mercoledì 14 giugno 2017

Il rispetto delle differenze culturali: relativismo o antirelativismo?*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.lacittafutura.it/
Qual è il modo più opportuno per affrontare la questione delle differenze culturali?

La questione che intendo affrontare in questo breve scritto è piuttosto intricata e coinvolge il senso comune (si pensi al problema dei migranti), la filosofia e le scienze sociali, in particolare l’antropologia. In ambito filosofico essa risale al momento in cui alcuni hanno sostenuto che non esistono criteri superiori, validi universalmente, che ci consentano di valutare gli specifici criteri culturali adottati dalle diverse culture. Si potrebbe rimandare a questo proposito a Protagora (V sec. a. C.) e al suo famoso frammento, la cui interpretazione è alquanto controversa, “L’uomo è la misura di tutte le cose” e a Michel de Montaigne (1533-1592), per il quale il nostro modo di ragionare non nasce dalla natura, ma dal costume
Naturalmente questa visione relativistica ha preoccupato la Chiesa cattolica, che nelle figure di papa Wojtila e papa Ratzinger, l’ha condannata in più occasioni, anche perché ha messo in discussione il monopolio della verità assoluta, che essa si attribuisce. 

Benché – come si è visto – il relativismo abbia radici antiche e di tutto rispetto, almeno in ambito antropologico si fa risalire alla crisi dell’evoluzionismo e progressismo ottocentesco, che prefiguravano un avanzamento continuo della società umana e che distinguevano tra i diversi livelli culturali raggiunti dalle differenti forme di vita sociale, le quali erano confrontate a loro svantaggio con la civiltà occidentale”

martedì 13 giugno 2017

Medio Oriente* - Alberto Negri, Marco Santopadre

*Presentazione: "Il Musulmano errante" di Alberto Negri (edizioni Rosenberg e Sellier).
noirestiamo insieme all'autore e a Marco Santopadre (contropiano.org), 27/03/2017. Campus Einaudi.
Vedi anche:   https://www.internazionale.it/notizie/2016/01/05/sunniti-sciiti-differenze

lunedì 12 giugno 2017

Studenti*- Giorgio Agamben**

*Da:   https://www.quodlibet.it/    http://francosenia.blogspot.it/   https://www.sinistrainrete.info/
**Giorgio_Agamben è un filosofo italiano.
Leggi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/03/la-barbarie-dello-specialismo-jose.html


Sono passati cento anni da quando Benjamin, in un saggio memorabile, denunciava la miseria spirituale della vita degli studenti berlinesi e esattamente mezzo secolo da quando un libello anonimo diffuso nell’università di Strasburgo enunciava il suo tema nel titolo Della miseria nell’ambiente studentesco, considerata nei suoi aspetti economici, politici, psicologici, sessuali e in particolare intellettuali. Da allora, non soltanto la diagnosi impietosa non ha perso la sua attualità, ma si può dire senza timore di esagerare che la miseria – insieme economica e spirituale – della condizione studentesca si è accresciuta in misura incontrollabile. E questa degradazione è, per un osservatore accorto, tanto più evidente, in quanto si cerca di nasconderla attraverso l’elaborazione di un vocabolario ad hoc, che sta fra il gergo dell’impresa e la nomenclatura del laboratorio scientifico.

Una spia di questa impostura terminologica è la sostituzione in ogni ambito della parola “ricerca” a quella, che appare evidentemente meno prestigiosa, di “studio”. E la sostituzione è così integrale che ci si può domandare se la parola, praticamente scomparsa dai documenti accademici, finirà per essere cancellata anche dalla formula, che suona ormai come un relitto storico, “Università degli studi”. Cercheremo invece di mostrare che non soltanto lo studio è un paradigma conoscitivo sotto ogni aspetto superiore alla ricerca, ma che, nell’ambito delle scienze umane, lo statuto epistemologico che gli compete è assai meno contraddittorio di quello della didattica e della ricerca.

Proprio per il termine “ricerca” diventano particolarmente evidenti gli inconvenienti che derivano dall’incauto trasferimento di un concetto dalla sfera della scienze della natura a quella delle scienze umane. Lo stesso termine rimanda, infatti, nei due ambiti a prospettive, strutture e metodologie del tutto diverse. La ricerca nelle scienze naturali implica innanzitutto l’uso di apparecchiature così complicate e costose che non è nemmeno pensabile che un singolo ricercatore possa realizzarle da sé; implica inoltre direzioni, direttive e programmi di indagine che risultano dalla congiuntura di necessità oggettive – ad esempio, la diffusione dei tumori, lo sviluppo in corso di una nuova tecnologia o le esigenze militari – e di interessi corrispondenti nelle industrie chimiche, informatiche o belliche. Nulla di comparabile avviene nelle scienze umane. Qui il “ricercatore” – che si potrebbe più propriamente definire “studioso” – ha bisogno soltanto di biblioteche e di archivi, l’accesso ai quali è generalmente facile e gratuito (quando una tassa di iscrizione è richiesta, essa è irrisoria). In questo senso le proteste ricorrenti sull’insufficienza dei fondi di ricerca (effettivamente scarsi) sono destituite di ogni fondamento. I fondi in questione vengono infatti usati non per la ricerca in senso proprio, ma per partecipare a convegni e colloqui che per la loro natura non hanno nulla da spartire con i loro equivalenti nelle scienze naturali: mentre in questi si tratta di comunicarsi le novità più urgenti non soltanto nella teoria, ma anche e innanzitutto nelle verifiche sperimentali, nulla di simile può avvenire in ambito umanistico, in cui l’interpretazione di un passo di Plotino o di Leopardi non è legata ad alcuna urgenza particolare. Da queste diversità strutturali consegue inoltre che mentre nelle scienze della natura le ricerche più avanzate sono generalmente condotte da gruppi di scienziati che lavorano insieme, nelle scienze umane i risultati più innovativi sono ottenuti di solito da studiosi solitari, che passano il loro tempo nelle biblioteche e non amano partecipare a convegni.

Se già questa sostanziale eterogeneità dei due ambiti consiglierebbe di riservare il termine ricerca alle scienze naturali, anche altri argomenti suggeriscono di restituire le scienze umane a quello studio che le ha caratterizzate per secoli. A differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto. Nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto. Lo studio è, invece, una condizione permanente. Si può, anzi, definire studio il punto in cui un desiderio di conoscenza raggiunge la sua massima intensità e diventa una forma di vita: la vita dello studente – meglio, dello studioso. Per questo – al contrario di quanto implicito nella terminologia accademica, in cui lo studente è un grado più basso rispetto al ricercatore – lo studio è un paradigma conoscitivo gerarchicamente superiore alla ricerca, nel senso che questa non può raggiungere il suo scopo se non è animata da un desiderio e, una volta raggiuntolo, non può che convivere studiosamente con esso, trasformarsi in studio.

Si può obiettare a queste considerazioni che mentre la ricerca ha sempre di mira una utilità concreta, non si può dire lo stesso dello studio, che, in quanto rappresenta una condizione permanente e quasi una forma di vita, può difficilmente rivendicare un’utilità immediata. Occorre qui rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.

domenica 11 giugno 2017

I SOFISTI* - Antonio Gargano

*Da:  http://www.iisf.it/  
Vedi anche:   http://www.raiscuola.rai.it/articoli/i-sofisti-lintellettuale-professionista/3498/default.aspx 


Viviamo in un’epoca sofistica. Da che cosa è caratterizzata la sofistica? Dal dominio dell’opinione, dalla convinzione che la verità non possa essere raggiunta. Viviamo in un’epoca dominata dall’opinione, dalla sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, dallo scetticismo, e il dominio dell’opinione si fa sentire oggi con mezzi più potenti che all’epoca sofistica greca, cioè con i mezzi di comunicazione di massa. I modelli di esistenza vengono imposti da creatori di opinioni, non certo ispirati da filosofi o da chi si sforza di indagare la verità. Vedremo come i sofisti teorizzano il relativismo e come alla luce della filosofia di Socrate e di Platone il relativismo e lo scetticismo nella conoscenza, che comportano l’individualismo e l’egoismo nella vita pratica, possono essere sconfitti perché sono logicamente infondati. Possiamo riassumere così i tratti della sofistica: sofistica vuol dire regno dell’opinione, sfiducia nella possibilità di raggiungere la verità, quindi relativismo, scetticismo, soggettivismo, e di conseguenza individualismo. Cerchiamo di collocare i sofisti all’interno della storia della filosofia. Non mi voglio attardare sulla Atene di Pericle, sulla Atene della metà del quinto secolo, di cui trovate chiare notizie nei vostri manuali: quando intendo collocare i sofisti nella storia della filosofia, voglio dire che i sofisti costituiscono un momento necessario nella storia della filosofia, non possono non comparire a un certo punto, dopo i naturalisti, come non possono non essere superati poi da una posizione come quella di Socrate e di Platone. I Greci avevano ragione sul fatto che c’è una logica in tutte le cose, ma se c’è una logica in tutte le cose ci sarà una logica anche nella storia della filosofia: la storia della filosofia segue un filo di sviluppo ben saldo. 


sabato 10 giugno 2017

Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe (II° lezione)*- Alessandra Ciattini

*Da:   https://www.unigramsci.it/

Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.

Nella seconda lezione  si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel. 

Seconda lezione:   (a partire dal minuto 4 la ricezione audio si regolarizza...)


Prima lezione:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/06/storia-religiosa-dellamerica-latina-e.html


venerdì 9 giugno 2017

IDEOLOGIA E DIALETTICA*- Stefano Garroni

*Da:   https://www.youtube.com/user/mirkobe79/playlists?flow=grid&view=1&sort=lad



[…] il proletariato, la lotta di classe: c’è questa tragedia incombente. E peggio, questa tragedia incombente può anche essere addirittura segno dell’ira di dio contro l’uomo peccatore: tutti siamo assassini, tutti abbiamo ucciso nella guerra – i nazisti, gli antinazisti -, siamo tutti sporchi di sangue, dunque è possibile addirittura che dio consenta la guerra atomica per punirci.

Althusser, che in questo periodo è cattolico, dice ai cattolici per esempio a Malraux e Marcel: “Ma con quale arroganza voi pretendete di interpretare dio? Noi uomini possiamo capire le cose del mondo e allora cominciamo a dire chi sono i responsabili e a chiamare le persone con il loro nome. E chi è questo ‘tutti’? Guarda un po’, tutte queste persone che favoriscono l’ideologia del proletariato del terrore, poi se andiamo a vedere politicamente ruotano intorno alla socialdemocrazia e sono anticomunisti”.

Allora comincia a delinearsi questa immagine ideologica di un pensiero che – prendendo spunto da effettivi drammi, da effettivi problemi – addirittura accentuando la drammaticità di questi problemi, arriva alla conclusione che è inutile la lotta di classe: è come se coloro che occupano il treno lanciato verso l’abisso, si mettono a litigare tra loro quando c’è questa tragedia, e sono socialdemocratici e anticomunisti.

A questo proletariato del terrore lui contrappone il proletariato quello proletario, e dice: “Questo è un proletariato che si definisce per la sua condizione sociale, politica, economica, che lotta per delle cose determinate, contro forze determinate, e lottando impara che può vincere, e quindi costruisce un’immagine della società, del mondo in cui sta, si pone obiettivi, opera, fa; invece questo proletariato del terrore disarma”.

giovedì 8 giugno 2017

Come funziona il Soviet*- John Reed

*Da:  http://www.marxpedia.org/   Questo scritto viene pubblicato a puntate sull'Ordine Nuovo dal 21 giugno al 12 luglio del 1919. 

Introduzione

In mezzo al coro di ingiurie e di menzogne contro la Russia dei Soviet ricorre, con una sorta di terrore, un alto grido: non vi è nessun governo in Russia, non vi è nessuna organizzazione tra gli operai russi! Non si lavora più! Non si lavora più!
È il metodo nella calunnia.
Come ogni socialista sa, come io stesso, che sono stato presente nella Rivoluzione russa, posso attestare, esiste oggi a Mosca e in tutte le città e in tutti i centri abitati del paese un organismo politico complesso, che è sostenuto dalla grande maggioranza della popolazione, e che funziona bene allo stesso modo di ogni altro governo popolare di recente formazione. Gli operai della Russia hanno, sotto l'impulso delle loro necessità e dei bisogni della vita, creato un'organiz­zazione economica che sta trasformandosi in una vera democrazia operaia.
Darò un disegno schematico della struttura dello Stato dei Soviet.

Storia dei Soviet

Lo Stato del Soviet è basato sui Soviet - e Consigli - di operai e contadini.
Questi Consigli - istituzioni cosi caratteristiche della Rivoluzione russa - sorsero nel 1905, quando, durante il primo sciopero generale degli operai, le fabbriche di Pietrogrado e le organizzazioni econo­miche mandarono delegati a un Comitato centrale. Questo comitato dello sciopero fu chiamato «Consiglio dei deputati operai». Esso organizzò il secondo sciopero generale della fine del 1905, inviò organizzatori per tutta la Russia, e per breve tempo fu ri­conosciuto dal governo imperiale come l'organo uf­ficiale e autorizzato della classe operaia rivoluzionaria russa.
Fallita la rivoluzione del 1905, i membri del Consiglio in parte fuggirono, in parte furono mandati in Siberia. Ma questo tipo di organizzazione unitaria era cosi straordinariamente efficace come organo politico che tutti i partiti rivoluzionari inclusero un Con­siglio di deputati degli operai nei loro piani per la prossima rivolta.
Nel marzo 1917, quando, davanti a tutta la Rus­sia agitata come un mare in tempesta, lo Zar abdicò, il granduca Michele rinunciò al trono, e la Duma riluttante fu forzata ad assumere le redini del potere, il Consiglio dei deputati degli operai sorse completamente formato. In pochi giorni fu esteso in modo da comprendere delegati dell’esercito, e chia­mato Consiglio dei deputati degli operai e dei sol­dati. Il Comitato della Duma era composto, fatta eccezione per Kerensky, da borghesi, e non aveva nes­suna relazione con le masse rivoluzionarie. Si doveva combattere, si doveva restaurare l'ordine, si doveva difendere il fronte... I membri della Duma non ave­vano modo di adempiere questi doveri: essi furono obbligati a ricorrere ai rappresentanti degli operai e dei soldati - in altre parole, al Consiglio. Il Con­siglio prese parte all'opera rivoluzionaria, al lavoro di coordinare le attività, di mantenere l'ordine. lnoltre si assunse il compito di difendere la rivoluzione dai tradimenti della borghesia.
Dal momento che la Duma fu costretta a fare ap­pello al Consiglio, due organismi governativi comin­ciarono a esistere in Russia, ed essi combatterono per la supremazia fino al novembre 1917, quando i Soviet, sotto la direzione dei bolscevichi, abbatte­rono il governo della coalizione.
Come ho detto, vi erano Soviet sia di operai che di soldati; un po' di tempo dopo si formarono Soviet di contadini. Nella maggior parte delle città i Soviet degli operai e dei soldati si unirono; e uniti tennero il loro Congresso panrusso. I Soviet dei contadini in­vece vennero tenuti separati dagli elementi reazionari che lo dirigevano e non si riunirono agli operai e ai soldati che dopo la rivoluzione di ottobre e dopo la costituzione del governo dei Soviet.

Costituzione dei Soviet

domenica 4 giugno 2017

Storia religiosa dell'America Latina e del Caribe*- Alessandra Ciattini**

*Da:   https://www.unigramsci.it/ 
**Professore associato alla Sapienza di Roma, Facoltà di lettere e Filosofia (Discipline demoetnoantropologiche). 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/06/il-fattore-religioso-nellattuale.html 


Il corso, che si articolerà in 4 lezioni, non ha la pretesa di ricostruire nella sua globalità la storia religiosa, così variegata e ricca, del sub-continente latino-americano, ma mira ad individuare e illustrare alcuni aspetti considerati significativi, i quali sono visibili e operanti nelle forme religiose contemporanee.

La prima lezione sarà dedicata alla ricostruzione della storia dell'espressione America Latina; espressione che si è affermata e diventata comune solo in seguito alla politica espansionistica di Napoleone III, abortita nel giro di pochi anni. Allo stesso tempo ci si soffermerà sul concetto di “religiosità popolare”, partendo dal punto di vista gramsciamo secondo il quale i diversi settori sociali sviluppano forme di religiosità e concezioni del mondo loro peculiari. Saranno illustrati i caratteri della religiosità popolare, i suoi contenuti e le sue modalità di espressione, mostrando come tali contenuti e tali forme di esteriorizzazione esercitino un grande fascino nella società contemporanea, in cui consistenti settori sociali sono alla ricerca di concezioni del mondo alternative a quelle egemoni. 
Prima lezione:


Nella lezione seguente si illustreranno le ragioni che hanno portato gli europei (gli iberici in particolare) ad espandersi fuori del loro continente di origine, le modalità della conquista e dell'evangelizzazione; fenomeni che saranno considerati indissolubili e come le due facce diverse di una stessa medaglia, richiamandosi alla nozione di “colono-evangelizzazione” proposta da Enrique Dussel. 

Nella terza lezione si cercheranno di ricostruire i diversi processi culturali attraverso i quali gli amerindiani interpretano il cattolicesimo e i suoi simboli introdotti in America dagli spagnoli; al contempo, si analizzerà anche l'altra prospettiva, ossia il modo in cui questi ultimi decifrano la religiosità indigena, mostrando di fatto una totale incapacità di comprensione. Tali modalità interpretative sono oggetto ancora oggi di un intenso dibattito e sono ancora operanti nei contesti rituali, che costituiscono i momenti più intesi di espressione della religiosità popolare.

Dall'analisi di tali processi storici scaturisce l'ipotesi che essi siano all'origine del cosiddetto sincretismo religioso; fenomeno che si esprime in vari gradi e che riguarda sia le religioni autoctone che quelle di origine africana, importate con gli schiavi, e che nel corso del tempo ha visto l'incorporarsi di altre tendenze religiose, come lo spiritismo. Il sincretismo non è un fenomeno appartenente al passato; esso è vivo e vegeto, e caratterizzato da uno straordinario dinamismo che gli permette di arricchirsi anche grazie all'incremento degli scambi sociali e culturali. In tale contesto saranno analizzati nel dettaglio due processi di triplice sincretizzazione di due madonne cubane.

Infine, la quarta lezione sarà dedicata alla relazione tra religione e politica, e ci soffermeremo su questi aspetti: il carattere interclassista della Chiesa cattolica, la presenza in essa del pluralismo religioso sia pure contrastato e controllato, l'emergenza di tendenze progressiste e impegnate politicamente (come la Teologia della liberazione e le comunità ecclesiastiche di base), il conflitto tra Chiesa cattolica e i governi progressisti (il caso di Cuba e la lotta contro la Teologia della liberazione), la politica dell'attuale papa verso l'America latina e le ragioni della sua “apertura” alle richieste delle masse popolari. Si farà cenno anche al fenomeno della diffusione del pentecostalismo, fomentata dalle “missioni di fede” statunitensi, e alla sua relazione con l’imposizione a partire degli anni ’70 del Novecento delle politiche neoliliberali. 

sabato 3 giugno 2017

Il mito dell’imperialismo russo: in difesa dell’analisi di Lenin*- Renfrey Clarke, Roger Annis**

https://traduzionimarxiste.wordpress.com/   Il testo seguente è una versione più lunga di un precedente saggio: Perpetrator or victim? Russia and contemporary imperialism, di Renfrey Clarke e Roger Annis, pubblicato sul sito Links International Journal of Socialist Renewal, nel febraio del 2016. 
**Renfrey Clarke, scrittore ed attivista australiano, nel corso degli anni Novanta ha svolto il ruolo di corrispondente da Mosca per Green Left Weekly. Roger Annis, lavoratore del settore aerospaziale oggi in pensione, attivista e blogger, ha compiuto numerosi viaggi di ricerca in Crimea e nel Donbass. Entrambi sono tra i curatori del sito New Cold War (newcoldwar).

In tempi recenti, un’aspra controversia si è sviluppata in seno alla sinistra internazionale riguardo al posto occupato dalla Russia nell’odierno sistema capitalistico mondiale. Nello specifico, si tratta di una potenza imperialista, parte integrante del “centro” del capitalismo globale? Oppure le sue caratteristiche economiche, sociali e politico-militari la rendono parte della “periferia”, o semi-periferia, globali – ovvero, parte della maggioranza dei paesi che, a diversi livelli, sono oggetto dell’aggressione e del saccheggio imperialisti? [1]
Tradizionalmente, la sinistra marxista ha utilizzato il termine “imperialismo” con un alto grado di discernimento. Dunque, per i marxisti, l’imperialismo non è un qualcosa che emerge misteriosamente quando i leader si lasciano sovrastare dall'”avidità”. Né può essere ridotto alla semplice azione militare esterna, per quanto aggressiva. Per i marxisti, viceversa, l’imperialismo attuale nasce da specifiche caratteristiche dell’ordine economico e sociale dei paesi capitalistici più avanzati.

La classica definizione marxista di imperialismo nell’epoca moderna è stata fornita da Lenin nel suo pamphlet del 1916,  L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Secondo il punto di vista del leader bolscevico, il capitalismo avanzato emerso nei decenni precedenti presentava le seguenti caratteristiche salienti:
“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli come funzione decisiva nella vita economica; 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo «capitale finanziario», di un’oligarchia finanziaria; 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci; 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo; 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.” [2] 

A partire dagli ultimi decenni del XIX secolo, affermava Lenin, le economie dei paesi più industrializzati si erano mosse in direzione di una nuova fase di “capitalismo monopolistico”. Il controllo sulla vita economica da parte delle maggiori concentrazioni di capitale era giunto al punto che, in ognuno di questi paesi, l’influenza detenuta da un gruppo strettamente interconnesso dei più potenti capitalisti, finanziari e industriali, era fuori questione.

giovedì 1 giugno 2017

Contro il liberoscambismo*- Marco Veronese Passarella**

*Da:    http://www.marcopassarella.it/it/socialismo-o-liberoscambismo/ (https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/1/MPRA_paper_60350.pdf)       https://sinistrainrete.info/
** Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email: m.passarella@leeds.ac.uk. Web: www.marcopassarella.it  
Vedi anche:  https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/crisi-si-ma-quale-teoria-della-crisi.html 

1. Introduzione
Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1. In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione. D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico2. 
Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema. È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta. Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica3.Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra

mercoledì 31 maggio 2017

DEMENZA DIGITALE* - Manfred Spitzer**

*Rischi di effetti collaterali nell'uso delle tecnologie digitali nelle scuole. Dott. Manfred Spitzer. Convegno organizzato dalla Gilda di Padova (http://www.gildatv.it/)
**Manfred Spitzer, laureato in Medicina e Psicatria, è stato visiting professor a Harvard e attualmente dirige la Clinica psichiatrica e il Centro per le Neuroscienze e l'apprendimento dell'Università di Ulm (Germania).
Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html
                         https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/cose-lintelligenza-numerica-nelluomo.html



Cosa sta succedendo al nostro cervello con l'uso e l'abuso della tecnologia digitale?
Non sappiamo più usare una cartina per raggiungere un luogo e ci affidiamo totalmente al navigatore.
Non usciamo mai di casa senza cellulare e i bambini e i ragazzi usano lo smartphone e il computer per un tempo doppio a quello che trascorrono a scuola.
Sono aumentati i disturbi dell'apprendimento, lo stress, le patologie depressive e la predisposizione alla violenza.


martedì 30 maggio 2017

Vuoti di memoria - fascismo e (non) “nuovi” fascismi*

*pubblicato sulla rivista"la Contraddizione"n°130, a cura del Collettivo Autorganizzato Universitario di Napoli, 2010.    http://www.resistenze.org/ 
 
 Elaborazione del tutto
 
Dove eravamo rimasti? Abbiamo perso il filo. Sapevamo qualcosa un tempo, che oggi ci sfugge. Lo sapevamo nel ‘22: quando dietro gli uomini in camicia nera vedevamo gli industriali in camicia bianca, e oltre le violenze squadriste le “buone maniere” di chi voleva fermare con ogni mezzo la lotta operaia e contadina. Lo sapevamo nel Ventennio, quando i governi fascisti abbassarono le tasse ai ricchi, abolirono le imposte di successione, vietarono lo sciopero, e crearono le corporazioni, per opprimere ancora di più i lavoratori, fino a trascinarli, come carne da cannone, alla guerra. Lo sapevamo nel ‘43, “quando non ci furono più ordini, ciascuno dovette scegliere da sé, rischiare l’errore, decidere il dovere” – ed una nuova generazione riprese la lotta non solo contro il nazifascismo, ma contro l’oppressione e lo sfruttamento, contro i padroni dei campi e delle fabbriche, pagando quest’assalto al cielo con settantamila caduti, con centinaia di migliaia di feriti, con anni di carcere...
 
Provarono a farcelo dimenticare – un’amnistia ch’era un’amnesia: i giudici, i questori, la piccola-borghesia fedele al Duce intoccata negli apparati istituzionali, i gerarchi recuperati nei servizi segreti della nuova Italia repubblicana, con i partigiani in galera e la polizia che spara agli operai, con la mafia che uccide sindacalisti e contadini. Ma non l’avevamo dimenticato: dopo i morti di Reggio Emilia, dopo il governo Tambroni, sapevamo ancora riconoscere i fascisti, anche se non brandivano più il gladio, ma lo scudo crociato. “C’è ancora il fascismo? C’è. – scriveva Fortini – Ha ritrovato il suo viso di 50 anni fa. Prima delle camicie nere, il viso della conservazione che sul mercato politico offre ancora a buon prezzo gruppetti provocatori, perché il poco fascismo visibile mascheri il molto fascismo invisibile. La vostra coscienza cos’ha da dire? Bisogna scegliere, bisogna decidere. Il destino è solo                                                                                                               vostro. Rispondete. 

Risposero, otto anni dopo, gli studenti e gli operai, che quel destino volevano riprendersi. E rispose la bomba a Piazza Fontana. Tornò visibile il fascismo, ammazzando giovani, militanti, gente comune. Ma anche allora sapevamo chi li pagava e li copriva: gli Usa, i servizi segreti, la Dc, la grande borghesia, per far aumentare la tensione e favorire una stabilizzazione reazionaria... pienamente riuscita. Una guerra a bassa intensità, durata un decennio, finì all’improvviso. Il fascismo visibile tornò marginale, quello invisibile no: trovò altri strumenti. E forse allora smettemmo di sapere, perdemmo il filo del discorso. Le nostre voci si abbassavano, altre voci ci chiamavano, ci lasciammo sorprendere dal “nuovo”, e tutti i nostri ricordi non tornarono a chiedere il conto. Quella che era stata una consapevolezza di massa tornava ad essere il terribile segreto di pochi. Non sapevamo più riconoscere un fascista, nemmeno far riconoscere un fascista. E i nostri vuoti di memoria erano i pieni del potere... 

martedì 23 maggio 2017

Debolezze e potenzialità negli argomenti anti-hegeliani del giovane Marx*- Carlo Scognamiglio

1. La Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico di Karl Marx (scritta tra il 1842 e il 1843, ma pubblicata postuma nel 1927) si sviluppa intorno a un’argomentazione dominante, mutuata da Ludwig Feuerbach, il quale nel 1839, in uno scritto intitolato Per la critica della filosofia hegeliana, aveva insistito sul difetto della dialettica di Hegel, consistente nel ribaltamento dei rapporti tra soggetto e predicato. In altri termini, secondo Feuerbach, Hegel spiegherebbe l’esistente, cioè la vita concreta degli uomini, attraverso categorie astratte e universali, attribuendo a queste ultime la dimensione della soggettività, e considerando le circostanze materiali come predicati, per giunta accidentali. Tale rapporto, secondo Feuerbach, dev’essere ribaltato, per indicare nell’essere vivente concreto la vera soggettività, della quale è possibile predicare la capacità di pensiero e l’universale qualità astratta. 

Marx non recepisce meccanicamente l’intuizione feuerbachiana, ma la assimila in modo critico e articolato. Il libro su Hegel è sostanzialmente frutto di quest’opera di appropriazione concettuale. Leggendo il testo con attenzione, ma anche con una certa fatica, si nota qualche elemento acerbo nell’argomentazione di Marx, si ha quasi la sensazione di avere di fronte un libro filosoficamente debole, nella sua capacità effettiva di rovesciare o confutare le tesi hegeliane. Ciononostante si tratta di un libro importante, soprattutto per i numerosi spunti di critica della modernità che propone.

lunedì 22 maggio 2017

LA RIVOLUZIONE CONTRO IL CAPITALE (DI MARX)*- Alvaro Bianchi e Daniela Mussi**

*Da:    http://www.palermo-grad.com/
**Alvaro Bianchi è Professore associato al Dipartimento di Scienze politiche presso l’Università statale di Campinas (Unicamp – Brasile); Direttore dell’Archivio Edgard Leuenroth – Centro di ricerca e documentazione sociale.
​Daniela Mussi è ricercatrice post-Dottorato presso la Facoltà di Filosofia, Lettere e Scienze umane (FFLCH) dell’Università di San Paolo del Brasile.
Leggi l'articolo originale di Gramsci:  la-rivoluzione-contro-il-capitale


Gramsci e il 1917 


Ottanta anni fa – il 27 aprile 1937 – Antonio Gramsci muore dopo aver trascorso la sua ultima decade in un carcere fascista. Riconosciuto a livello internazionale molto più tardi per il lavoro teorico svolto in quelli che saranno pubblicati come Quaderni del Carcere, Gramsci iniziò a fornire un contributo di riflessione di taglio politico durante la Grande Guerra, quando era un giovane studente di linguistica presso l’Università di Torino. Già allora, i suoi articoli pubblicati sulla stampa socialista costituivano un atto di sfida non soltanto alla guerra in corso, ma anche alla cultura liberale, nazionalista e cattolica imperante in Italia.

All’inizio del 1917 Gramsci lavora come giornalista in un quotidiano socialista di Torino, Il Grido del Popolo, e collabora con l’edizione piemontese dell’Avanti!. Nei primi mesi che seguono alla Rivoluzione di Febbraio in Russia, le notizie a riguardo erano ancora scarse, in Italia. In massima parte ci si limitava alla riproduzione di articoli provenienti dalle agenzie giornalistiche di Londra e Parigi. Sull’Avanti! si seguivano gli eventi russi attraverso gli articoli firmati da “Junior”, pseudonimo di Vasilij Vasilevich Suchomlin, un Socialista Rivoluzionario in esilio. 
Per fornire ai socialisti italiani informazioni affidabili, la direzione del Partito Socialista Italiano (PSI) inviò un telegramma al deputato Oddino Morgari, che si trovava a L’Aia, chiedendogli di recarsi a Pietrogrado ed entrare in contatto con i rivoluzionari. Ma la missione fallì e Morgari fece ritorno in Italia nel mese di luglio. Il 20 aprile, tuttavia, l’Avanti! aveva pubblicato una nota scritta da Gramsci sul tentativo compiuto dal parlamentare, chiamandolo l’“ambasciatore rosso”. L’entusiasmo di Gramsci per gli eventi russi era palpabile: a questo punto egli riteneva che la potenziale capacità della classe operaia italiana di porre fine alla guerra fosse direttamente legata alla forza del proletariato russo. Pensava che con la rivoluzione in Russia tutte le relazioni internazionali sarebbero mutate radicalmente.

domenica 21 maggio 2017

Storia e oggettività in Nietzsche*- Vladimiro Giacché

*Da:  http://www.nilalienum.it/  Pubblicato su Hortus Musicus, luglio-settembre 2004, pp. 100-107



1. Storia e oggettività nella seconda Considerazione inattuale.

L'utilità e il danno della storia per la vita, pubblicata nel 1874, è la seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, ed è anche una delle sue opere più note e più lette. Tra le ragioni principali del fascino che quest'opera ha esercitato e tuttora esercita su un largo pubblico di lettori va sicuramente ricordata l'abilità di polemista del filosofo tedesco, che riesce a tenere su un tono molto teso e sostenuto tutta la prima parte dello scritto, imperniandola su variazioni del modulo retorico dell'antitesi; accanto a questo motivo di natura stilistica va collocato il bersaglio polemico dell'opera, ossia - come è detto nella Prefazione - la "corrente storica dell'epoca [historische Zeitrichtung]", l'attenzione (soprattutto tedesca) alla storia. Proprio questo obiettivo degli strali di Nietzsche, facilmente identificabile con lo “storicismo”, ha consentito di volta in volta a lettori avversi ad una delle vere o presunte varianti di questo (lo storicismo hegeliano, diltheyano, crociano, marxista...) di far proprio il discorso di Nietzsche, di utilizzarlo come arma per la propria battaglia: in altre parole, ha reso l'"inattualità" nietzscheana ripetutamente attuale. L'utilità e il danno della storia per la vita ha rappresentato quindi per generazioni di lettori una sorta di "canone dell'antistoricismo": e del resto proprio con questa definizione uno studioso in continuo (e simpatetico) dialogo con il pensiero del filosofo tedesco, Giorgio Colli, aprì alcune sue pagine di commento alla seconda considerazione inattuale.[2]

Ora, da un lato è difficile non concordare con il giudizio di Colli: lo scritto in questione è in effetti un attacco frontale allo storicismo, e più in generale agli effetti dell'uso della storia (ivi compresa, ovviamente, la storia della filosofia)[3] nella cultura moderna; d'altro lato, una delle ragioni di interesse di quest'opera di Nietzsche consiste nel suo dispiegare ed articolare alcuni temi centrali di un discorso metafisico sul mondo. Da questo punto di vista, i limiti di una lettura tutta 'antistoricistica' della seconda Considerazione inattuale sono evidenti. Oggetto dell'opera, in effetti, non è solo la storiografia: le implicazioni filosofiche del discorso di Nietzsche sono di assai più vasta portata, e lo stesso attacco alla storiografia può essere capito in base alla comprensione dello sfondo metafisico dello scritto. A questo va aggiunto che sul punto fondamentale - valore globalmente negativo della storia - Nietzsche non appare del tutto conseguente: talvolta impone un freno alla propria radicalità teorica, in altri casi mostra significative indecisioni o sfuma, nelle varie stesure dell'opera e nel corso di quella definitiva, contrasti dapprima presentati nella massima nettezza:[4] insomma, il percorso argomentativo di quest'opera si rivela in definitiva assai più articolato e problematico di quanto non sembri a prima vista. Ma passiamo senz’altro ad una lettura dello scritto nietzscheano.

1.1. L’attacco alla “malattia storica” 

sabato 20 maggio 2017

KARL MARX*- Lenin



*Da: Leninbreve saggio biografico ed esposizione del marxismo, Opere complete, vol. 21, pagg. 37-69    http://www.retedeicomunisti.org/ 
Leggi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nep-e-sul-capitalismo-di-stato.html 



     "Engels potette condurre per lungo tempo, dopo la morte di Marx, una sua riflessione e sviluppare temi, a cui Marx mai si interessò specificamente. Da parte loro, i più significativi seguaci di Marx, (intendo Lenin, Trockij e la Luxemburg) scrissero ed elaborarono sotto la forte pressione di problemi radicali, sia in ambito politico, che economico, organizzativo e militare; e la conseguenza fu che una teoria dello Stato e della politica, che fosse radicata nel pensiero di Marx, non riuscì a nascere. Si badi, ad es., che se Lenin scrisse opere, propriamente teoretiche (Materialismo ed empiriocriticismo e i Quaderni filosofici), in realtà la sua filosofia sta in tutt’altra sede (e per fortuna!), ovvero nel modo in cui condusse la lotta politica, sulla base di una certa concezione (hegeliana) del movimento storico; va da sé che, se è vero quanto dico, la ‘filosofia’ di Lenin è strettamente legata a situazioni contingenti e, quindi, difficilmente riducibile a precisi teoremi."
(S. Garroni)






L'articolo su Karl Marx, che esce ora in opuscolo, è stato da me scritto (a quanto ricordo) nel 1913 per il Dizionario Granat. Alla fine dell'articolo vi era una nota bibliografica abbastanza estesa delle opere su Marx, soprattutto in lingua straniera. Essa è stata omessa nella presente edizione.

Inoltre la redazione del dizionario aveva da parte sua soppresso, a causa della censura, la fine dell'articolo su Marx, dedicata all'esposizione della sua tattica rivoluzionaria. Purtroppo non ho la possibilità di ricostruire qui questa parte finale, perché la brutta copia è rimasta fra le mie carte a Cracovia o in Svizzera. Ricordo soltanto che in questa fine dell'articolo io riportavo, fra l'altro, quel passo della lettera di Marx a Engels del 16-IV-1856 in cui Marx scriveva: "In Germania tutto dipenderà dalla possibilità di far appoggiare la rivoluzione proletaria da una specie di seconda edizione della guerra contadina. Allora le cose andranno bene". È questo che non hanno capito dal 1905 i nostri menscevichi, che sono ora giunti al pieno tradimento del socialismo, al passaggio dalla parte della borghesia.  

venerdì 19 maggio 2017

HEGEL: LO STATO PERFETTO (E LA SPINA DI MARX)*- Fulvio Papi**

*Da:   http://casadellacultura.it/   Qui il link alla rivista completa:  http://casadellacultura.it/viaborgogna3/viaborgogna3-n5-filosofia-e-spazio-pubblico.pdf
**Fulvio_Papi. Filosofo, politico,scrittore e giornalista italiano


Cerchiamo di mettere in luce, riassumendoli, alcuni temi centrali della “Filosofia del diritto” di Hegel scritta nel 1820 quando aveva la cattedra di filosofia all’Università di Berlino. Gli studiosi di Hegel hanno spesso considerato i famosi scritti jenensi di Hegel dal 1801 al 1806 come precedenti importanti della “Fenomenologia dello Spirito” del 1808 come della “Filosofia del diritto”, anzi questi scritti giovanili mostrano spesso una ricchezza tematica più ampia delle successive opere a stampa. Inoltrarci in questa ricchissima selva filosofica vorrebbe dire perdere di vista la strada teorica che Hegel ha poi codificato come sua filosofia resa pubblica. Tuttavia su un tema molto generale si può trovare una linea di continuità.

Molti anni fa, siamo agli inizi degli anni Cinquanta, Mario Rossi (un amico di grande valore perduto immaturamente), studiando proprio gli scritti jenensi notava che “la preminenza assoluta di valore della determinazione politica serve a comprendere e a risolvere in sé le determinazioni sociali”. Vale a dire che ogni figura sociale, l’agricoltore, l’artigiano, il medico, il professore vanno compresi nel significato spirituale che essi hanno nella struttura ideale, unitaria e organica dello stato.

Hegel, all’inizio dell’Ottocento, conosceva le opere di Ferguson, sociologo e storico, Say, Smith, Ricardo, e classici della economia politica. Questa conoscenza ha portato a ritenere che Hegel, avendo nozione di queste opere, avesse anche una immagine teorica della società “borghese” che stava nascendo su una base capitalistica. Detta così questa proposizione non è vera. E qui è necessaria una considerazione generale intorno a che cosa sia la conoscenza di opere e quale senso esse possano avere in un tessuto interpretativo.

giovedì 18 maggio 2017

Etica, progresso, marxismo*- Giuseppe Cacciatore**

*Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane, E-ISSN 2531-9582,n° 1-2/2016, dal titolo"Questioni e metodo del Materialismo Storico" a cura di S.G. Azzarà, pp. 12-17. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/596    **Giuseppe_Cacciatore è un filosofo italiano (Università Federico II di Napoli)


Beati costoro, che il futuro della storia e il diritto al progresso misurano quasi alla stregua di un certificato di assicurazione sulla vita! (LABRIOLA 1965, p.286).


Dove diminuisce il dolore dell’uomo là c’è progresso. Tutto il resto non ha senso.(BROCH 1950,p.19).


La storia universale è una storia del progresso – o forse anche soltanto del mutamento – nei mezzi e nei metodi dell’appropriazione: dalla occupazione della terra dei tempi nomadi e agrario-feudali alla conquista dei mari del XVI e XVII secolo, fino alla appropriazione industriale dell’epoca tecnico-industriale e alla sua differenziazione fra paesi sviluppati e non-sviluppati, per finire                                                                                           all’appropriazione dell’aria e dello spazio dei nostri giorni. (SCHMITT 1972, p. 311).




Si è sempre partiti da una sorta di equazione tra idea del progresso e teorie storicistiche.
Perciò non sarebbe sbagliato sottolineare che la critica delle ideologie del progresso può anch’essa muovere da prospettive storicistiche. Questo presuppone però che si operi una distinzione nell’ambito della polisemanticità degli storicismi. Se, ad esempio, si pone in questione la prospettiva storicistica fondata non sul concetto di legge e di generalità, ma su quello di singolarità e individualità (anche nella sua declinazione etica), si modifica radicalmente l’equazione progresso/storia universale. È il caso, ad esempio, di quegli storicismi che hanno messo capo ad una filosofia speculativa della storia, o a una teoria evolutivo-ottimistica. Tutto questo ha, naturalmente, non secondari riflessi sul modo stesso di pensare e di scrivere la storia del progresso (il progresso del capitalismo o il regresso delle crisi economiche? Il progresso della società mercantile o la decadenza dell’anarchia della produzione? Il progresso delle masse o quello indotto dalla tecnica? Il progresso delle ideologie liberali o quello delle ideologie socialiste?).