domenica 17 dicembre 2017

giovedì 14 dicembre 2017

"Il difetto ereditario dei filosofi" - Carlo Sini

Da:  CarloSiniNoema - Carlo_Sini è un filosofo italiano.

                        Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero"- https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/11/il-compito-del-pensiero-carlo-sini.html 

Lezione 3 - Nietzsche,"Il difetto ereditario dei filosofi"(Parte prima):
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Lezione 3 - Nietzsche,"Il difetto ereditario dei filosofi"(Parte seconda) - https://www.youtube.com/watch?v=A2cCyrnpwzw 

sabato 9 dicembre 2017

Il concetto di lavoro fra Hegel e Marx: Sul post-marxismo. F.M.Cacciatore, A.Nizza, M.Mazzeo

Da:  AccademiaIISF



Fortunato M. Cacciatore (Università della Calabria) "Scissioni e resti del popolo sovrano. Lavoro, politica e produzione della plebe dal XXI secolo a Hegel"

Angelo Nizza (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici) "Il linguaggio che produce e il lavoro che parla. Da Rossi-Landi all’operaismo"

Marco Mazzeo (Università della Calabria) "Il pugno che lavora: Muhammad Ali operaio della parola"



mercoledì 6 dicembre 2017

"La democrazia: da governo di tutti a governo dei meno"- Luciano Canfora

Da:  MagistraturaDem - Luciano_Canfora è un filologo classico, storico e saggista italiano. 


sabato 2 dicembre 2017

"Riflessioni" 6... - Stefano Garroni




Se la produzione avviene in condizioni storico-sociali determinate, allora sembra vero che, se di produzione si vuol parlare, di fronte a noi si aprano solo due possibili strade: o quella della descrizione dei modi di produzione nelle differenti epoche storiche; o quella che, subito, limita il discorso ad un’epoca determinata, ad es., la presente (ed appunto questo secondo, Marx dichiara essere il suo scopo).

Qui bisogna fare attenzione. Quando si affrontano problemi (teorici o no, che siano) riguardanti un certo ambito del sapere -e lo si vuol fare seriamente-, allora l’attenzione deve esser rivolta all’effettiva realtà -storica o attuale- di quell’ambito determinato. Se il problema è precisare il “punto di partenza dell’economia politica”, la questione va posta, tenendo presente che cosa effettivamente fanno coloro i quali si occupano di economia politica. In altri termini, non si possono affrontare problemi scientifici (ma d’altronde neanche quelli politici o morali, ecc.), se non ricostruendo il modo in cui, di fatto, quei problemi si pongono nell’attuale o si son posti nella storia. Perché in realtà un problema scientifico -teorico o no, che sia- è tutt’altra cosa da un’arbitraria speculazione, una soggettiva elucubrazione: infatti, esso non nasce casualmente, ma sì da reali difficoltà, che si incontrano nel praticare quel determinato ambito del sapere. Non meraviglia, dunque, se Marx, ponendosi il problema dell’Ausgangspunkt dell’economia politica, faccia bene attenzione a come gli economisti hanno ritenuto di risolverlo e perché non vi siano riusciti.

E’ in questa prospettiva che Marx chiama in causa una procedura diffusa tra gli economisti: quella di far precedere un trattato di economia da una parte introduttiva, in cui si chiarisca cosa significhi produzione in generale -l’evidente sottinteso di tale procedura è che, in primo luogo, bisogna definire l’oggetto di studio, e che ciò può farsi descrivendone le caratteristiche costanti.

In realtà, revocare in dubbio l’opportunità di tale procedura (come Marx fa) significa porre una questione, logica ed epistemologica, di grande rilievo. La nozione di produzione in generale è, infatti, solo un esempio di ciò che intende per «concetto» una lunga tradizione scientifica e filosofica, ma anche il pensiero comune.

Entro quest’ottica, posti gli individui a, b, c, ..., n, elaborarne il concetto significa raccogliere tutte -e solo- le caratteristiche comuni agli individui in questione, scartandone, invece, le altre, quelle che differenziano un individuo dall’altro. Le origini empiristiche di tale procedura sono del tutto ovvie, ma è anche opportuno sottolineare che così procede il pensiero comune.

La critica di Marx a questo modo di concepire il «concetto» (nel nostro caso, la produzione in generale) presenta, ancora un volta, nettissime affinità con tesi già espresse da Hegel.

Prima di tutto, va notato che Marx non rifiuta in blocco questa forma di astrazione; al contrario, riprendendo Hegel, la definisce una verständliche Abstraktion, ricorrendo ad un’espressione (tedesca, ovviamente) su cui vale la pena soffermarsi un pochino.

L’aggettivo verständliche -va da sé- richiama un termine, che abbiamo già incontrato: Verstand o intelletto; dal che ricaviamo che questa forma di astrazione si colloca all’interno di quello scindere l’immediata totalità dell’esperienza, che -lo abbiamo visto prima- è, a dir così, il compito o risultato della critica intellettuale (quella, ad es., che produce le robinsonate, di contro al naturale punto di partenza dell’economia politica). Tutti ricordiamo che nel Manifesto Marx aveva celebrato la funzione storica della borghesia e del capitalismo, capaci con il loro dinamismo, irriguardoso di ogni confine, di distruggere l’idiotismo delle chiuse ("naturali") comunità feudali o, comunque, precapitalistiche. Qui, nell’Introduzione, Marx ripropone questo discorso, sia pure non nella prospettiva generalmente storica e sociale, ma sì in quella teorica ed epistemologica.

Il termine verständliche, però, corrisponde, anche, all’italiano «sensato» (come quando si dice, ad es., «far così e così è cosa sensata»); questo secondo significato è strettamente legato al primo -non solo nell’uso della lingua tedesca, ma anche nella riflessione di Hegel.

Infatti, il mondo del Verstand è, anche, il mondo dell’agire, dell’utile, dell’ «economico» nel significato di efficace, pragmaticamente positivo, di ‘razionale’ -nel senso in cui l’economia, anche oggi, si pone il problema dei mezzi razionali per conseguire scopi, in una condizione di penuria.

Se, dunque, la produzione in generale è un esempio di verständliche Abstraktion, possiamo dire, in italiano, che si tratta di una astrazione sensata. e ciò perché, come Marx chiarisce, raccogliendo i caratteri comuni alla varie forme di produzione succedutesi nella storia, ci consente di risparmiare ripetizioni e lungaggini (nella tradizione empiristica, questa è la giustificazione fondamentale delle astrazioni). Si tratta, dunque, di uno strumento utile all’impresa scientifica, esattamente nel senso in cui lo stesso Hegel lo riconosceva tale. Ma la questione non finisce qua; al contrario, è a questo punto che inizia il contributo importante, che Marx dà alla caratterizzazione -e, quindi, alle possibilità d’uso- di questo strumento scientifico.

Poniamo che siano dati gli individui a, b, c, ..., n (ad es., i vari modi di produzione succedutisi nella storia) e che p, q, r siano loro caratteristiche costanti; il concetto di produzione in generale risulterà, dunque, P = p, q, r.

Va considerato, però, osserva Marx che, ad. es., «p», si svolga in p’, p" e che queste nuove caratteristiche, immediatamente ricavabili da «p», non si trovino in tutti gli esempi storici di modi di produzione, sebbene in uno e non nell’altro, nel più antico come pure nel più moderno ma non in quelli intermedi, ecc. (E’ le cose stanno proprio così, come mostra la storia dei diversi modi di produzione). E’ chiaro che, a questo punto, la formula della produzione in generale (P = p, q, r) rivela forti limiti, se il problema è quello di capire cosa sia produzione

In altre parole, ci rendiamo conto a questo punto che comprendere cosa sia produzione non è mai possibile, se non combinando -e volta a volta, in modo diverso- caratteristiche comuni a tutti i modi di produzione e caratteristiche che, invece, differenziano questo da quello.

In conclusione, mediante l’analisi critica della verständliche Abstraktion, Marx propone, in realtà, una concezione del conoscere scientifico che, articolando comune e differente, giunge a cogliere la particolarità dell’oggetto suo. Che tutto ciò sia appieno hegeliano è difficilmente smentibile. 

mercoledì 29 novembre 2017

Le parole sono importanti - Alessandra Ciattini 

Da:  https://www.lacittafutura.it -   insegna Antropologia culturale alla Sapienza.


Le parole non forniscono solo informazioni, ma forgiano la nostra mente.
Debbo dire che non ho mai molto apprezzato il cinema minimalista di Nanni Moretti, ma mi ha colpito il suo sottolineare, in più occasioni, per esempio in Palombella rossa (1989), che “Le parole sono importanti”, tanto che giunge in una scena a schiaffeggiare la sua interlocutrice perché gli ha attribuito espressioni a lui del tutto estranee come per esempio trend negativo, ribadendo che lui non parla né pensa così. Non solo, ma si incollerisce anche di fronte ad espressioni come kitchcheap, o di fronte a frasi fatte, ripetute senza immaginazione e prive di qualsiasi tentativo di riflessione, sollecitando a non farsi condizionare dall’ambiente che ci circonda, dalle espressioni giornalistiche più usate, da una maniera stravolta di parlare che ci conduce a pensare e a vivere male. Soprattutto ho condiviso l’idea che le parole contribuiscono a forgiare il nostro pensiero, divenendo così un potente strumento sia di manipolazione che di emancipazione. 

Sicuramente l’intuizione di Moretti è intelligente, anche se poi giunge a sostenere una posizione irrazionalistica, quando afferma, in altre sequenze del film, che odia la parola scritta perché in essa un pensiero una volta cristallizzato si trasformerebbe in una menzogna, dimenticando che anche le parole scritte come quelle parlate possono avere un diverso valore di verità e che, d’altra parte, nessuno può esprimersi se non attraverso la mediazione della parola o di altri strumenti comunicativi come per esempio i gesti. Pertanto, non possiamo fare a meno della parola scritta o parlata e dobbiamo sempre valutarne il significato e il contenuto, tenendo presente sia il contesto sociale in cui essa viene pronunciata, sia il ruolo sociale di chi la emette e di chi la riceve. Insomma, ogni forma di comunicazione prevede irrimediabilmente una mediazione, senza quale esiste solo la telepatia o la condivisione mistica, le quali non mi sembrano funzionare molto bene. 

sabato 25 novembre 2017

"Il compito del pensiero" - Carlo Sini


Da: CarloSiniNoema - Carlo_Sini è un filosofo italiano.

Vedi anche: Lezione1- Hegel,"Filosofia e Metodo" - https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/11/hegelfilosofia-e-metodo-carlo-sini.html

Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero", parte prima:


Lezione 2 - Heidegger,"Il compito del pensiero", parte seconda:  https://www.youtube.com/watch?v=JXtN-gfzc_4 

venerdì 17 novembre 2017

"Riflessioni" 5.0 - Stefano Garroni



                                                                                        Feticismo 

...noi troviamo il termine "feticismo" usato da Marx per intendere in definitiva quella situazione per cui le conseguenze, del rapporto sociale che si stabilisce nel capitalismo tra capitale e lavoro, appaiono alla coscienza, che è immersa nell'esperienza della società capitalistica, e quindi che non ha un rapporto critico rispetto ad essa, come caratteristiche delle cose. Per esempio il valore è il valore della merce; la televisione ci dice che c'è l'inflazione, che cresce e si abbassa, ha la febbre, non ha la febbre; eccetera. Ecco, queste conseguenze, questo modo di strutturarsi dei rapporti sociali in un momento determinato appare, alla coscienza immersa nella società capitalistica, come una serie di qualità delle cose: della merce, del mercato ecc. Questo Marx indica con feticismo.

Il problema che si pone è il seguente: perché Marx usa questo termine? Che cosa esattamente vuole intendere? Che rapporto ha questo termine con il termine utilizzato appunto nella tradizione antropologica? Pongo questa domanda apparentemente erudita, da persona che ha il problema erudito di ricostruire l'esattezza di un testo. Il perché di questa problematica ce lo mostra per esempio Napoleoni, o per esempio Colletti; per Colletti faccio riferimento a un saggio compreso in Ideologia e società. Qui Colletti era ancora marxista, o almeno così veniva considerato. Il libro fu pubblicato nel 1969. Faccio riferimento al capitolo intitolato Teoria del valore e feticismo. Anche lasciando fuori la citazione precisa, un elemento è comune ai due i personaggi: quello di mostrare la contraddizione fondamentale della società capitalistica basata sulla contrapposizione, citando Napoleoni, di una tesi antropologica e morale di Marx da un lato, e dall'altro lato il rapporto tra capitale e lavoro.; in Colletti la contrapposizione tra                                                                                    individuo naturale feuerbachiano e rapporto capitale-lavoro. 

In sostanza dice Napoleoni: Marx ritiene che l'essenza dell'uomo sia la sua capacità produttiva. Questa è la tesi antropologica sull'uomo di Marx e, ovviamente, Napoleoni cita il Marx giovane Marx dei manoscritti parigini del '44. Questa essenza dell'uomo viene contraddetta dal rapporto capitale-lavoro, in quanto in questo rapporto il lavoro vivo, quindi l'attività, l'energia vitale dell'uomo, è subalterna rispetto al lavoro oggettivato, rispetto alla macchina, rispetto al capitale. È chiaro che qui c'è da inserire un terzo personaggio: c'è questa tesi antropologica di Marx (l'essenza dell'uomo è la sua capacità produttiva), c'è il rapporto di capitale, e terzo c'è un principio morale: l'essenza dell'uomo va rispettata, salvata e potenziata. Messo insieme il sillogismo diventa questo: l'essenza dell'uomo è la sua capacità produttiva, l'essenza dell'uomo va salvata, rispettata e potenziata, ma il capitalismo aggioga il lavoro vivo, cioè la capacità produttiva dell'uomo rispetto al lavoro morto, e quindi il capitalismo va condannato. 

giovedì 16 novembre 2017

Il circuito del capitale - Tony Norfield

Da:  https://traduzionimarxiste.wordpress.com/ - Link all’articolo originale in inglese  Economics of Imperialism

Questo articolo si basa su un saggio scritto ormai più di trent’anni fa. Saggio che, con alcune modifiche stilistiche minori, una conclusione rivista e qualche aggiornamento alle note, ripropongo qui come contributo alla comprensione del Capitale di Marx. Le note a piè di pagina sono numerose, in molti casi fanno riferimento sia a pagine specifiche di un’edizione del Capitale che alla collocazione precisa di un passo all’interno di un capitolo. Questo al fine di agevolare il lettore nel rintracciare i riferimenti in altre edizioni e nelle risorse online (specialmente l’ottimo Marxist Internet Archive, [per la traduzione italiana, in riferimento al Capitale, si rimanda al sito CriticaMente, n.d.t.]).

Dei tre libri del Capitale di Marx, il secondo, dedicato al processo di circolazione del capitale, è il più trascurato. Laddove ha riscosso una qualche attenzione, come riguardo all’utilizzo degli schemi di riproduzione per analizzare la “trasformazione” dei valori in prezzi di produzione, è stato spesso frainteso [1]. La prima sezione di questo saggio delinea il rapporto metodologico fra i tre libri del Capitale; la seconda affronta in modo più ampio gli argomenti del secondo libro e la sua relazione col primo.

1.  Distinzioni metodologiche 
Una concisa formulazione del rapporto tra i tre libri del Capitale si trova nella prima pagina del capitolo primo, libro terzo. Marx vi nota che il primo libro analizza il processo di produzione capitalistica immediato, “astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee”, e che il secondo studia il processo di circolazione del capitale, il quale andrebbe aggiunto al processo di produzione immediato così da completare “il corso dell’esistenza del capitale”. Il terzo libro, invece, va oltre questa sintesi, al fine di “scoprire ed esporre le forme concrete che sorgono dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto”. In contrasto con i primi due libri, il terzo considera quegli aspetti del capitale che:
si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione. [2]
L’analisi contenuta nei primi due libri viene dunque condotta al livello del “capitale in generale”, raggiungendo il piano dei “diversi capitali” e della concorrenza nel terzo libro. Le forme assunte dal capitale nella “superficie della società” non vengono esaminate immediatamente, e persino nel terzo libro vengono soltanto “avvicinate”.

lunedì 13 novembre 2017

Hegel e la rivoluzione - Domenico Losurdo:


Da:  Scuola di filosofia Roccella Jonica - Domenico_Losurdo è un filosofo, saggista e storico italiano.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2017/01/perche-e-fallito-il-comunismo-domenico.html



Il dibattito:  https://www.youtube.com/watch?v=SFHLZM0YjWk

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“Per la coscienza virtuosa l’universale è verace nella fede o in sé; e non è ancora un’universalità effettuale, ma astratta […]. La virtù non somiglia soltanto a quel contendente che nella lotta era tutto occupato a mantenere immacolata la spada, essa è anche entrata in lizza per preservare le armi […]. La virtù vien dunque vinta dal corso del mondo perché suo fine è in effetto l’essenza astratta e ineffettuale […]. Così il corso del mondo ottiene la vittoria su ciò che, in contrapposizione a lui, costituisce la virtù […]. Ma esso non trionfa di alcunché di reale […]; trionfa di tale pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa; di tale pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; – simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un eccellente essenza; – ma è invece una gonfiatura che fa grossa la propria testa e quella degli altri, la fa grossa di vento [...]”.

“La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacché dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia […]".

"Ecco dunque in effetto qual è il risultato di tale opposizione: la coscienza si sbarazza, come di un vano mantello, della rappresentazione del bene in sé che non avrebbe ancora effettualità alcuna. Nella sua lotta la coscienza ha sperimentato come il mondo non sia tanto malvagio quanto pareva: la sua effettualità è, infatti, la realtà dell’universale”.
Hegel, fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1960, pp. 319-324. (homolaicus)

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Utopismo vuol dire: preferisco che il mondo sia così e così invece che come è. Significa pretendere di dettare al mondo la regola del proprio essere, non ricavando questa regola dall’evoluzione del mondo, ma ricavandola dalle mie preferenze. In questo senso il marxismo è radicalmente antiutopista. 
(riflessioni-40-stefano-garroni)

sabato 11 novembre 2017

"Riflessioni" 4.0 - Stefano Garroni





"... È del tutto ovvio che non si fa politica senza capacità tattica, non si fa politica senza spregiudicatezza; ma la tattica e la spregiudicatezza hanno un senso in funzione di un obiettivo di fondo. Allora no, noi non siamo laici. Nel senso che l’obiettivo di fondo ce l’abbiamo, il principio ce l’abbiamo: lì vogliamo andare. Noi vogliamo la dittatura del proletariato, noi vogliamo la socializzazione dei principali mezzi di produzione e di scambio, noi vogliamo i soviet, noi vogliamo l’internazionalismo. Questo è l’obiettivo. Ovviamente una volta fissato l’obiettivo sarà possibile individuare tutte le spregiudicatezze tattiche, le quali hanno però senso in quanto sono i modi che si ricavano dalla realtà presente per arrivare là... 

Allora a questo punto il rapporto tra politica e cultura nel marxismo diventa una cosa molto complessa e densa, perché è il problema del rapporto tra tattica e strategia, tra spregiudicatezza imposta dalla condizione determinata e obiettivo di fondo. Allora bisogna prenderla molto sul serio la dimensione teorica e culturale perché si tratta del rapporto con l’obiettivo di fondo. Senza questo rapporto non c’è la possibilità di individuare una tattica. Perché qual è il criterio che mi fa scegliere una o un’altra mossa? Questa scelta è in funzione di cosa? Se non c’è un obiettivo di fondo chiaro, l’unico obiettivo reale è conservare o casomai aumentare stipendi di parlamentari e di assessori comunali. Questo bisogna bene che ce lo mettiamo in testa. 

Il marxismo nasce nettamente, subito, immediatamente e costantemente in funzione antiutopistica.

Utopismo vuol dire: preferisco che il mondo sia così e così invece che come è. Significa pretendere di dettare al mondo la regola del proprio essere, non ricavando questa regola dall’evoluzione del mondo, ma ricavandola dalle mie preferenze. In questo senso il marxismo è radicalmente antiutopista. 

Ed è un tema molto importante oggi perché questo atteggiamento circola largamente.. Però voi lo sapete perfettamente, non esiste riflessione scientifica che non produca previsioni. Attenti, l’essere antiutopista non significa non prefigurare tappe future, non prefigurare lo sbocco di…. L’essere antiutopista non significa non poter dire: così sarà, così sarà meglio, che sarà nel futuro. Fare un discorso sul futuro.  Non esiste nessuna elaborazione scientifica che non comporti anche un discorso sul futuro... Il comunismo fa delle previsioni, per esempio fa questa previsione: il comunismo sostituisce il parlamentarismo con forme di autogoverno dei produttori associati.

Questo è un punto fondamentale. Capire perché Lenin dice: il parlamento è cosa loro, della borghesia non nostra. Io posso discutere tutte le tattiche da usare in parlamento. Ma questo è chiaro: io vado al soviet, non al parlamento. Io il parlamento lo abbatto, voglio costruire il soviet. Per abbattere il parlamento posso anche andare in parlamento, certo. Ma il problema è che il mio risultato finale sarà il soviet non il parlamento e allora posso scegliere le tattiche. 

Che vuol dire una società in cui il produttore associato governa? Vuol dire che l’obiettivo fondamentale è quello di un prodigioso aumento qualitativo della preparazione culturale di massa. Ecco perché il giovane comunista - secondo Lenin nel ’21 - doveva prima di tutto studiare. Perché il problema è che tu non puoi avere un autogoverno dei produttori se i produttori non sono anche culturalmente in condizione di autogovernarsi. Cioè di controllare i meccanismi economici, di avere consapevolezza dal punto di vista giuridico ecc., ecc.

Allora l’obiettivo costante, inevitabilmente costante dei comunisti non può che essere quello di fare di tutto per elevare il livello culturale di massa. Noi possiamo rivendicare a merito del movimento operaio il fatto che fin dall’inizio – dal primo 800- si impegnò in una vasta attività di diffusione popolare della cultura. Darwin era uno degli autori che più venivano diffusi in opuscoli, libretti. Nell’800 c’è un fiorire di attività enorme promossa dal movimento operaio. Anche questo teniamolo presente perché noi dobbiamo anche fare un po’ i conti con la situazione attuale del movimento operaio e vedere se viene condotta quest’attività. Perché qui è un punto di fondo. Non si tratta di spocchia culturale, si tratta di capire questo: se l’obiettivo è quello comunista, cioè la dittatura del proletariato - cioè che  il proletariato diventa la classe dirigente che organizza lo stato, perché questo vuol dire dittatura del proletariato - se questo è l’obiettivo allora noi siamo vitalmente interessati fin da adesso a fare di tutto perché i livelli di coscienza crescano a livello di massa. Quindi non è un astratto ideale da accademia. Si tratta proprio di giocare la partita di quello che vogliamo perseguire. 

Voi lo sapete perfettamente che più il livello medio culturale dei membri di un partito è basso più il partito si burocratizza. Uno può fare tutti gli statuti libertari che vuole, ma se mediamente il livello dei membri del partito è basso i dirigenti si sostituiscono al partito, alla base, alla massa. E allora è vitalmente necessario un’attività per elevare i livelli di coscienza, se si vuole la democrazia nel partito. Cioè la partita della democrazia nel partito non si gioca a livello degli statuti. Si gioca per esempio sulla base del livello di consapevolezza culturale medio dei compagni. Si gioca al livello della capacità del partito di collegarsi agli strati oggettivamente interessati al socialismo. E' importante che il partito si leghi agli strati oggettivamente interessati al socialismo, perché questi poi pesano sul partito, lo condizionano, ne vincolano le scelte..." 

giovedì 9 novembre 2017

100 anni dopo. Ascesa e crisi del movimento comunista internazionale nel ‘900 - Francesco Piccioni


A 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, ci sembra utile accompagnare il ricordo per la prima e straordinaria vittoria duratura  della Rivoluzione con una riflessione che non si nasconde quel che è accaduto dopo. Ma che, al tempo stesso, non cade nel vecchio vizio di andare a “trovare l’errore decisivo” nel comportamento di Tizio o Caio o addirittura – come fanno i pentiti di ogni epoca – nell’idea stessa di Rivoluzione. Viene tracciata un’ipotesi di ricerca storiografica, certamente complessa ma almeno all’altezza dell’oggetto. 
A voi l’intervento elaborato da Francesco Piccioni per il convegno  ‘Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere’, a dicembre 2016. 

                                                                                                 Idee per un programma di ricerca
Se si guarda alla storia del movimento comunista, oggi, l’impressione è spesso quella di trovarsi davanti a un deserto di macerie. In cui vagano alcuni fantasmi che, se si incontrano, si mandano a quel paese…
Dopo un secolo, bisogna però essere ambiziosi o rassegnarsi a scomparire. Sarebbe un peccato, perché solo ora il modo di produzione capitalistico funziona esattamente come lo aveva ricostruito Marx.
Perciò bisogna assumere su di sé, per quanto poco si sia adeguati allo scopo, il compito di fare il punto nella storia del movimento comunista internazionale e determinare le coordinate del possibile sviluppo.
La dico alla Mao Zedong: non si può fare più nemmeno un passo in avanti se tagliamo il piede per farlo entrare nella scarpa. Tradotto: saremo anche un piccolo insieme di sfigati e nostalgici, ma bisogna darsi il compito di pensare in grande. E agire di conseguenza. Naturalmente, pensare in grande è il contrario della supponenza boriosa. Significa misurarsi con compiti giganteschi, senza alcun provincialismo nella testa, sapendo in ogni istante che siamo troppo piccoli per “mettere le mutande al mondo”. Ma fare il contrario, ossia adattare la dimensione dei compiti alla nostra piccolezza non serve a nessuno, neanche a noi.
Per questo, qui, non si propone un lavoro conclusivo, ma un programma di ricerca. Uno sforzo come quello che bisogna fare richiede infatti un intellettuale collettivo – a livello internazionale, va da sé – che punti a superare il punto di crisi del movimento comunista