lunedì 4 marzo 2019

MMT, Minsky, Marx e il feticcio del denaro - Michael Roberts

Da: https://www.lacittafutura.it - Michael Roberts works in the City of London as an economist.  Articolo apparso sul blog dell’autore il 26/02/2019 - 
Traduzione a cura di Alessandro Bartoloni - Le enfasi (grassetti e corsivi) quando non diversamente specificato sono del traduttore. 



Le vecchie teorie alla base della MMT vengono riprese anche da importanti uomini della finanza in quanto funzionali alla creazione di bolle speculative che avvantaggiano i più ricchi. 

Recentemente l'ex vice governatore della Banca del Giappone (BoJ), Kikuo Iwata, ha sostenuto che il Giappone deve aumentare la spesa fiscale tramite l’aumento del debito del settore pubblico finanziato dalla banca centrale. Questo ex governatore sembra aver adottato la Teoria della moneta moderna (Modern Monetary Theory, MMT), o almeno una versione keynesiana del deficit spending come una risposta ‘radicale’ (o disperata?) al continuo fallimento dell'economia giapponese, incapace di crescere ad un tasso anche solo vicino a quello pre-crisi. 

Gli ultimi dati sull'economia giapponese fanno davvero tristezza. La migliore misura dell'attività nel settore manifatturiero, l’indice degli acquisti nel settore manifatturiero (PMI Nikkei), è sceso a 48,5 nel febbraio 2019, il dato più basso da giugno 2016, poiché sia ​​l'output che i nuovi ordini sono diminuiti a ritmi più rapidi. Nel frattempo, la fiducia delle imprese si è indebolita per il nono mese consecutivo. Nel quarto trimestre del 2018, la produzione nazionale del Giappone ha ristagnato. La crescita è stata nulla rispetto a quella di fine 2017. Questo comparato ad un tasso medio di crescita annua che dagli anni ‘80 è del 2%.
Iwata era in origine l'architetto del massiccio programma di acquisto di titoli della BoJ soprannominato “allentamento quantitativo e qualitativo” (quantitative and qualitative easing - QQE) che avrebbe dovuto stimolare l'economia attraverso una massiccia iniezione di moneta. Ma sebbene il governo giapponese abbia continuato a produrre deficit di bilancio pubblico, ciò non è servito a rilanciare la crescita nominale del PIL o i redditi reali delle famiglie.
Il PIL pro capite del Giappone è in aumento, ma solo perché la popolazione è in declino e anche la forza-lavoro. Il reddito personale disponibile non è cresciuto così velocemente come l'economia nel suo insieme in molti anni, un punto percentuale in meno rispetto alla crescita media del Prodotto nazionale lordo dalla fine degli anni '80. Il Giappone può avere una “piena occupazione”, ma la percentuale della forza-lavoro impiegata su base temporanea o part-time è salita dal 19% nel 1996 al 34,5% nel 2009, insieme ad un aumento del numero di giapponesi che vivono in povertà. Secondo l'OCSE, la percentuale di persone in Giappone che vivono in povertà relativa (definita come quelli che percepiscono un reddito inferiore al 50% della mediana) dal 12% della popolazione totale nella metà degli anni '80 è passata al 15,3% negli anni 2000.
La risposta di Iwata alla “stagnazione secolare” del Giappone è di continuare con i deficit e le spese statali, ma questa volta finanziandola semplicemente stampando denaro, non emettendo obbligazioni [da collocare sui mercati finanziari, ndt]. “Le politiche fiscali e monetarie devono funzionare come una cosa sola, in modo che vengano spesi più soldi per le misure fiscali e il denaro totale destinato all'economia aumenti di conseguenza”. Questa è l'unica opzione politica rimanente poiché “l'attuale politica della BoJ non ha un meccanismo per aumentare le aspettative di inflazione. Abbiamo bisogno di un meccanismo in cui i flussi di denaro verso l'economia siano diretti e permanenti”. Gli acquisti di obbligazioni della BoJ non funzionano, perché le banche accumulano denaro in depositi e riserve e non in prestito. Perciò devono essere ignorate, dice Iwata. 

domenica 3 marzo 2019

IL GRANDE IMBROGLIO SUL VENEZUELA - Pino Arlacchi

Da: http://www.pinoarlacchi.it/ - Pino_Arlacchi è un sociologo e politico italiano. 
Uno studio controcorrente

Nel momento in cui il supremo teorico della guerra non-occidentale, Sun Tzu, affermava  che l’ arte della guerra si basa sull’ inganno esistevano solo le guerre dichiarate e combattute con le armi della violenza fisica.

Ma l’ insegnamento del teorico cinese era abbastanza profondo da dimostrarsi valido anche oggi, in tempi di guerra coperta, non convenzionale, combattuta con le armi dell’ economia e soprattutto della finanza. Dove l’ inganno consiste nella disinformazione e la disuguaglianza tra le parti contrapposte si basa sul possesso o meno dei mezzi di disinformazione di massa.

Se c’è una lezione che ho imparato dirigendo una parte non trascurabile dell’ ONU è che, nelle cose del mondo, la verità dei fatti raramente coincide con la sua versione ufficiale. Anche in tempi di pluralismo informativo come i nostri, le idee dominanti  - come diceva il vecchio Marx – sono ancora                                                                                                                      quelle della classe dominante. Che rivolta cose e fatti a suo uso e consumo 
Dietro ogni guerra c’è una menzogna.

E quello del Venezuela si configura oggi come un caso di guerra non convenzionale coperta da una gigantesca truffa informativa.

Chiunque abbia voglia di documentarsi  sulla crisi  del Venezuela consultando fonti diverse dalla vulgata prevalente farà fatica a mantenere la calma. Perché si scontrerà ad ogni passo con una narrativa falsa, omissiva e distorta. 

Il principale mito da sfatare riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano, unanimemente attribuite dai media occidentali al malgoverno degli esecutivi “socialisti” succedutisi al potere dopo il 1998, data dell’ elezione del “dittatore” Chavez alla presidenza.

“Dittatura” confermata da 4 elezioni presidenziali e 14 referendum ed consultazioni nazionali successive, e condotta sotto il segno di uno strappo radicale con la storia passata del Venezuela: i proventi del petrolio sono stati in massima parte redistribuiti alla popolazione invece che intascati dall’ oligarchia e imboscati nelle banche degli Stati Uniti. 

sabato 2 marzo 2019

Antropologia, dialettica e struttura. - Stefano Garroni

Da: Stefano Garroni, Dialettica riproposta, a cura di Alessandra Ciattini, lacittadelsole.
Stefano_Garroni è stato un filosofo italiano. 


Nel suo scritto “Système, structure et contraddictions dans le Capital” (1966), Maurice Godelier si pone immediatamente queste due domande:

(1) “È possibile analizzare le relazioni tra un evento e una struttura”?

(2) è possibile “rendere conto della genesi e dell’evoluzione di questa struttura senza condannarsi ad abbandonare il punto di vista strutturalistico?”[1]

Prima di esaminare le risposte alle domande che lo stesso marxista francese si pone, sono necessarie alcune osservazioni, anche se molto rapide.

Il pensiero dialettico, nelle sue espressioni più classiche (si pensi a Platone, a Leibniz, ad Hegel), vuole essere la risposta esatta a questioni, strettamente analoghe a quelle su cui Godelier si interroga, le quali, in definitiva, ruotano intorno alla possibilità di superare o di mediare l’opposizione fra stabilità della regola e continua eccentricità del movimento.
Per intendere come si collochi il pensiero dialettico rispetto a questa problematica, mi limito a ricordare due casi particolarmente significativi: si pensi per es., a Leibniz, che tematizza il rapporto fede/ragione e si ricordi come, per Hegel, l’idea sia il ritmo logico interno al reale stesso (dunque, non qualcosa di esterno, di altro rispetto al reale, ma sì esattamente quest’ultimo esaminato, però, dal punto di vista della linea, del tracciato, della regola del suo dinamismo)[2].

Perché, allora, il marxista Godelier (dunque, si presume, una persona a cui non sia ignota la tradizione dialettica) si pone queste due domande, ma in relazione allo strutturalismo?

venerdì 1 marzo 2019

COSA E' IDEOLOGIA - Stefano Petrucciani

Da: LuissGuidoCarli - stefano-petrucciani è Professore ordinario di Filosofia Politica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell‘Università di Roma "La Sapienza".
Vedi anche: COSA E' IDEOLOGIA - Roberto Finelli
Leggi anche: Marx e la critica del liberalismo - Stefano Petrucciani 

                                                                                 

giovedì 28 febbraio 2019

Egemonia come direzione o come dominio? - Tian Shigang

Da: https://medium.com/china-files - Traduzione per China files di Andrea Pira 

Leggi ancheI Quaderni del carcere Renato Caputo



Come rendere in cinese uno dei concetti fondamentali del pensiero di Gramsci? Per gli ottant’anni (82) dalla morte del leader comunista italiano, China Files traduce uno scritto del suo traduttore cinese, Tian Shigang. 


Per ricordarne il settantesimo anniversario dalla morte, la Casa editrice del popolo (Renmin chuban she) ha pubblicato le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, fondatore e segretario del Partito comunista d’Italia (PCd’I), uno tra i teorici marxisti più eclettici ed originali del XX secolo.
Le Lettere dal carcere (edizione integrale tradotta) raccolgono le 456 missive che, tra il novembre 1926 e il gennaio 1937, Gramsci inviò dai luoghi d’esilio e dalle carceri fasciste, ad amici e familiari. Le Lettere dal carcere sono un archivio del pensiero gramsciano, l’introduzione e la guida dei Quaderni del carcere. Le Lettere sono un “autoritratto” autentico e vivo, una “solenne sinfonia” che tocca le menti delle persone, uno “sfortunato” classico della moderna letteratura italiana, che Croce esalta perché appartenenti all’intera nazione italiana. Dopo la prima pubblicazione nel 1947, le Lettere dal carcere ebbero immediatamente una grande eco, dovuta al loro linguaggio vivo e semplice, alla capacità di toccare i reali sentimenti delle persone, alla ricchezza del contenuto ed alla profondità di pensiero, tanto da conquistare nel 1948 il più importante premio letterario italiano, il premio di Viareggio.
Per il sottoscritto, il percorso di traduzione delle Lettere dal carcere è stato allo stesso tempo un percorso di studio, che mi ha spinto ad approfondire maggiormente alcuni dei concetti peculiari di Gramsci, soprattutto quello di “egemonia”.

mercoledì 27 febbraio 2019

LIBERTA’ COME ILLUSIONE NELLA CULTURA DECADENTE - Paolo Massucci

Da: https://www.lacittafutura.it - Paolo Massucci, Collettivo di formazione marxista Stefano Garroni.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2019/01/rispecchiamento-dialettica-e-neo.html
                      https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/09/il-dualismo-mente-corpo-un-dilemma.html




Sono cresciute negli ultimi anni tesi a sostegno del determinismo e dell’illusorietà del libero arbitrio, supportate da recenti scoperte delle neuroscienze. Vero avanzamento del pensiero scientifico e filosofico o ideologia funzionale al mantenimento dello status quo?




In un interessante testo del 2016 [1], Andrea Lavazza, studioso di filosofia morale e di filosofia delle neuroscienze, ci offre un quadro dell’attuale dibattito inerente ad uno degli argomenti da alcuni anni più discussi, che si candida ad essere tra gli snodi più importanti della riflessione filosofica, in virtù delle sue ricadute sull’esistenza. Si tratta dell’alternativa tra la nozione di determinismo, nelle sue diverse articolazioni, e quella di libertà umana (libero arbitrio)[2], questione che ha segnato la storia del pensiero sin dall’antichità, almeno a partire da Democrito. 

martedì 26 febbraio 2019

ROMA E ANNIBALE - Una storia in movimento

Luciano Canfora, Storico del mondo antico e Professore emerito di Filologia Greca e Latina all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Annalisa Lo Monaco, Ricercatore di Archeologia Classica alla Sapienza Università di Roma
Claudio Strinati, Storico dell'Arte.
Andrea Giardina, Professore di Storia Romana alla Scuola Normale Superiore di Pisa.

                                                                          

Il Mediterraneo è un susseguirsi di mari, di paesaggi, di popoli, un crocevia antichissimo dove persone, merci, idee e diverse forme dell’estetica generarono la diffusione di civiltà, culti, costumi e leggende. A metà del II secolo a.C. la definitiva vittoria romana contro i cartaginesi, la presa di Corinto e l’eredità del regno di Pergamo, consegnarono alla Repubblica il dominio del Mediterraneo e tutti i territori di quest’area passarono sotto la sua autorità, favorendo l’assimilazione giuridica, linguistica e l’ellenizzazione della cultura romana. Ma quello dei romani è un popolo che ha le sue radici e le sue origini negli dèi, infatti dice Omero: “Dalla guerra di Troia Enea si salverà per volere degli dèi”; l’ultimo degli eroi greci diventa così il capostipite dei romani. 

lunedì 25 febbraio 2019

La scoperta del plusvalore relativo - Maria Turchetto

Da: http://www.consecutio.org - Maria Turchetto, Università Ca' Foscari (https://www.unive.it/data/persone/5591077/pubb_tipo)
Leggi anche: - Caduta tendenziale del saggio di profitto, fordismo, postfordismo. - Maria Turchetto
Vedi anche: L'evoluzione della donna - Maria Turchetto 
«il capitalismo non produce calze per regine».
(Schumpeter 1971)
   1. Tra la terza e la quarta sezione
 
Il cap. 10 del Libro I del Capitale definisce il concetto di «plusvalore relativo», ponendosi tra la terza sezione, dedicata a La produzione del plusvalore assoluto (capp. 5-9) e la quarta sezione, dedicata appunto a La produzione del plusvalore relativo (capp. 10-13). Queste sezioni rappresentano il cuore del Libro I, il nucleo essenziale della rivoluzione scientifica prodotta da Marx.

La terza sezione ci ha condotti «nel segreto laboratorio della produzione sulla cui soglia sta scritto No admittance except on business» (Marx 1975, 212), dove finalmente si svela l’arcano della produzione di plusvalore, rimasto inaccessibile all’analisi degli economisti classici. Com’è noto, la distinzione cruciale introdotta da Marx è quella tra forza-lavoro, oggetto di acquisto nella sfera della circolazione al suo valore di scambio, e lavoro, ossia uso della forza-lavoro nel «processo di produzione immediato». Il processo di produzione immediato, indagato cioè «allo stato puro […] facendo astrazione da tutti i fenomeni che nascondono il giuoco interno del suo meccanismo» e in particolare dal «movimento mediatore della circolazione» (Marx 1975, 694), oggetto dell’intero Libro I (cfr. Marx 1975, 7), rappresenta, come scrive Louis Althusser (2006, 21), l’«enorme svista» degli economisti classici, la zona d’ombra che impedisce loro di riconoscere lo sfruttamento capitalistico. Non si tratta, ovviamente, come Althusser (2006, 21) sottolinea con grande efficacia, di non cogliere un dato, qualcosa che «tuttavia era sotto gli occhi, […] a portata di mano». Si tratta di un più delicato problema di costruzione dell’oggetto scientifico o del campo di indagine. Per gli economisti classici il processo di produzione è meramente tecnico, storicamente e socialmente indifferente[1], mentre per Marx ciò che conta sono le peculiarità che esso mostra «nel suo svolgersi come processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista» (Marx 1975, 224), analizzando le quali è possibile individuare l’appropriazione di plusvalore come lavoro altrui non pagato, in prima istanza come plusvalore assoluto, ossia come semplice prolungamento della giornata lavorativa oltre al tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore della forza-lavoro (assumendo come date l’intensità e la forza produttiva del lavoro) .

Se la terza sezione e il concetto di «plusvalore assoluto» rappresentano una solida acquisizione per tutto il marxismo successivo a Marx – si tratta del resto dell’esplicitazione dello sfruttamento e dell’insanabile conflitto che oppone classe capitalistica e classe operaia – non si può dire altrettanto per la quarta sezione introdotta dal cap. 10, che pure ha un ruolo essenziale nell’inquadrare la specificità del capitalismo come produzione di massa di tipo industriale. La riscoperta di questi capitoli del Libro I è tarda, databile agli anni ’60 e ’70 del secolo scorso[2]. La voce più autorevole è forse quella di Harry Braverman, che analizza taylorismo e fordismo con gli strumenti tratti dai capitoli marxiani su cooperazione, divisione del lavoro e grande industria, aprendo una nuova stagione di studi dell’organizzazione capitalistica del lavoro[3]. Il marxismo precedente – specie quello ortodosso delle accademie sovietiche – sembra invece riproporre l’«enorme svista» degli economisti classici, trattando la produzione in termini meramente tecnici: socialismo «in costruzione» e capitalismo «maturo» venivano infatti contrapposti sul piano della circolazione (la pianificazione contro l’anarchia del mercato) e della distribuzione (la «proprietà di tutto il popolo» e l’equità dei redditi contro la proprietà privata e l’ingiusta ricchezza di pochi), mentre sul piano della tecnica e dell’organizzazione del lavoro il capitalismo veniva emulato («taylorismo ed elettrificazione» fu lo slogan della NEP)[4].

C’è stata dunque, al volgere del secolo scorso, una certa messe di studi sull’organizzazione capitalistica del lavoro ispirati alla quarta sezione del Libro I del Capitale e soprattutto ai capp. 11-13: studi molto interessanti, pur con alcuni limiti (come a suo tempo ho sostenuto, un certo “automobilocentrismo”, ossia un’attenzione forse eccessiva alle novità introdotte nel vecchio settore trainante della meccanica leggera e, per contro, una scarsa capacità critica nel valutare le promesse millantate dalle nuove tecnologie basate sull’informatica e sull’elettronica)[5]. Dati questi limiti, non sarà forse inutile focalizzare l’attenzione proprio sul cap. 10, che dei capitoli successivi – davvero splendidi – costituisce la premessa teorica. 

domenica 24 febbraio 2019

VIANDANTI ​NEL NULLA - Marco Paciotti





Da: http://www.palermo-grad.com - marcopaciotti è redattore di lacittafutura.it


Leggi anche:
https://www.lacittafutura.it/dibattito/crisi-della-sinistra-ruolo-dei-comunisti-e-restaurazione-neo-liberale-intervista-a-stefano-g-azzara

Questione nazionale e «fronte unico» Zetkin, Radek e la lotta d’egemonia contro il fascismo in Germania - Stefano G. Azzarà 


Sul libro di Stefano G. Azzarà: Comunisti, fascisti e questione nazionale. Germania 1923: fronte rossobruno o guerra d’egemonia? [Mimesis, Milano-Udine, 2018]

Nell’attuale dibattito politico capita sovente di imbattersi nell’etichetta di “rossobrunismo”, per la quale si intende, tra chi vi aderisce entusiasticamente e chi invece vi si richiama con intenti più polemici (talvolta con toni crassamente scandalistici), un’alleanza transpolitica – oltre destra e sinistra – tra marxisti e nazionalisti contro il nemico comune costituito dal capitalismo globale transnazionale, stigmatizzato variamente quale “apolide”, “turbomondialista”, “sradicante”, “cosmopolita” etc., nel nome della difesa della “sovranità” e delle piccole patrie. 

In un testo pubblicato lo scorso autunno presso Mimesis Stefano Azzarà, con scrupolo critico, polemizza con tale posizione, mostrandone l’inconsistenza sul piano storico-filosofico a partire dall’analisi del dibattito avvenuto nell’estate del 1923 tra alcuni esponenti della Kommunistische Partei Deutschland (tra cui spiccano le figure di Karl Radek e Paul Fröhlich) e i teorici del movimento völkisch Arthur Moeller van der Bruck[1] e Ernst Reventlow. Lo scambio, descritto dall’autore come un “dialogo tra sordi”, viene presentato in una nuova traduzione di Azzarà nella seconda parte del libro. 

sabato 23 febbraio 2019

"Rosa Luxeburg e Karl Liebknecht"

Da: Centro Studi Politici e Sociali Archivio 68 - Economisti di classe: Riccardo Bellofiore & Giovanna Vertova 
Leggi anche: Una candela che brucia dalle due parti. Rosa Luxemburg tra critica dell’economia politica e rivoluzione - Riccardo Bellofiore                           
                        Rosa Luxemburg*- Edoarda Masi
                           Che cosa vuole la Lega Spartaco - Rosa Luxemburg (1918)
Vedi anche: ROSA L. - Margarethe Von Trotta (1986) (Film completo)


Convegno su "Rosa Luxeburg e Karl Liebknecht" 

Giordano Lovascio 
Vincenzo Miliucci 
Vito Nanni 
Giuseppe Gambino 
Pubblico  
(Per vedere i video relativi agli altri relatori basta "cliccare" sul nome di ognuno di loro.)

Riccardo Bellofiore:
                                       

venerdì 22 febbraio 2019

Il socialismo nel XXI secolo nello scenario del tentato golpe contro il Venezuela - Alessandra Ciattini

Da: https://www.lacittafutura.it Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. 

Leggi anche: 


Tatticamente occorre appoggiare i governi progressisti latino-americani, implementando 

però la strategia di radicalizzare i tentativi di cambiamento intrapresi, come negli anni ’60 fece Cuba.

Mi rendo conto che mi accingo a trattare una questione assai delicata, che presenta molteplici sfaccettature e che può dar luogo a incomprensioni, suscitando anche un immediato e irritato rigetto. Ma credo che per il fatto che oggi esistono nel mondo – in questo contesto dobbiamo ragionare – numerosi gruppuscoli che si autodefiniscono comunisti, ma che non hanno pressoché nessuna incidenza sulla realtà e per di più sono spesso in rapporti astiosi tra loro, questa questione debba essere affrontata di petto (questo vale per Europa, America e Oceania; in Africa e in Asia ci sono partiti comunisti più consistenti sia pure di diverse tendenze). In particolare, è indispensabile far riferimento all’innegabile crisi, anche fomentata dall’esterno, dei governi progressisti latinoamericani, perché potrebbe fornirci l’occasione – spero – di ricucire le antiche lacerazioni ancora doloranti.

giovedì 21 febbraio 2019

Fine di un’epoca - Vladimiro Giacché

Da:  Vladimiro Giacché, Rosa-Luxemburg-Konferenz, supplemento a “die junge Welt” del 30.1.2019, sezione “Capitale e lavoro
Traduzione di Francesco Spataro - http://contropiano.org - https://www.jungewelt.de/beilage/art/347610 -
Vladimiro Giacché, nato nel 1963, è economista e presidente del Centro Europa Ricerche a Roma. Dal 1995 al 2006 ha lavorato per Mediocredito Centrale, l’ex banca di sviluppo statale italiana. Dalla fine del 2007 è socio del gruppo finanziario Sator. 

La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e i profitti nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema.


Per capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione della precedente: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime). 

Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Saltano alcuni fondi speculativi e banche specializzate. La crisi si diffonde in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30. 

Ma perché la crisi è stata così grave? 

lunedì 18 febbraio 2019

Divagazioni intorno al 25° capitolo del I Libro del Capitale - Edoarda Masi

Da: http://www.consecutio.org - Edoarda_Masi è stata una saggista e sinologa italiana, specializzata nella cultura della Cina e nella lingua cinese.
Questo testo riprende, anche nella forma, il testo presentato al Seminario Bergamasco sul Capitale coordinato da Riccardo Bellofiore il 3 maggio 2008. -

Leggi anche: "RICOLONIZZAZIONE", dall’esperienza storica del presente - Edoarda Masi 
     "        "    :  La colonizzazione globale: le false unità e le false identità nelle ideologie dell’impero*- Edoarda Masi**
     "        "    : Rosa Luxemburg*- Edoarda Masi


1. Una lettura

Non riassumo il capitolo 25°, che è abbastanza breve e – mi sembra – di facile lettura. Marx è interessato a indagare come il capitale agisca sempre secondo la sua logica interna, e si propone qui di mostrare che nelle colonie si riproducono i suoi meccanismi fondamentali: specificamente, nella trasformazione di uomini liberi in salariati sfruttati. Per semplificare il discorso utilizza polemicamente un testo di E.G. Wakefield, un teorico della colonizzazione. Il discorso è chiaro e coerente, la sua logica incontestabile, una volta che si accettino i presupposti – per la verità non tutti accettabili (come quello che nelle terre da colonizzare il capitale trovi, all’inizio, liberi produttori).

Partire dal massimo livello di astrazione può valere contro la realtà storica? Al di là di questa logica, mi limiterò ad alcune osservazioni in certo senso fuori tema.

Quando Marx scrive queste righe, siamo in pieno Ottocento – il secolo nel corso del quale le terre emerse colonizzate degli europei passano dal 35% all’85%. È quanto meno singolare che un osservatore acuto (diciamo pure, un genio) come lui non si curi di questo evento macroscopico, una volta che abbia deciso di scrivere un capitolo sulla colonizzazione. Né si domandi per quali motivi tale fenomeno sia in corso, da dove parta e quali risultati produca nella madrepatria (cioè nel luogo centrale della sua indagine sul capitale).

Non solo. Come esempio di colonia sceglie gli Stati Uniti d’America, che da un pezzo hanno raggiunto l’indipendenza; anche se – come si precisa in nota – «economicamente parlando […] sono ancora terra coloniale dell’Europa». 

Ma chi sono quei liberi produttori che il capitale colonizzatore trasforma in salariati sfruttati? Non gli indigeni del continente colonizzato, bensì i liberi immigrati, originari e del presente. Sulle conseguenze della guerra civile, terminata da poco quando presumibilmente scrive queste righe, Marx osserva che questa ha prodotto «un debito nazionale colossale, accompagnato da una pressione fiscale, dalla nascita della più volgare aristocrazia finanziaria, dalla donazione di una parte enorme di terreni pubblici a società di speculatori al fine dello sfruttamento di ferrovie, miniere, ecc. in breve, ha avuto come conseguenza una rapidissima centralizzazione del capitale. Dunque la grande repubblica ha cessato di essere la terra promessa degli operai emigranti».