, né le scienze della natura compaiono come mo­mento specifico dello Spirito oggettivo. Analogamente, e non per caso, è fuor­viante la lettura del capitolo XII del Capitale come descrizione cronologica, dimenticando che la negazione della piccola produzione contadina e artigiana è fenomenica rispetto all’infinitazione del produrre che si ha con il “modo di pro­duzione capitalistico vero e proprio”. (Mi limito a questo cenno: la polemica contro lo “storicismo invertebrato” nella lettura di Marx è stata fatta adeguata­mente, anche in Italia).

4.  Se rileggiamo la teoria hegeliana dell’autogoverno razionale e libero della “seconda natura” in rapporto alla “prima”, ma ora a partire dal Capitale, ci rendiamo conto di come il concetto di una forma di movimento forze produttive-classi sconvolga da cima a fondo l’architettura della Filosofia del diritto – senza che l’idea dell’autogoverno venga per questo abbandonata. È modificato infatti tutto lo sviluppo da “individuo” (vivente naturale, solo in sé, o poten­zialmente, “uomo”) a “singolo” (“persona”, “soggetto morale”, “cittadi­no”), e dunque anche tutta la configurazione della realtà storica-sociale ovvero (sola) propriamente umana, ovvero ancora Spirito. Il “potenzialmente umano” si allon­tana nelle “età primeve” [Capitale, I, cap. V,1]: e il lavoro è il luogo della mediazione di finalità e datità oggettiva in genere (cioè delle determinazioni via via acquisite e trasformate di una “natura” e un “mondo”). Perciò il lavoro in abstracto non è “produzione” [ivi]: ma nella storia reale del lavoro, nelle sue figure sociali, hai la mediazione di teleologia e mezzo, ragione e natura in genere. Con ciò è travalicata anche la pluralità degli Stati come corpi politici, luoghi e realtà dell’autogoverno, sia pur parziale, del Corpus collectivum. L’au­togoverno (o libertà, o comunismo) resta parziale: ma il suo limite muta statuto categoriale: è la “linea di scorrimento” (infinita) del fondamento che congiunge necessità e libertà [secondo un luogo ben noto di Capitale III, cap. 48, su cui torneremo]. Le “leggi” quasi-naturali della rsc in forma capitalistica, proprio perché non-atem­porali, si presentano come “natura” (e sono percepite e rappre­sentate come “natura umana” etc.): ma in due aspetti diversi, e idealmente suc­cessivi. In quanto sono state e sono rapporti di produzione in cui la finalità, ine­liminabilmente inerente a lavoro umano, si attua e si espande. E, però, in quanto diventano “prima natura”, – ossia vengono ormai a costituire ciò che non da sempre poté, ma grazie allo sviluppo soggettivo e oggettivo ora può esser supe­rato nello “spirito”, hegelianamente parlando. In altre parole, l’elemento quasi-naturale della “seconda natura”, il processo di riproduzione in quanto obiettivo, può esser fatto, a un certo punto, momento interno dell’autoattuazione razionale del Corpus collectivum – e dunque, della sua libertà.

Questa “natura” non-governata , però, non sta, architettonicamente, “alla fine”, come nella Filosofia del diritto – la “naturalità” degli Individui-Stati, dun­que la guerra tra di loro (al di là della quale ci può esser solo la storia come “giudizio cosmico-mondiale”, e la dimensione sovraetica dello Spirito Assoluto, perciò stesso atemporalmente “presente”).

La sfera di ciò che non è sussunto nella ragione-libertà sta invece, dopo il Capitale di Marx, all’inizio. É un inizio sempre rinnovato, il presupposto-posto dell’azione razionale e libera – almeno per tutto l’arco idea­le della tempo­ralità del Modo di produzione capitalistico. Ma è un inizio, un terminus a quo. (Questo, del resto, può essere il solo senso non metaforico di base e sovrastrut­tura nel capitalismo). Lo svolgimento epocale del mpc rende possibile che “i produttori associati ... regolino razionalmente il ricambio organico con la natura con il minor impiego [via via] possibile di energia e in condizioni più adeguata alla loro umana natura e più degne di essa”.

Alla fine del XX secolo, “naturale” vuol dire più che mai, e molto più di quando Marx scriveva: non-razionale, non-governato, limite all’autogoverno (ovvero alla libertà, allo “sviluppo di ciascuno come condizione dello sviluppo di tutti”, etc.). E vuol dire insieme, e pure grazie allo sviluppo epocale del mpc, sconvolgimento tanto della vita sociale globale che dell’intera biocenosi in cui lo Homo sapiens sapiens è venuto a prodursi ed operare (ossia, in termini biolo­gici, nel modestissimo arco di tempo di poche decine di migliaia di anni).

L’autogoverno è urgente. Ed è possibile, in sé. Non per sé, evidentemen­te. Ma per pensare questo per sé occorre passare attraverso un’altra conseguen­za concettuale dello “sconvolgimento” che la nozione di forze produttive-classi portava nell’architettonica della Filosofia del diritto. Ed è necessario farlo, perché attraverso la nozione di autogoverno del Corpus collectivum, la nozione di “seconda natura” come superamento della prima, la nozione di razionalità e diritto come libertà, è tutta la lezione hegeliana che passa in Marx (o almeno, nel Marx autore del Capitale); e attraverso di lei, quella di Rousseau e di Kant. É la concezione della libertà come posizione e attuazione di finalità. La conce­zione della volontà generale come attuazione processuale di un pensiero-ragione che è per sua natura, come il Denken hegeliano, d’emblée transindivi­duale, forma di moto generale, forma dunque anche degli scopi comuni, che di­ventano possibili per gradi e in configurazioni definite, pur restando sempre l’individuo luogo dell’agire.

5.  L’eticità, scrive Hegel [Enciclopedia, § 513]), è il concreto, la “verità dello spirito soggettivo e oggettivo” – e dunque di tutte le figure pregresse; com­presa la “persona” e il “soggetto” o coscienza morale. Ma se ricordiamo che la nozione (marxiana) di “classi” non è un descrittore sociologico, e non ha nulla a che fare con “gruppo” etc., vediamo subito anche che la “divisione in classi” è ben altro che un limite all’eguaglianza e alla libertà rousseauiane (o anche delle Rivoluzioni borghesi); ben altro che un’antitesi esterna a quelle libertà ed egua­glianza, che ne sbugiardi la parzialità o anche ne sanzioni la limitatezza cosid­detta “storica” (?!).

La divisione in classi (e nelle due classi fondamentali del mp moderno) è inerente alla determinazione lavorale (e qui: valorale) tanto del modo di produ­zione immediato, che della Riproduzione sociale complessiva, di cui il primo è “momento dileguante” sì [Grundrisse, p. 600], ma ineliminabile realmente e concettualmente. Allora: senza “classi” non può essere pensata (in senso stretto: non può essere concepita, modellizzata, conosciuta razionalmente) la riprodu­zione complessiva del Corpus hominum et rerum, in tutte le sue dimensioni. (Se il medium concettuale di “natura” e “storia” è lavoro, il luogo concettuale del “processo storico-naturale” è la “rsc”).

“Verità dello spirito soggettivo e oggettivo” voleva dire in Hegel: l’etici­tà è la sfera in cui tutte le determinazioni pregresse hanno il loro svolgimento effettivo: dunque tanto la “natura” che lo “spirito soggettivo” – cioè lo esser-diventa­to-umano – che deve esser pensato come lo in sé di quello in sé e per sé, cioè dell’azione sociale-umana libera, e dei suoi gradi e avanzamenti sulla non-libertà “naturale”.

Proviamo a riformulare. Tutto il processo attraverso cui costantemente, nel cchr, si producono “individui umani con i loro rapporti” [Grundrisse, l. cit.]; ossia, ancora, il processo della rsc nei suoi momenti, compreso il processo di produzione immediato etc. – questo processo tutt’intero è in ogni istante luogo dell’egemo­nia di classe nella rsc in forma di moto determinata (quella del mpc in primo luogo). Egemonia come rapporto di classi vuol dire innanzitutto: sono le classi che “si dànno” Stati, istituzioni, forme di organizzazione della produ­zione di “individui e rapporti tra loro” – poi anche, per es., scuole, o partiti, o movimenti etc. etc.

Ancora: se l’egemonia è rapporto di classi, essa è modalità dello svolgi­mento totale delle forze produttive, e dunque anche della produzione e riprodu­zione della forza produttiva principale – gli uomini stessi. Ma allora: questa ri­produzione va intesa e riconosciuta in configurazioni e secondo stadi definiti (come anche la riproduzione economica, del resto). Ed è a questo livello che si pone – a mio giudizio – il problema.

Tanto il problema analitico delle forme e trasformazioni e gerarchizza­zione degli Stati, del loro relativo assoggettamento e trasformazione in “agenzie regionali” nel capitalismo internazionalizzato e mondializzantesi; quanto anche il problema dell’esplorazione delle contraddizioni attuali (cioè poi effettive, non disegnate a tavolino) del processo di riproduzione complessiva, in forma, non solo di mpc in generale, ma poi di corpi particolari, Stati e subStati capitalistici. Per questa via, se sapremo farlo, si arriverà anche a determinare luoghi possibili di opposizione alla tirannide.

6.  Di “tirannide” di deve parlare, almeno per sei motivi.

Primo. Il bisogno è tendenzialmente superato su scala mondiale, la pro­duzione è sovrabbondante (non, naturalmente, la domanda solvente di merci!)

Secondo. La attuale “borghesia transnazionale” non può sensatamente esser anche solo paragonata alle borghesie storiche come enti sociali corposi, forme di vita, espansività sociale, universalizzazione relativa. Essa è dominante, ma non può chiamarsi “dirigente”, secondo questi criteri, che (come Gramsci mostrò) sono appunto criteri storici, non meramente sociologico-politici, cioè criteri di egemonia. 

Terzo. Il superamento relativo degli Stati nazionali si accompagna a uno smantellamento della citoyenneté , cioè dell’universalità politica in senso pro­prio (con e senza limiti formali!). Ciò tanto per il lato istituzionale, quanto per quello della coscienza (manipolazione).

Quarto. La produzione immediata di uomini (allevamento; accultura­mento sia familiare che scolastico diventa (soprattutto nelle metropoli) elemen­to della valorizzazione del capitale (merci di massa, ma anche “produzione im­materiale”). Ma contemporaneamente tendono a diventare “superflue” intere masse di poten­ze sociali (cultura; lingua nazionale; coscienza civica nelle sue forme storicamente progressive). La valorizzazione richiede “teste d’opera”, non “cittadini medi”. Oltre alla cittadinanza politica, si smantella così quel­la so­cioculturale. La “plebe” hegeliana viene riprodotta in massa e secondo finalità precise, in tutto o in parte obiettivamente inerenti a questa figura di rsc.

Quinto. La segmentazione della classe operaia non ha luogo soltanto nella dimensione geografica e territoriale, ma anche nelle forme del localismo neocorporativo, con corrispondenti forme di regressione della coscienza (etnicismo, etc.).

Sesto. Lo squilibrio tra cittadinanza politica “svuotata” (manipolazione, “dialettica della notizia”5; abolizione de facto della trasparenza dei processi, quindi della citoyenneté repubblicana; ossia, “abolizione del popolo”, e invece “gente”, cioè in realtà “neoplebe”) da una parte, e percezione possibile dei feno­meni translocali (e comunque di fenomeni del processo complessivo, e non di frammenti sconnessi ossia parvenza “scandalosa”, “sensazionale”, “emozionan­te” etc.) – questo squilibrio è sistematicamente promosso e imposto, non solo nella mediatica di servizio, ma nelle istituzioni della società (sindacati, partiti, associazioni), nella cultura (cinema, etc.), nell’insegnamento (riforme funziona­li alla “religione del mercato” nella scuola e Università, etc.).

Questi sono, pare a me, fenomeni diversamente pronunciati in Paesi di­versi, ma indicativi di una tendenza complessiva. (Rispetto alla quale, beninte­so, il neoliberalismo è mero epifenomeno: e infatti, la sciocca e ignobile parola d’ordine della “fine delle ideologie” ha proprio qui un suo nocciolo di verità. “Neolibe­rali­smo” non designa affatto una ideologia di massa in sé coerente, ma un coacervo di frasi, di idées reçues utilizzabili caso per caso. É esso stesso un aspetto della disgregazione indotta della coscienza civile e politica).

7.  Se la tirannide moderna è praticabile, si può dire, avrà avuto parados­salmente “ragione” il vate della “Radura dell’Essere” nelle dolci colline, vicine ai tesori barocchi della Svevia e del Baden, là nella Foresta Nera. Almeno nel senso che, sì, la tecnica si rivela ingovernabile, la ragione è sconfitta, e “solo un dio potrà salvarci”. Martin Heidegger, come si sa, non manca di imitatori, se­guaci, nipoti e nipotini. I quali sembrano ignorare in genere la posta in gioco – come il loro maestro, peraltro, quando credette di formulare la sua protesta con­tro il “malo invio dell’Essere”, “metafisica” e “tecnica” conseguente, radicaliz­zando in senso irrazionale la Kulturphilosophie dell’altra svolta di secolo: e pri­vandosi così della possibilità di scorgere, in termini filosofici, la dimensione processuale di cui il nichilismo era la concettualizzazione fenomenica al livello astratto dell’autocoscienza e del suo fondamento.

Ma la concettualizzazione astratta tende per sua natura a estrapolare il fenomeno dal moto processuale. “Tecnica” e “uso capitalistico della tecnica” son due cose diverse. E inoltre, anche la tecnica del dominio tirannico può esse­re studiata e intesa.

La tirannide del capitale “globale” non può riprodurre borghesie “organi­che” né nelle metropoli, dove esse anzi s’assottigliano, né tanto meno nei Paesi della periferia, o in quelli in cui è stato abbattuto il protosocialismo “reale”. Le forme del dominio – dalla manipolazione alla violenza bellica – possono perpe­tuare il dominio, bloccare la vita associata, forzarla alla decadenza anche pro­lungata. In ciò, nihil novi sub sole. Sarebbe strano, e veramente “nuovo”, che il dominio di per sé si facesse piena e progressiva egemonia, forma almeno relati­vamente progressiva di svolgimento del corpus collectivum nelle sue configura­zioni e istituzioni, sviluppo degli individui e delle società sulla base di ciò che è diventato possibilità reale, e perciò attuazione e ampliamento di potenzialità sociali-umane.

Il compito, per noi, mi pare esser piuttosto quello di riprodurre, all’altez­za del tempo attuale, l’analisi del­l’intero spettro della riproduzione sociale com­plessiva, e delle forme di egemonia. Dobbiamo indagare come è fatta la catena – e molto qui è il lavoro da fare – prima di poter forse individuare un’altra volta, se c’è, un qualche anello su cui far presa davvero – al di là di ogni pur giustifica­ta denuncia e deprecazione.

La tirannia moderna può dominare, manipolare, bombardare, sterminare. Ma non può “risolvere praticamente” il problema posto da Rousseau, diversa­mente risolto da Hegel e poi da Marx, e divenuto frattanto tanto più maturo nel­le cose: l’autogoverno razionale della comunità umana. Per questo, mi sembra, tutto quel che è “ragione”, “dignità umana”, “cultura”, e (ovviamente) “demo­crazia”, è oggi sotto attacco, e si trova obiettivamente dalla stessa parte. Anche il mostrare questo sarà un lungo lavoro. Ma non inutile, e non vano. 

Note

1 Qui va tenuto fermo (con Marx ed Engels, Ideologia tedesca, in Opere complete , vol. V, p. 37, che "la storia" non fa nulla, ma "gli uomini" fanno, etc. - ossia, filosoficamente: che l'individuo è il luogo dell'azione, anche se l'azione ha forme transindividuali (p. es. linguaggio, pensiero ...). Questo principio è secondo me sufficiente a fondare filosoficamente le "garanzie" e le co­siddette "libertà positive" e "negative" di cui discorrono i teorici liberali, spesso postulandole come "valori" trascendenti e/o arbitrariamente convenuti. Cfr. anche la Bibliografia in calce al saggio cit. di L. Sichirollo.
2 Ciò si vede, in Hegel, già nella teoria dell'"intenzione", che specifica il "proposito" sia rispetto all'autodeterminazione del volere razionale, sia rispetto alle sue condizioni, mezzi e conseguen­ze, che il "soggetto morale" (individuale), deve conoscere e dominare - ma può sempre farlo so­lo parzialmente, mai nella totalità della loro connessione obiettiva. V. Filosofia del diritto, §§ 115-128; Enciclopedia , § 504 ss.
3 La continuità tra Kant e Hegel è qui palese. Cfr. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, [ed. Weischedel, IV, 41], definizione del "volere" come "facoltà di agire secondo la rappresen­tazione di leggi", e Hegel, Filosofia del diritto § 11, il "volere immediato o naturale": entrambi sono gradi ontologici al di là della legalità meccanica ("naturale"). D'altra parte, se Hegel cono­sce l' "istinto" come "relazione di scopo inconsapevole" (Enciclopedia, § 360 A), già Kant pole­mizza contro la riduzione cartesiana degli animali a "macchine" in Critica del giudizio, § 90, no­ta, sebbene, ovviamente, entro i limiti di una semplice "analogia".
4 Il livello delle configurazioni ("storiche"), cioè dei singoli e diversi capitalismi, p. es. nazionali, ecc., è secondo , rispetto a quello della teoria del mpc: infatti è solo grazie a questa teoria, o modello di processo, che quei capitalismi diventano modellizzabili, analizzabili etc. - e la loro conoscenza effettiva può anche portare a modificare il modello "puro", come in ogni indagine scientifica.
5 Il termine è di U. Sonnemann, e indica la tecnica manipolatoria delle “notizie” pseudopolitiche e pseudosociali offerte senza contesto e nesso con i processi, come "eventi": per cui il lettore (uditore, spettatore) “è informato di tutto, e non sa nulla”.

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