Le mutazioni
strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella
transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione,
hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare
la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua
subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un
riacutizzarsi dello scontro interimperialistico.
Dalla fase
multinazionale a quella transnazionale
Il passaggio all’attuale fase transnazionale
dell’imperialismo, che incomincia agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione
dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti
trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale
(1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di integrazione
sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci
di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali
nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali.
Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli
investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense
impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti
all’estero (ide) delle sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti
organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la
ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.
La forma multinazionale permette al capitale produttivo,
attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti
del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di
circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una
localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della
frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema
capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il
grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione
annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric
Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva
di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di
welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di
favorire un compromesso fra le classi. Le conquiste ottenute dal proletariato
sono frutto di un rapporto dialettico fra le lotte condotte nei centri
dell’imperialismo negli anni ‘60 e ‘70 e la favorevole fase di espansione del
modo di produzione capitalistico. Quando il ciclo accumulativo verrà meno lo
“stato sociale” inizierà a essere smantellato.
Nella fase transnazionale la novità è data dal fatto che
proprietà e direzione di monopoli e grandi imprese sono formate da capitali
provenienti da differenti paesi uniti alle dipendenze di una struttura
direttiva unica indipendente dallo stato nazionale. L’obiettivo di queste
imprese è il mercato mondiale (restaurato nella sua totalità dopo la caduta
dell’Urss e la transizione al capitalismo della Cina). Siamo di fronte a una
“trasversalità” dei capitali che si dislocano attraverso le filiere produttive
e finanziarie in una lotta con i capitali avversari [1].
Di fronte alla crisi il capitale deve ridefinire la
divisione internazionale del lavoro e perseguire una valorizzazione, non più
realizzabile nel mercato interno, attraverso gli ide, i prestiti ai “paesi in
via di sviluppo” (coi quali i debiti, di fatto irrecuperabili, si
trasformeranno in proprietà di capitali reali tramite la privatizzazione delle
aziende pubbliche dei paesi debitori) e la speculazione.
Forza-lavoro e materie prime a prezzi vantaggiosi dei paesi
subordinati della gerarchia imperialistica, permettono profitti superiori,
inoltre l’esportazione di una parte del capitale dai centri dell’imperialismo
favorisce la disoccupazione e l’ampliamento dell’esercito industriale di
riserva all’interno, con conseguente abbassamento dei salari e aumento del
saggio di plusvalore. Va però ricordato che le esigenze degli ide e quelli
della speculazione sono diverse e in una fase di accentuazione della crisi i
primi crescono meno dei secondi [2].
Sul piano produttivo abbiamo il toyotismo caratterizzato da
una produzione su enorme scala con linee di montaggio decentrate, ma molto più
grandi di quelle fordiste. La produzione è divisa all’interno della rete e delle
filiere in settori di produzione sparsi e frantumati. È la nuova dimensione
transnazionale finanziaria del capitale che permette di controllare un
decentramento e una frammentazione della produzione più conveniente per il
capitale. Si tratta di realizzare una doppia flessibilità di lavoro e macchine
completata poi dalla flessibilità del salario. Importante tener presente, di
fronte alla vulgata dominante, che non vi è un processo di
“deindustrializzazione” (se non quello determinato dalla chiusura per crisi):
il lavoro salariato, flessibilizzato e precarizzato, costituisce la base del
modo di produzione capitalistico in forme ancora più ampie rispetto al passato.
La produzione viene trasferita verso aree del sistema imperialistico con salari
più bassi, meno sindacalizzate, con una buona specializzazione del lavoro.
Mentre la fabbrica fordista poteva favorire la resistenza di classe, in quella
toyotista questa resistenza è frammentata sul piano del luogo produttivo, delle
differenze salariali e della forza di ricatto dell’esercito industriale di
riserva.
Varrebbe la pena riflettere sul concetto abusato di
“delocalizzazione”, termine mutuato dall’ambito della fisica quantistica e
relativistica, dove indica una particella divenuta priva di una localizzazione definita
essendo impossibile determinarne contemporaneamente quantità di moto e
posizione, per cui si perde l’individuabilità della sua localizzazione (cosa
che funziona bene con le operazioni speculative del capitale fittizio), se mai,
come suggerito da Gianfranco Pala, è più sensato “dislocazione”, visto che il
luogo della produzione resta eccome. Ma in fondo che il lavoro e il valore
prodotto dalla forza-lavoro debbano essere fatti passare per “aleatori”,
“incorporei” e “senza luogo” paradossalmente (se i fruitori del concetto
“delocalizzazione” ne conoscessero l’origine “quantistica”) renderebbe il
termine ancora più adatto per l’ideologia capitalistica. Sotto un altro
aspetto, sempre in quest’ottica paradossale, andrebbe forse bene anche per
quelle teorie sul “capitale cognitivo”, in cui vi è la tendenza ad associare il
lavoro (o un segmento specifico di esso) all’“immaterialità” (che in quanto
tale non dovrebbe avere un luogo).
Se questa è una fase di riacutizzazione dello scontro
interimperialistico, il capitale è pur sempre unito contro il comune nemico di
classe. Bisogna scardinare le rigidità – sul piano dell’organizzazione del
lavoro, dell’occupazione, delle pensioni, dei meccanismi di indicizzazione dei
salari – frutto delle lotte a cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70 e di dar vita a
una nuova flessibilità tramite riduzione dell’occupazione stabile, dislocazione
produttiva, riduzione della quota fissa del salario, moltiplicazione delle
tipologie contrattuali e un aumento dell’intensificazione del lavoro collegata
con le nuove tecniche di produzione basate sulla rivoluzione informatica e
sull’automazione del controllo. I capitalisti sanno perfettamente quanto sia
determinante la centralità del lavoro: “la riduzione della manodopera viene
operata per qualificare al massimo il lavoro in senso produttivo, per
raggiungere il rapporto più proficuo tra il numero di addetti e le merci da
produrre. L’ideale è ottenere un 100 per cento di lavoro che aggiunge
valore”[3].
Come ricordato da Taiichi Ohno, padre del toyotismo, in un
suo scritto del 1978, non è neppure indispensabile, di fronte a
un’intensificazione del controllo sul lavoro, una ristrutturazione tecnologica
radicale. L’obiettivo è l’aumento dell’intensità del lavoro e non della
produttività (in parte necessariamente presente, ma non al punto di poter
parlare di una tecnologia “superiore”), è decisivo riorganizzare il processo
produttivo in modo da far avvicinare il tempo di lavoro a una coincidenza col
tempo di produzione. L’ideologia dominante ha provato a spacciare la
multifunzionalità dell’operaio all’interno del sistema Toyota come un recupero
del controllo del lavoratore sull’uso della propria forza-lavoro. In realtà
l’obiettivo è semplificare al massimo le funzioni ricorrendo a una standardizzazione
accentuata che permetta un’eliminazione dei tempi morti. Utilizzare più
macchine in sequenza non porta a un recupero del controllo sul proprio lavoro,
ma a un aumento della sua intensità, con l’applicazione di un solo lavoratore a
più macchine tramite l’esplicazione di funzioni semplificate ed eterodirette,
con correlata disintegrazione delle
conoscenze specialistiche dei lavoratori addetti a un determinato reparto che
comportavano ancora una certa conoscenza e un controllo, per quanto parziali, del
processo produttivo.
Note
[1] Cfr. M. Donato - Gf. Pala, La catena e gli anelli, La
Città del Sole, Napoli 1999.
[2] Sulla lotta interna al capitale fra le differenti forme
di appropriazione del plusvalore cfr. K. Marx, Il capitale, libro III, § 23.
[3] T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino 1993, pp.
84-5.
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