domenica 20 agosto 2017

Perchè un dottorando italiano è stato torturato e ucciso in Egitto?*- Declan Walsh**

*articolo tratto da The New York Times Magazine, 15 agosto 2017, traduzione per http://www.senzasoste.it di Nello Gradirà
**Declan Walsh è il capo corrispondente dal Cairo per The Times.
Leggi anche:  http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2017-08-16/soliti-sospetti-stampa-e-mondo-vinti-221658.shtml


Con l’articolo del New York Times, uscito in sincronia col ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo, lo straziante caso di Giulio Regeni assume, a maggior ragione, i pieni contorni di un delitto politico. Certo, chi conosce davvero nel dettaglio indagini, le prove, la lingua, il contesto è in grado di capire se si tratta di un delitto immediatamente politico, con dei mandanti consapevoli fin dall’inizio, oppure se questo “status” di politicità è stato acquisito nel tempo. Un delitto politico, nei rapporti tra Stati, serve a ristabilire dei rapporti di forza, esterni e soprattutto in quella zona di confine, meno visibile, che sta tra governance, servizi segreti, appalti, finanza. Invece di fare i detective da tastiera, anche se animati magari da buone intenzioni, proviamo quindi a capire la conformazione di un pò di fili che compongono la matassa dell’assassinio politico di Giulio Regeni.  Si parla di un delitto che, per chi abbia messo un minimo le mani sulle questioni legate alla lettura del significato  della tortura, assume caratteri chiari: le molte modalità di uccisione simbolica di Regeni, ognuna per ogni diverso tipo di mutilazione fino al collasso definitivo del suo corpo, si sono saldate con i molti significati politici assunti dalla sua uccisione reale. E’ il fatto, forse, meno compreso al livello di opinione pubblica dell’articolo sul New York Times. L’uccisione di Regeni non è stato solo un avvertimento, chiaro e terribile, ai ricercatori, ai militanti dal basso, agli attivisti che si sono mobilitati,  nelle tante forme della solidarietà internazionalista, subito dopo la primavera araba. E neanche solo, e già questo interessa il livello diplomatico, un segnale, del genere “state sul vostro”, a quel mondo che si muove tra ricerca e lavoro di intelligenze tra università americana del Cairo e università inglesi di cui Regeni, suo malgrado, rappresentava comunque il contesto. E’ lo stesso New York Times che dà una lettura politica, nell’articolo, del delitto Regeni: le autorità egiziane hanno fatto capire di voler uccidere chiunque, anche bianchi ben visibili sui media, quando i loro affari interni lo richiedano. E questo per gli americani non è accettabile, non a caso il NYT, nello stesso articolo, rivela la furibonda sceneggiata del segretario di stato Usa, Kerry, contro le autorità egiziane sul caso Regeni. Questo perché gli americani valutano che quando un paese, ampiamente finanziato e supportato dagli Usa nei decenni come l’Egitto, si prende di queste licenze vuol dire che cerca troppa autonomia.

Le molte uccisioni di Regeni, operate simbolicamente tramite le mutilazioni del suo corpo prima di ucciderlo, portano quindi con sè una molteplicità di avvertimenti: agli attivisti, per i quali il messaggio è molto sinistro, al mondo della ricerca, agli Usa, alla stessa Gran Bretagna, supporter storici dell’Egitto. Ma, si sa, tutto nell’area è in movimento. E l’Italia? Il fatto che il cadavere di Regeni sia stato fatto trovare durante la visita della ministro Guidi al Cairo, unisce coincidenza temporale a messaggio politico. Già, ma quale messaggio politico? Tra i tanti ne spiccano due: un avvertimento al mondo degli affari italiano, l’Eni e la ministro Guidi stavano lavorando ad appalti considerevoli, e a quello politico che ha un nome preciso: Libia. Entrambi parlano di un contenimento, o una rimodulazione, delle ambizioni italiane nell’area sia in campo economico che politico. Certo, ogni settore ha le proprie esigenze. Curiosamente quelle dell’Eni coincidono con le disgrazie politiche della ministro Guidi. Infatti non solo l’ex ministro si è trovata nello sgradevole ruolo della persona incaricata di ritirare il “messaggio” Regeni in Egitto. Ma è anche rimasta impigliata nello scandalo, che gli è costato il posto di ministro, dell’inquinamento del centro Eni di Cova di Viggiano. E chi copre oggi, per l’ENI, la perdita di produzione del centro Eni di Viggiano? Ma ovvio: l’importazione di gas dal giacimento di gas di Zohr in Egitto. Siamo parlando di un giacimento scoperto dall’ENI nel 2015 con un potenziale di risorse fino a  850 miliardi di metri cubi di  gas e un’estensione di circa 100 chilometri quadrati, la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel Mar Mediterraneo.

All’epoca l’amministratore delegato dell’ENI, subito dopo la scoperta, si precipitò dal presidente Al-Sisi per i dettagli contrattuali dello sfruttamento del giacimento. Se qualcosa non è tornato in quella fase di definizione contrattuale dello sfruttamento del giacimento, e ricordiamo la ministro Guidi era in Egitto anche per quello, il ritrovamento del cadavere di Regeni, con la Guidi al Cairo, è servito da amplificatore dei disaccordi tra Italia ed, appunto, Egitto. Non importa se Regeni è stato ucciso per quello o no, dal punto di vista crudamente politico, è importante se la sua morte è stata utilizzata, o meno, anche per dare un avvertimento all’ENI. Oggi, oltre al fatto che Regeni è morto, la Guidi non è più ministro e l’ENI usa Zohr anche per la produzione mancata in Italia. Il contesto pare cambiato. Il New York Times ricostruisce qui la preoccupazione dell’Eni sulla vicenda Regeni e le differenze di visione tra l’azienda e il ministero degli esteri (allora occupato da Gentiloni). Ricostruzione sensata? Attacco all’Eni oltre che all’Italia? Sono cose da approfondire ma sicuramente l’omicidio Regeni è usato da tutti in un contesto sia di avvertimento politico che legato al mondo degli appalti sullo sfruttamento delle materie prime. E se l’Eni sembra aver trovato la sua strada per vivere in Libia, sfruttando Zohr, è il caso che anche l’Italia, secondo letture che sui giornali mainstream traspaiono abbastanza bene, trovi la sua pace. Seppellendo, simbolicamente, il corpo già seppellito di Regeni. Anche perché se il 6 agosto, alle agenzie di stampa, il premier egiziano Ismail auspica pubblicamente che l’ENI investa maggiormente in Egitto è chiaro che anche per la politica nazionale la svolta, dopo la vicenda Regeni, è dietro l’angolo. Già perchè l’Italia, non solo l’Eni, ha il problema libico. Giova ricordare che, a lungo, dopo aver carezzato, e prontamente disconosciuto, sogni di avventura coloniale in Libia il governo italiano ha sostenuto a lungo uno dei governi locali, quello di Al Sarraj. Governo, per quanto legittimato dall’Onu, ferocemenente avversario dell’autoproclamato governo di Tobruk, sostenuto invece dall’Egitto, dai sauditi, dalla Francia e in parte anche dagli Usa. Per farla semplice l’Italia ha bisogno di una vita, per quanto possibile, tranquilla dell’Eni in Libia e anche di qualche alleato in più per bloccare i porti dai quali i migranti partono per la Sicilia. Per fare entrambe le operazioni i rapporti con l’Egitto devono essere migliori, visto anche che è l’Egitto l’alleato forte del governo di Tobruk, oggi indispensabile per completare delle operazioni che il governo di Al Sarraj non può completare. Il seppellimento, simbolico, del cadavere di Regeni, tramite il gesto dell’invio del nuovo ambasciatore italiano al Cairo, va proprio nella direzione di un pieno messaggio politico dell’Italia all’Egitto. Un gesto che contiene una richiesta di accordo, sulla Libia, che qualche analista considera, tra l’altro, illusoria.

Politicamente parlando l’articolo del New York Times riguarda il triangolo Egitto, Usa-Italia. L’attacco all’Italia, e nello specifico alla triade Renzi-Gentiloni-Alfano, non viene dallo spauracchio Trump. Ma da quel mondo liberal, quello del NYT, e dalle fonti della ex amministrazione Obama che, secondo la propaganda renziana, dovrebbe sostenere la linea politica degli ultimi due governi.  Certo le tensioni dell’amministrazione Obama, con l’Italia sulla Libia, si erano viste quando ufficialmente gli USA hanno fatto capire di non avere gradito il mancato invio di militari italiani in Libia. Oggi, con Trump, gli Usa sembrano poi fare a meno dell’Italia visto che, proprio dopo la visita di Trump a Parigi, Macron ha spettacolarmente portato i rappresentanti del governo di Tobruk e di Tripoli nella capitale francese inscenando una riconciliazione nazionale mai riuscita alla diplomazia italiana. Certo, bisogna, nelle pagine del NYT, leggere un più generale elemento di delegittimazione della attuale dirigenza PD che il partito di Renzi non ammetterebbe mai ufficialmente, figuriamoci con le elezioni alle porte. Ma che dagli Usa, comunque sia andata la vicenda Regeni, ci sia interesse a mettere pressione all’Italia e all’Eni sembra chiaro. Come è chiaro che i due governi italiani, Renzi e Gentiloni, non hanno mai dato chiare spiegazioni, o indicate chiare responsabilità politiche dell’omicidio Regeni. Qui il New York Times è chiaro: l’Italia sapeva tutto, sia della dinamica del delitto delle delle alte responsabilità politiche, aveva prove esplosive fornite dagli Usa. Il governo italiano nega di averle mai avute.

Certo, una opposizione si vede da come sa mettere in difficoltà un governo su questi temi. Le urla di patriottismo tradito, come se fossimo sul Carso o sull’Isonzo, di Di Battista non preludono ad una capacità di mettere il governo, e Renzi, in difficoltà come, ad esempio, le opposizioni di movimento riuscirono a fare su Valpreda. I media pubblici e privati sono schierati, in servizi molto paludati e poco d’inchiesta, con il governo. I social trasudano indignazione e ricostruzioni alternative, classiche situazioni in cui il pulviscolo informativo, quello che si crea dal basso, difficilmente si fa qualcosa di coeso e incisivo. Resta quindi l’omicidio Regeni, un giovane ucciso molte volte, da vivo e persino da morto. Una uccisione fatta in molti modi, e dai molti significati, un omicidio politico il cui spettro vaga tra Egitto, Usa ed Italia.

Dell’articolo del New York Times non possiamo, infine, non notare il senso del respiro, narrativo, della costruzione del contesto complessivo in cui è avvenuta, secondo la redazione del giornale newyorchese, l’uccisione di Regeni. Qualcosa di molto diverso dalle ricostruzioni, fatte per flash, impressioni, dettagli e suggestioni tipiche di molta stampa italiana.
(La redazione di Senza Soste)

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Perchè un dottorando italiano è stato torturato e ucciso in Egitto? Di Declan Walsh

In quel giorno di novembre del 2015, l’obiettivo della polizia egiziana stava soprattuto tra i venditori ambulanti che vendono calzini, occhiali da sole da due dollari e gioielleria taroccata, raggruppati sotto le arcate degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Questi blitz erano abituali, ma si trattava di venditori che occupavano un’area particolarmente sensibile. Ad appena 100 metri di distanza c’è infatti il palazzo decorato dove il presidente egiziano, l’uomo forte dei militari Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Ora, mentre questi uomini raccoglievano frettolosamente le loro mercanzie dai tappeti e dagli ingressi, preparandosi a fuggire, si trovavano un improbabile assistente: un laureato italiano di nome Giulio Regeni.

Era arrivato al Cairo pochi mesi prima per effettuare delle ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Nato in un paesino presso Trieste da un manager commerciale e da un’insegnante, Regeni, un simpatizzante di sinistra 28enne, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera araba. Nel 2011, quando esplosero le manifestazioni in Piazza Tahrir, portando alla cacciata del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo un corso di arabo e politica all’Università di Leeds. Era al Cairo nel 2013, lavorando come interno nell’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di proteste portò i militari a cacciare il neoeletto presidente, l’islamista Mohamed Morsi, e a far salire al potere Sisi. Come molti egiziani che avevano maturato un’ostilità per il governo prevaricatore di Morsi, Regeni approvava quegli sviluppi. “È parte del processo rivoluzionario” scrisse ad un amico inglese, Bernard Goyder, ai primi di agosto. Poi, meno di due mesi dopo, le forze di sicurezza di Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro di Stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni partì poco  dopo per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per la Oxford Analytica, un centro di ricerca per le imprese.

A distanza, Regeni seguì attentamente il governo di Sisi. Scrisse rapporti sul Nordafrica, analizzando tendenze politiche ed economiche, e un anno dopo aveva messo da parte abbastanza soldi per cominciare il suo dottorato di studi sullo sviluppo a Cambridge. Decise di focalizzarsi sui sindacati indipendenti egiziani, la cui serie, senza precedenti, di scioperi, iniziata nel 2006, aveva fatto da detonatore per la rivolta contro Mubarak; ora, con la Primavera araba a brandelli, Regeni vedeva i sindacati come una fragile speranza per la bistrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011 il loro numero era esploso, moltiplicandosi da quattro a diverse  migliaia. C’erano sindacati per tutto: macellai ed assistenti teatrali, scavatori di pozzi e minatori, esattori di bollette del gas e del personale interinale delle telenovelas trash televisive che recitavano durante il mese sacro del Ramadan. C’era anche un Sindacato Indipendente dei Nani. Guidato dal suo supervisore, un noto accademico egiziano di Cambridge che aveva scritto su Sisi criticandolo, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti, giovani provenienti da villaggi lontani che cercavano di sbarcare il lunario sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo, sperando di poter implementare il potenziale del loro sindacato a guidare il cambiamento sociale e politico.

Ma nel 2015 questo genere di immersione culturale, per molto tempo promossa soprattutto da arabisti in erba, non era più tanto facile. Un’ombra di sospetto era caduta sul Cairo. La stampa era stata imbavagliata, avvocati e giornalisti erano regolarmente intimiditi e gli informatori riempivano i caffè del centro. La polizia irruppe nell’ufficio dove Regeni realizzava le interviste; sui canali TV governativi andavano regolarmente in onda storie assurde di cospirazioni straniere.

Regeni non si lasciò intimorire. Parlava correntemente cinque lingue, era insaziabilmente curioso ed emanava un fascino a bassa intensità che attraeva un’ampia cerchia di amici. Dai 12 ai 14 anni era stato il sindaco dei ragazzi del suo paese natale, Fiumicello. Era orgoglioso della sua abilità di navigare in culture diverse, e assaporava la vita di strada senza regole del Cairo: i caffè pieni di fumo, il continuo affrettarsi, le barche colorate come caramelle che ospitavano party solcando il Nilo di notte. Si era iscritto come studente ospite alla American University del Cairo e aveva trovato una stanza a Dokki, un quartiere soffocato dal traffico tra le Piramidi e il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che insegnava tedesco, e Mohamed El Sayad, un avvocato che lavorava in uno degli studi legali storici del Cairo. Dokki non era un posto affascinante, ma era distante solo due fermate della metropolitana dal centro del Cairo con il suo labirinto di hotel economici, bettole e blocchi di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. Regeni divenne presto amico di scrittori ed artisti ed esercitò il suo arabo all’Abou Tarek, un emporio di quattro piani con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano con riso, lenticchie e pasta.

Passava ore ad intervistare venditori ambulanti ad Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione ferroviaria Ramsete. Per guadagnarsi la loro fiducia, mangiava nelle strade agli stessi carretti sporchi dei  soggetti dei suoi studi; il suo supervisore accademico dell’American University lo avvertì che avrebbe preso un’intossicazione alimentare. A Regeni non importava: svolazzava per il Cairo con tranquilla determinazione.

Per caso Valeriia Vitynska, un’ucraina che aveva incontrato a Berlino quattro anni prima, era arrivata al Cairo per lavoro. Si rimisero in contatto. “Era più bella di quanto ricordassi” messaggiò ad un amico. Fecero un viaggio sul Mar Rosso, e quando lei ritornò al suo lavoro a Kiev la loro relazione continuò su Skype. “Era molto intensa e bella” mi ha detto Paz Zárate, amico di Regeni. “Era così felice, così pieno di speranza per il futuro”.

Ma Regeni era anche consapevole dei pericoli del Cairo. “È davvero deprimente” scrisse a Goyder dopo un mese di permanenza. “Tutti sono supercoscienti dei giochi che si stanno facendo”. A dicembre partecipò ad un incontro degli attivisti sindacali nel centro del Cairo e ne scrisse, sotto pseudonimo, per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro disse agli amici che aveva visto una giovane con il velo che lo fotografava con il cellulare. Era sconcertante. Regeni si lamentò con gli amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano chiedendogli dei favori, come cellulari nuovi. Poi il suo rapporto con il suo contatto principale, un quarantenne tarchiato di nome Mohamed Abdullah, ebbe, alla fine, una strana svolta.

Abdullah, che prima di arrivare al vertice del sindacato degli ambulanti aveva lavorato per una decina d’anni alla distribuzione di un tabloid del Cairo, era la guida di Regeni, gli dava dei consigli e lo presentava agli uomini che poteva intervistare. Una sera, i primi di gennaio dell’anno scorso, i due si incontrarono in una ahua -un caffè dove spesso gli uomini fumano narghilè- vicino alla stazione ferroviaria Ramsete. Davanti a un tè discussero di una “borsa di studio per attivisti” da 10.000 sterline offerta da un gruppo no profit chiamato Antipode Foundation. Regeni si offrì di fare richiesta per quel denaro. Abdullah aveva altre idee. Poteva essere usato per “progetti di libertà” -attivismo politico contro il governo egiziano? No, non poteva, rispose fermamente Regeni. Abdullah cambiò tattica. Sua figlia aveva bisogno di un’operazione, e sua moglie aveva il cancro. Avrebbe “fatto di tutto” per soldi. Regeni, con crescente esasperazione, gesticolava in modo teatrale toccando i limiti del suo arabo. “Mish mumkin,” disse. Non è possibile. “Mish professionale”.

Due settimane dopo, nel quinto anniversario della rivolta del Cairo del 2011, il Cairo era blindata. Piazza Tahrir era deserta fatta eccezione per circa cento sostenitori del governo portati lì con gli autobus per sventolare ritratti di Sisi e farsi selfie con la polizia antisommossa. I servizi di sicurezza avevano rastrellato per settimane potenziali contestatori, irrompendo negli appartamenti del centro e nei caffè. Come molti cairoti, Regeni passò la giornata a casa, lavorando e ascoltando musica. Calata l’oscurità ritenne più sicuro lasciare l’appartamento: un amico italiano lo aveva invitato alla festa di compleanno di un attivista di sinistra egiziano. Si erano accordati di incontrarsi in un caffè vicino a Piazza Tahrir.

Prima di uscire Regeni ascoltò un pezzo dei Coldplay, “A Rush of Blood to the Head”, e mandò un messaggio a Vitynska. “Esco” annunciò alle 19,41. La metro era distante pochi passi. Ma alle 20,18 Regeni non era ancora arrivato. Il suo amico italiano cominciò a cercare di contattarlo -prima con dei messaggi, poi con chiamate angosciate.

Tra le promesse più eccitanti della Primavera araba c’era la speranza che l’odiato apparato di sicurezza  egiziano sarebbe stato smantellato. Nel marzo 2011, nei primi inebrianti mesi della rivolta, gli Egiziani assalirono il quartier generale della Sicurezza di Stato, il centro principale della repressione nell’era di Mubarak, e ne uscirono con liste di informatori, copie di foto segnaletiche e trascrizioni di intercettazioni. Molti trovarono delle loro foto. Ci furono appelli per una ristrutturazione radicale del settore della sicurezza. Ma quando il Paese scivolò nel disordine post-rivoluzionario, i discorsi sulla riforma si persero. Dopo l’ascesa al potere di Sisi, nel 2013, apparve chiaro quanto poco era cambiato.

La Sicurezza di Stato fu ribattezzata Agenzia Nazionale per la Sicurezza, ma rimase sotto il controllo del potente Ministero dell’Interno, che si stimava avesse alle sue dipendenze almeno un milione e mezzo tra  funzionari di polizia, agenti di sicurezza e informatori. I funzionari che erano stati licenziati vennero riassunti e le camere di tortura riaprirono. I leader dell’opposizione temendo l’arresto, lasciarono il Paese. Osservatori sui diritti umani cominciarono a contare il numero degli “scomparsi” –dissidenti che erano svaniti nelle mani dello Stato senza arresto o processo- finché anche gli osservatori cominciarono a sparire.

Oggi l’Egitto è senza alcun dubbio un posto peggiore di quanto lo fosse sotto Mubarak. Dopo la presa del potere, Sisi fu eletto presidente nel 2014 con il 97% dei voti. Il Parlamento è stivato di suoi sostenitori, e le galere sono piene dei suoi oppositori -40.000 persone, secondo la maggior parte dei calcoli, soprattutto della Fratellanza Musulmana, l’organizzazione islamista fondata nel 1928, messa fuorilegge, ma anche avvocati, giornalisti e operatori umanitari. Sisi giustifica queste misure con il pericolo dell’estremismo. Militanti dello Stato islamico hanno combattuto i soldati egiziani in Sinai a partire dal 2014; quest’anno sono stati mandati dei kamikaze in chiese copte, uccidendo decine di persone. Un buon numero di egiziani temono che senza il pugno di ferro la loro nazione di 93 milioni di abitanti potrebbe diventare la prossima Siria, Libia o Iraq. La maggioranza delle èlite del Paese, temendo quel genere di disordini che era seguito alla Primavera araba, è decisamente con Sisi; molti dei suoi intellettuali, delusi dal loro breve esperimento di democrazia, ammettono di non avere più idee.

Non appartenente a un partito politico, Sisi trae il suo potere dai totem dello Stato -generali, giudici e capi della sicurezza –il cui potere sta aumentando. Il principio guida di questo incipiente Stato di polizia è di prevenire il ripetersi degli eventi del 2011, mi ha detto lo scorso inverno, mentre eravamo seduti nel suo giardino, un  ambasciatore occidentale, che ha chiesto di rimanere anonimo perché non è autorizzato a parlare di questo argomento. Nel suo ultimo decennio al potere, Mubarak fece un certo numero di concessioni. La Fratellanza Musulmana aveva conquistato un quinto dei seggi in Parlamento, la stampa godeva di un certo grado di libertà; alcuni scioperi sindacali venivano di malavoglia permessi. Ma niente di tutto ciò salvò  Mubarak -in realtà, nella visione degli ufficiali di Sisi, fu il suo permissivismo ad affrettare la sua caduta. La lezione era chiara: “Dare un dito è un errore” disse l’ambasciatore, elencando le caratteristiche del regime di Sisi, “segretezza, paranoia, l’idea che dimostri il tuo potere mostrandoti forte e non mostrando debolezza e costruendo ponti”.

Decifrare le trame interne delle tre maggiori agenzie di sicurezza è diventata un’ossessione per gli osservatori egiziani. “È tutto molto opaco, come una scatola nera” mi ha detto Michael Wahid Hanna della Century Foundation, un istituto di studi politici con sede a New York. “Ma ci sono degli indizi”.

Le agenzie di sicurezza sono leali a Sisi, spiega Hanna, sono sempre in movimento per posizionarsi meglio. La Sicurezza Nazionale, che si pensa abbia 100.000 dipendenti ed almeno altrettanti informatori, resta la più visibile. La sua rivale emergente è l’Intelligence Militare, che tradizionalmente stava fuori dalla politica ma che si è espansa sotto Sisi, che aveva guidato l’agenzia dal 2010 al 2012. Il Servizio Generale di Intelligence è l’equivalente egiziano della C.I.A. Enormemente potente sotto Mubarak, ora è vista come qualcosa che si sta ridimensionando.

Prese insieme queste agenzie esercitano un’influenza eccessiva. Possiedono le loro stazioni TV, controllano blocchi di voti in Parlamento e si immischiano negli affari; i loro agenti pattugliano le strade e internet. Tracciano la linea rossa  nella società egiziana tra ciò chge è permesso e ciò che non lo è. Questo fa dell’Egitto un posto pericoloso dove navigare per gli spiriti critici: una mossa sbagliata, o anche una battuta presa male (ci sono degli egiziani che sono finiti in galera per i loro post su Facebook), può portare all’arresto o all’obbligo di lasciare il Paese. Amnesty International stima il numero degli scomparsi in 1.700 e dice che le esecuzioni extragiudizionali sono comuni.

Quando Regeni arrivò nel 2015, si pensava che gli stranieri fossero soggetti a regole diverse. È vero che alcuni erano finiti nei guai. Precedentemente, nello stesso anno, il giornalista australiano Peter Greste di Al Jazeera era stato finalmente liberato dopo aver scontato 13 mesi di carcere con l’accusa di “danneggiare la sicurezza nazionale”; uno studente francese era stato espulso per aver intervistato attivisti democratici. I consulenti accademici di Regeni lo avvertirono di evitare contatti con membri della Fratellanza Musulmana. “La situazione qui non è facile” messaggiò ad un amico un mese dopo il suo arrivo. Ma nel complesso Regeni, mi ha detto poi il suo supervisore, credeva che il suo passaporto lo avrebbe protetto. La sua continua paura era quella di essere rimandato a Cambridge prima di finire la sua ricerca.

Una settimana dopo la scomparsa di Regeni, l’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari, fu preso da un presentimento. Con i suoi capelli grigi e la sua raffinata charme, Massari era un personaggio popolare nell’ambiente diplomatico del Cairo. Gli piaceva ospitare gruppi di accademici e politici egiziani, e nei fine settimana guardava partite di calcio con il suo omologo americano, l’ambasciatore R. Stephen Beecroft. Ora percorreva senza darsi pace i lunghi corridoi di marmo dell’ambasciata italiana guardando il Nilo.

La notizia della scomparsa di Regeni si stava diffondendo al Cairo. I suoi amici cominciarono una campagna di ricerca online con l’hashtag #whereis­giulio. I genitori di Regeni erano arrivati i aereo dall’Italia e stavano nel suo appartamento a Dokki. Circolava la voce che Regeni fosse stato sequestrato da islamisti radicali -una possibilità terrificante perché sei mesi prima un ingegnere croato rapito nelle vicinanze del Cairo era stato decapitato da militanti dello Stato islamico. L’ansia dell’ambasciatore era amplificata dal responso dei funzionari egiziani. L’ufficio dell’intelligence italiana all’ambasciata non aveva indizi, quindi cercò il ministro degli esteri, il ministro della produzione militare e il consigliere di Sisi per la sicurezza nazionale Fayza Abul Naga. Tutti dichiararono di non sapere nulla di Regeni. L’incontro più inquietante fu con il potente ministro dell’interno, Magdi Abdel-Ghaffar, che ci mise sei giorni ad accordare un incontro per poi rimanere seduto e impassibile mentre il diplomatico italiano chiedeva un aiuto. Massari se ne andò perplesso: Abdel-Ghaffar, un 40enne veterano dei servizi di sicurezza, aveva un esercito di informatori nelle strade del Cairo. Come poteva essere all’oscuro?

La polizia iniziò un’indagine per scomparsa di persona ma sembrava seguire alcune strane linee di investigazione. Quando i detective intervistarono Amr, un professore universitario di sinistra ed amico di Regeni che chiese di non utilizzare il suo cognome per proteggersi da ritorsioni, chiesero ripetutamente se  Regeni era gay. “Gli dissi che aveva una ragazza” ha detto Amr quando abbiamo preso un caffè vicino a casa sua nel sobborgo di Maadi. “E allora un altro tipo mi fa: ‘Sei sicuro che sia normale? Magari è uno di quei bisessuali’ Io gli ho detto ‘Dovreste solo trovarlo”.

La crisi fu aggravata dall’arrivo di una delegazione commerciale italiana di alto livello. Fin dal 1914 l’Italia aveva mantenuto legami diplomatici con l’Egitto abbracciando il Paese anche quando altri mantenevano le distanze. L’Italia era il principale partner commerciale dell’Egitto in Europa -quasi 6 miliardi di dollari nel 2015 -e Roma andava fiera dei suoi stretti legami con il Cairo. Nel 2014 Matteo Renzi, l’allora Primo Ministro italiano, divenne il primo leader occidentale ad accogliere Sisi nella sua capitale, e l’Italia continuò a vendere armi e sistemi di sorveglianza all’Egitto anche mentre aumentavano le prove di violazioni dei diritti.

Il giorno dopo l’incontro di Massari con il ministro dell’interno, il ministro italiano per gli investimenti  Federica Guidi volò al Cairo con 30 dirigenti italiani, sperando di concludere affari nel settore delle costruzioni, dell’energia e del commercio delle armi. Ora Regeni era al punto numero uno dell’agenda. Il gruppo andò dritto ad Al-­Ittihadiya, il principale palazzo presidenziale, dove mesi prima Regeni aveva aiutato i venditori ambulanti durante il blitz della polizia fuori dalle sue porte sul retro. Massari e Guidi vennero ammessi ad un incontro privato con Sisi, che ascoltò con serietà mentre gli italiani esprimevano i loro argomenti. Ma anche lui offrì solo solidarietà.

Quella sera Massari ospitò un ricevimento per la delegazione commerciale e i principali uomini d’affari egiziani all’ambasciata. Circa 200 persone si incrociarono nell’atrio, sorseggiando del vino nell’attesa che fosse servita la cena. Tra loro c’era il viceministro degli esteri egiziano Hossam Zaki, che si fece largo attraverso la folla fino a Massari, con l’espressione rabbuiata. “Non lo sai?” disse.

“So cosa?” rispose Massari.

“È stato trovato un corpo”.

Nelle prime ore di quella mattina l’autista di un bus passeggeri che percorreva la trafficata Autostrada del Deserto per Alessandria, nella parte occidentale del Cairo, aveva notato qualcosa al lato della strada. Una volta sceso, aveva scoperto un corpo, nudo dalla vita in giù e cosparso di sangue. Era Regeni.

Massari corse al Four Seasons hotel, dove ara alloggiata la Guidi, e insieme telefonarono a Renzi e al Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Cancellarono il ricevimento, mandando a casa gli ospiti esterrefatti senza alcuna spiegazione. Poi Massari e il Ministro andarono all’appartamento di Regeni a Dokki, dove alloggiavano i genitori di Regeni. Quando l’ambasciatore abbracciò la mamma di Regeni, Paola Deffendi, le sue peggiori paure ebbero conferma. “È tutto finito” disse poi alla stampa. “La felicità della nostra famiglia è stata brevissima”.

Massari arrivò all’obitorio Zeinhom nel centro del Cairo dopo la mezzanotte. Un piccolo gruppo dell’ambasciata, compreso un poliziotto, lo accompagnava. Inizialmente i funzionari della morgue rifiutarono di farli entrare. “Aprite la porta!” urlò Massari, visibilmente agitato. Massari alla fine fu condotto in una stanza refrigerata dove il corpo di Regeni giaceva su una lastra di metallo.

La bocca di Regeni era spalancata ed i suoi capelli erano sporchi di sangue. Uno dei suoi denti anteriori mancava e alcuni erano scheggiati o rotti, come se fossero stati colpiti con un oggetto arrotondato. Bruciature di sigaretta gli punteggiavano la pelle, e c’erano numerose profonde ferite sulla sua schiena. Il lobo del suo orecchio destro era stato tagliato via, e le ossa dei polsi, delle spalle e dei piedi frantumate. Un’ondata di nausea travolse Massari. Regeni sembrava essere stato pesantemente torturato. Nei giorni successivi un’autopsia italiana confermò l’estensione delle sue ferite: Regeni era stato picchiato, bruciato, accoltellato e probabilmente frustato sulle piante dei piedi per un periodo di quattro giorni. Morì quando gli fu spezzato il collo.

L’ufficio di Ahmed Nagy, il procuratore che inizialmente aveva supervisionato l’indagine per l’assassinio di Regeni, è al settimo piano del fatiscente edificio del tribunale di Giza, a poche miglia da Piazza Tahrir. Ogni santo giorno centinaia di persone scorrono attraverso gli stretti corridoi –avvocati, detenuti incatenati e le loro famiglie. Quando andai a trovarlo poche settimane dopo la morte di Regeni, Nagy, un segaligno fumatore accanito, era appollaiato dietro una scrivania in stile Luigi XIV, con pile di fogli e tazze di caffè bevute a metà.

Nelle prime ore dell’indagine, Nagy aveva parlato con stupefacente sincerità. Aveva detto ai giornalisti che Regeni aveva sofferto una “morte lenta” e aveva ammesso che la polizia poteva essere coinvolta: “Non lo escludiamo”. Ma dopo poco tempo, il detective capo del caso ipotizzò che Regeni fosse morto in un incidente d’auto. Sporche teorie fecero la loro comparsa sui giornali ed in TV: Regeni era gay ed era stato ucciso da un amante geloso. Era un drogato o una pedina della Fratellanza Musulmana. Era una spia. In alcuni servizi si menzionava il suo lavoro alla Oxford Analytica, che era stata fondata da un ex funzionario dell’amministrazione Nixon, come probabile prova del suo impiego presso la C.I.A. o il britannico M.I.6. In una conferenza stampa, il ministro dell’interno Abdel-Ghaffar smentì le ipotesi secondo cui le forze di sicurezza avessero arrestato Regeni. “Naturalmente no!” disse. “Questo è il punto finale sulla questione: non è successo”.

L’ufficio di Nagy era freddo e buio, le tende chiuse strettamente mentre l’aria usciva da un rumoroso condizionatore. Con i suoi capelli tirati indietro e un sorriso scintillante, Nagy creava un’atmosfera di facile confidenza. Ma la baldanza dimostrata in precedenza sul caso Regeni se n’era andata. Rispondeva alle mie domande con evasiva cortesia, accendendo una sigaretta dietro l’altra mentre parlava. “I delitti possono restare impuniti” concluse Nagy dopo 30 minuti infruttuosi “Dobbiamo solo aspettare. Inshallah, qualcosa verrà fuori”.

I funzionari egiziani hanno una lungo curriculum di gestione delle crisi proprio in questo modo: negazione, poi offuscamento, seguito dal lasciar correre l’orologio nella speranza che il problema scomparirà. Nel settembre 2015, il mese in cui era arrivato Regeni, la mitragliatrice di un elicottero egiziano aveva ucciso otto turisti messicani e quattro egiziani che facevano un picnic nel Deserto Occidentale, scambiandoli per terroristi. Invece di scusarsi, le autorità cercarono di dare la colpa alle guide, poi promisero un’inchiesta che non ha mai raggiunto nessun risultato. Il governo messicano era furioso. Un mese più tardi, l’Egitto inizialmente rifiutò di ammettere che una bomba dello Stato Islamico aveva abbattuto un jet di linea russo sul Sinai, uccidendo 224 persone, anche se sia la Russia che lo Stato Islamico avevano detto che era andata così.

Ma se i funzionari egiziani pensavano di uscire dalla crisi Regeni bluffando avevano sbagliato i calcoli. Più di 3mila persone parteciparono ai suoi funerali al suo paese, Fiumicello; in tutta Italia il dolore si tramutò in indignazione quando emersero i dettagli della sua agonia sotto tortura. Sulla stampa Regeni era spesso ritratto in una foto che lo mostrava sorridente con un gatto tra le braccia. Striscioni gialli con lo slogan Verità per Giulio Regeni [in italiano nell’originale, ndt] apparvero in città e paesi. “Ci fermeremo solo quando avremo scoperto la verità” disse il primo ministro Renzi ai giornalisti. “La verità vera, non una di convenienza”.

L’ira di Renzi era basata su più di un’indicazione. Nelle settimane successive alla morte di Regeni, gli Stati Uniti avevano acquisito informazioni di intelligence esplosive dall’Egitto: la prova che i funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni. “Abbiamo prove inconfutabili della responsabilità ufficiale dell’Egitto” mi ha detto un funzionario dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex funzionari che hanno confermato l’informazione. “Non c’erano dubbi”. Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti avevano passato questa conclusione al governo Renzi. Ma per evitare che fosse identificata la fonte, gli americani non passarono l’informazione grezza, né dissero quale agenzia di sicurezza credevano che ci fosse dietro la morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo, e presumibilmente di ucciderlo” ha detto un altro ex funzionario. Quello che gli americani sapevano per certo, dissero agli italiani, era che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevamo dubbi che i più alti vertici fossero a conoscenza di tutto questo” ha detto l’altro ufficiale “Non so se avessero delle responsabilità. Ma sapevano. Sapevano”.

Alcune settimane più tardi, all’inizio del 2016, John F. Kerry, allora segretario di Stato, affrontò il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, durante un incontro a Washington. Fu una conversazione “piuttosto conflittuale”, mi ha detto un funzionario di Obama conversation, anche se la squadra di Kerry non riuscì a capire se Shoukry stesse alzando un muro o se semplicemente non conosceva la verità. Questo brusco approccio fece “alzare le sopracciglia” [l’attenzione, ndr] all’interno dell’amministrazione, ha detto un altro, perché Kerry aveva la fama di trattare l’Egitto, un fulcro della politica estera americana dopo l’accordo di pace del 1979 Egitto-Israele, con i guanti bianchi.

All’epoca un team di sette investigatori italiani era arrivato al Cairo per aiutare l’indagine egiziana. Vennero ostacolati su ogni mossa. I testimoni sembravano essere stati addestrati. Le registrazioni della videosorveglianza dalla stazione della metropolitana vicina all’appartamento di Regeni erano state cancellate; le richieste dei dati di milioni di chiamate telefoniche vennero respinte sulla base del fatto che questo avrebbe violato i diritti costituzionali di cittadini egiziani. Alcuni coraggiosi testimoni egiziani fecero visita agli investigatori nel loro ufficio provvisorio nel seminterrato dell’ambasciata italiana. Ma anche lì gli italiani erano a disagio.

Massari, l’ambasciatore, cominciò ad occuparsi della sicurezza dell’ambasciata dopo la morte di Regeni; presto smise di usare le mail e il telefono per questioni delicate, riesumando una vecchia macchina per criptare basata sulla carta per mandare messaggi a Roma. I funzionari italiani erano preoccupati che gli egiziani che lavoravano nell’ambasciata italiana passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane; notarono che le luci erano permanentemente spente in un appartamento di fronte all’ambasciata –un buon punto per piazzare un microfono direzionale. Massari, ancora traumatizzato dal ricordo delle ferite di Regeni, era diventato un recluso, ed evitava incontri con altri ambasciatori. Il suo rapporto con il governo egiziano si stava deteriorando; funzionari egiziani, infuriati per un’intervista che aveva rilasciato a una TV italiana, erano convinti che stesse cercando di dargli la colpa dell’omicidio. “Abbiamo dedotto che si è già schierato da una parte”, mi disse successivamente Hossam Zaki, il viceministro degli esteri. “Era come irrilevante. Inutile”. Quando Massari si avventurò fuori, la gente notò che appariva esausto. Gli amici dissero che non riusciva a dormire.

La pressione internazionale stava pesando sugli egiziani. I giornali italiani mandavano i loro più ostinati reporter investigativi al Cairo. Venne fuori un sito web chiamato RegeniLeaks, che chiedeva soffiate a delatori egiziani. La mamma di Regeni iniziò la sua campagna personale per scoprire la verità, raccontando in una conferenza stampa che era stata in grado di riconoscere il suo corpo maltrattato solo dalla “punta del naso”. Attori italiani, personaggi della TV e calciatori si schierarono al suo fianco. Gli egiziani dissero alla  Deffendi che suo figlio “era morto come un egiziano” –un riconoscimento onorifico nell’Egitto di Sisi. Il Parlamento europeo approvò una pungente risoluzione di condanna per le circostanze sospette nelle quali Regeni era morto; a Londra i promotori di una campagna presentarono una petizione con più di 10.000 firme al Parlamento, chiedendo al governo britannico di assicurare un’”indagine credibile”. Anche l’F.B.I. supportò l’indagine italiana; quando un’amica egiziana di Regeni atterrò negli Stati Uniti, in vacanza, degli agenti la presero da parte per un interrogatorio.

Questa volta costruire un muro non avrebbe funzionato. “Siamo nella [parolaccia] più profonda,” osservò un conduttore televisivo di punta, Amr Adeeb, nel suo show.

“Parla latino?” mi ha chiesto Luigi Manconi, un senatore italiano che ha sposato la causa della famiglia Regeni, quando sono andato a trovarlo a Roma in gennaio. “C’è una frase in latino, arcana imperii. Significa i segreti del potere”. Fece una pausa e guardò in su per vedere l’effetto.

“Questo è ciò che vediamo in Egitto: il lato oscuro di quelle istituzioni; i segreti nei loro cuori”.

Il senatore si riferiva alle agenzie di sicurezza egiziane, ma quello di cui non parlava era che l’inchiesta Regeni stava anche mettendo alla luce dolorose spaccature interne allo Stato italiano. C’erano altre priorità. I servizi di intelligence italiani avevano bisogno dell’aiuto dell’Egitto per contrastare lo Stato Islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo. E la compagnia energetica italiana cotrollata dallo Stato, Ente Nazionale Idrocarburi, o Eni, aveva i suoi propri interessi. Alcune settimane prima che Regeni arrivasse al Cairo, l’Eni aveva annunciato un’importante scoperta: il giacimento di gas Zohr, distante 120 miglia dalle coste dell’Egitto, con un contenuto stimato di 850 miliardi di metri cubi di gas -l’equivalente di 5 miliardi e mezzo di barili di petrolio.

L’Italia è uno dei Paesi europei più vulnerabili sul piano energetico, cosa che fa dell’Eni più che un gigante da 58 miliardi di dollari con operazioni in 73 Paesi; ne fa una parte integrale della politica estera italiana. Nel 2014, Renzi lo sapeva bene, tanto da chiamare l’Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera e della nostra politica di intelligence”. In molti Paesi, l’amministratore delegato dell’Eni Claudio Descalzi, un petroliere di punta milanese, che ha recentemente guidato vari tentativi di esplorazione in Africa –conosce i leader meglio dei ministeri italiani.

Mentre la pressione per risolvere il delitto Regeni saliva, Descalzi, un visitatore abituale al Cairo, assicurava ad Amnesty International che le autorità egiziane stavano “facendo il massimo sforzo” per trovare i killer di Regeni. Discusse il caso almeno tre volte con Sisi. Secondo un funzionario del Ministero degli Esteri italiano, i diplomatici erano arrivati a credere che l’Eni si era unita ai servizi di intelligence italiani allo scopo di trovare una soluzione veloce del caso. L’Eni ha una lunga storia di assunzioni di spie italiane in pensione per comporre la propria divisione di sicurezza interna, dice Andrea Greco, co-autore di “Lo Stato parallelo”, un libro del 2016 sull’Eni. “Hanno una forte collaborazione” dice. “Sono certo che possano aver collaborato sul caso Regeni, anche se non è certo che i loro interessi coincidano”. Una portavoce dell’Eni dice che la compagnia è “inorridita” per la morte di Regeni e anche se non ha la responsabilità di investigare, ha continuato a “seguire la questione molto da vicino” nelle sue interazioni con il governo egiziano.

La percepita cooperazione tra l’Eni e i servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensione all’interno del governo italiano. Il Ministero degli Esteri e funzionari dell’intelligence cominciarono a stare in guarda gli uni dagli altri, talvolta tenendo per sé le informazioni. “Eravamo in guerra, e non solo contro gli egiziani” mi ha detto un funzionario. I diplomatici sospettavano che le spie italiane, nel tentative di chiudere il caso, avessero concordato un‘intervista del quotidiano italiano La Repubblica con Sisi sei settimane dopo la morte di Regeni. (L’editore de La Repubblica sostiene che la richiesta dell’intervista venne dal giornale) In essa,  Sisi esprimeva solidarietà ai genitori di Regeni, definendo la sua morte “terrificante e inaccettabile” e prometteva di trovare i colpevoli. “Arriveremo alla verità” diceva.

Il 24 marzo, otto giorni dopo la comparsa dell’intervista, la polizia del Cairo aprì il fuoco su un minivan che trasportava cinque uomini, alcuni con la fedina penale sporca o storie di abuso di droga, mentre transitava in  un sobborgo di gente benestante. Tutti e cinque furono uccisi, e la polizia fece una dichiarazione in cui veniva definite una banda di sequestratori che prendeva a bersaglio gli stranieri. Nel susseguente raid in un appartamento associato a questi uomini, la polizia disse di aver trovato il passaporto di Regeni, la carta di credito e la carta d’identità di studente. Subito i media di Stato informarono che i killer di Regeni erano stati identificati. Gli investigatori italiani, che si trovavano all’aeroporto del Cairo per volare a casa per la Pasqua, vennero richiamati, e il Ministero dell’Interno li ringraziò per la cooperazione.

In Italia, le notizie sulla sparatria vennero accolte con scetticismo, l’hashtag #noncicredo circolava su twitter. Il resoconto egiziano perse velocemente credibilità. Testimoni raccontarono ad alcuni giornalisti (me compreso) che gli uomini erano stati giustiziati a sangue freddo. Uno fu colpito mentre correva, e il suo cadavere posizionato successivamente nel furgone. “Non hanno mai avuto una chance” mi disse un uomo scuotendo la testa. Il legame di questi uomini con Regeni crollò: gli investigatori italiani usarono registrazioni telefoniche per dimostrare che il presunto leader della gang, Tarek Abdel Fattah, era 60 miglia a nord del  Cairo il giorno in cui si supponeva che avesse rapito Regeni.

Infine, ultima caduta, il procuratore capo dell’Egitto disse alla sua controparte italiana che due funzionari di polizia erano stati accusati di omicidio in relazione alle cinque morti. Ma rimase una domanda imbarazzante: se gli uomini che erano morti non avevano ucciso Regeni, come era arrivato il suo passaporto nel loro appartamento?

Gli italiani avevano pochi dubbi che l’intero episodio fosse una rozza montatura, così maldestramente pasticciata che gli egiziani avevano incriminato se stessi. Eppure aveva funzionato. I detective italiani lasciarono il Cairo, e l’indagine si fermò. Massari fu sostituito da un nuovo ambasciatore a cui fu ordinato di rimanere a Roma. In Egitto, “Regeni” diventò una parola da sussurrare. “Tutti coloro che ci tengono a Giulio hanno paura” mi disse Hoda Kamel, un’organizzatrice sindacale che aveva aiutato Regeni nella sua ricerca. “La sensazione è che lo Stato, con tutta la sua forza, stia cercando di chiudere la storia”.

Dopo mesi di relazioni diplomatiche tese, il muro egiziano di negazione crollò, o sembrò che così fosse. In un viaggio a Roma, lo scorso settembre, il procuratore capo dell’Egitto, Nabil Sadek, ha ammesso pubblicamente che l’Agenzia Nazionale egiziana per la Sicurezza, sospettando Regeni di spionaggio, lo stava tenendo d’occhio. In una serie di incontri nei mesi successivi, fornì agli italiani i documenti –registrazioni telefoniche, dichiarazioni di testimony e un video- che mostravano come Regeni fosse stato tradito da alcune persone vicine a lui.

Muhammad Abdullah, il contatto di Regeni nel sindacato dei venditori ambulanti, era un informatore dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza. Usando una telecamera nascosta, aveva registrato le conversazioni con Regeni sul contributo da 10.000 sterline (gli egiziani consegnarono il video). Fece una dichiarazione descrivendo nei dettagli I suoi incontri con il suo superiore, Col. Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, che, disse, gli aveva promesso una ricompensa una volta che il caso Regeni fosse chiuso.

L’identità della seconda persona era forse ancora più sorprendente. I funzionari italiani arrivarono alla convinzione che il mese prima della scomparsa di Regeni, l’avvocato suo compagno di stanza, Mohamed El Sayad, aveva permesso a funzionari dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza di perquisire l’appartamento. Nelle settimane successive, come mostravano le registrazioni telefoncihe, Sayad aveva parlato con due funzionari dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza.

Sayad non ha risposto alle richieste di commenti, ma ho avuto un lungo scambio su Facebook con l’altra compagna di stanza di Regeni, Juliane Schoki. Il suo racconto era sintomatico del clima di diffidenza nel Cairo di Sisi. Secondo Schoki, Sayad aveva manifestato sospetti su Regeni pochi giorni dopo il loro trasloco nell’appartamento. “Penso che Giulio sia una spia” ricorda di averlo sentito dire.

Dopo che Regeni scomparve, lei cominciò a condividere questa visione. I due ipotizzarono che lavorasse per il Mossad. (Regeni, ha detto, le disse una volta di aver avuto una ragazza israeliana e aveva visitato Israele). Schoki, che poi ha lasciato l’Egitto, aveva comunicato questa teoria a funzionari di intelligence egiziani. “Rimasero sorpresi perché anche loro avevano la stessa idea” ricorda.

Dopo la morte di Regeni, avrebbe guardato thriller in TV con Sayad, dicendo “È proprio così!” -cosa che a distanza di tempo “appare un po’ ridicola” ammette. “Ma un anno fa aveva perfettamente senso”.

Gli italiani hanno usato le registrazioni telefoniche egiziane per fare altre connessioni e hanno scoperto che I funzionari di polizia che avevno dichiarato di aver trovato Il passaporto di Regeni erano stati in contatto con membri della squadra dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza che aveva seguito Regeni. Improvvisamente, i genitori di Regeni osarono sperare che la verità potesse affiorare. “Il male si sta lentamente dipanando come una matassa di lana” scrissero I suoi genitori in una lettera pubblicata da La Repubblica nel primo anniversario della sua sparizione.

Ma anche se gli egiziani avevano ammesso di aver sorvegliato Regeni, insistevano di non averlo né rapito né ucciso. E anche se poteva essere provato, il nocciolo del mistero rimaneva: Perché era stato “ucciso come un egiziano”? Una teoria comune puntava il dito sull’opera di un funzionario malvivente. Al Ministero dell’Interno, che controlla la Sicurezza nazionale, anche i funzionari di basso livello godono di una considerevole autonomia ma ciò nonostante sono tenuti raramente a relazionare, stando a quanto dice Yezid Sayigh, professore anziano al Carnegie Middle East Center di Beirut. “Possono succedere cose che Sisi non approva” ha detto. Ma c’erano molte altre cose che avevano poco senso. Quale funzionario egiziano aveva potuto pensare che torturare uno straniero fosse una buona idea? Perché gettare il suo corpo su un’autostrada piena di traffico, invece di bruciarlo nel deserto dove poteva non essere mai trovato? E perché mostrare il suo corpo proprio mentre una delegazione italiana arrivava al Cairo?

Una lettera anonima inviata all’ambasciata italiana a Berna, in Svizzera, l’anno scorso e poi pubblicata su un giornale italiano, offriva un’altra spiegazione: Regeni era rimasto coinvolto in un’oscura faida tra la Sicurezza Nazionale e l’intelligence militare, con un gruppo che cercava di usare la sua morte per mettere in imbarazzo l’altro. I dettagli fanno pensare che l’autore del racconto sia un intimo conoscitore dell’apparato di sicurezza egiziano, ance se appare improbabile che una sola persona sappia così tanto. Funzionari americani di lungo corso mi hanno detto che la lettera era compatibile, comunque, con rapporti d’intelligence più generali sulle feroci manovre per il potere tra agenzie per la sicurezza rivali. “Cercano di usare I casi come leva per mettere in imbarazzo gli altri” mi ha detto uno di loro.

L’ipotesi più allarmante è che la morte di Regeni fosse un messaggio deliberato –un segno che, sotto Sisi, anche un Occidentale potesse essere soggetto agli eccessi più brutali. A Roma, un funzionario mi ha detto che quando il corpo di Regeni fu trovato, era fissato ad un muro. “Volevano che fosse trovato?” si chiede il funzionario. Il funzionario di Obama ha detto di credere che qualcuno ai “gradini più alti” del governo egiziano possa aver ordinato la morte di Regeni “per mandare un messaggio ad altri stranieri e a governi stranieri di smetterla di giocare con la sicurezza egiziana”.

Nessun funzionario egiziano di lungo corso ha accettato di parlare con me per questo articolo. Ma Hossam Zaki, l’ex viceministro degli Esteri che ora è assistente segretario generale alla Lega Araba, mi ha detto che i funzionari egiziani credono che il delitto sia stato opera di un non meglio identificato “terzo” che cercava di sabotare le relazioni dell’Egitto con l’Italia. “Gli egiziani non trattano male gli stranieri. Punto” dice.

Nonostante questo la morte di Regeni produce gelo nella sempre più ridotta comunità di espatriati del Cairo. “Poche cose mi hanno scioccato così profondamente” mi ha detto un diplomatico europeo. Prima di parlare, il diplomatico mi ha chiesto di lasciare il cellulare in una scatola che non lasciava passare il segnale, in modo che la nostra conversazione non potesse essere sorvegliata. La morte di Regeni, ha continuato il diplomatico, è il segnale di una dinamica più generale dell’Egitto: Regeni era caduto vittima della paranoia per gli stranieri che ora percorre la società egiziana; dalla rivoluzione in poi, anche le piccole interazioni possono essere traumatiche. Durante un pranzo nel quartiere islamico del Cairo, ha raccontato il diplomatico, un  uomo agitato si è lamentato ad alta voce con un altro ospite per aver fotografato il pasto –fagioli, pane e tamiyya, i falafel egiziani. “Ha cominciato a gridare: ‘Sei uno straniero. Userai questa immagine per far vedere che mangiamo solo pane e fagioli!’”

A Fiumicello, dove Regeni era cresciuto e i genitori vivono ancora,  uno striscione dove si legge “Verità per Giulio Regeni” è appeso nella chiesa principale, ma pochi credono che la verità verrà mai fuori. La famiglia di Regeni ha serrato i ranghi, designando un combattivo avvocato come suo portinaio, e ha iniziato la sua propria investigazione sul delitto. (I suoi genitori hanno declinato la richiesta di un’intervita per questo articolo ma hanno risposto ad alcune domande per e-mail.) Al quartier generale del Gruppo Operativo Speciale dei Carabinieri a Roma, specializzato in operazioni antiterrorismo e anti-mafia, il Gen. Giuseppe Governale insiste sul fatto che c’è ancora speranza di risolvere il crimine. “La mentalità araba è di rimandare tutto finché tutti si dimenticano” ha detto. “Ma noi non ci fermeremo finché non avremo trovato una risposta. Lo dobbiamo a sua madre”.

Gli italiani hanno quella che Carlo Bonini, un giornalista de La Repubblica che ha scritto molto sul caso Regeni, chiama “l’ultima pallottola”. Secondo la legge italiana, potrebbero incriminare in un tribunale italiano il pugno di funzionari di sicurezza egiziani che credono siano responsabili. Ma potrebbe essere una vittoria di Pirro: l’Egitto non accetterebbe mai di estradare qualcuno per il processo. E sembra che ci siano poche possibilità che Sisi possa essere pressato finché riveli la verità. A Roma il mese scorso dei funionari hanno ammesso che l’indagine era ormai un po’ più che un kabuki geopolitico; la politica e non la polizia ne determinerebbero la conclusione. Nei 18 mesi trascorsi da quando Regeni è stato ucciso, Sisi ha cenato con la cancelliera tedesca Angela Merkel di fronte alle piramidi, e in aprile ha ricevuto un benvenuto entusiasta alla Casa Bianca dal Presidente Trump. Il 14 agosto, il governo italiano ha annunciato che intende rimandare l’ambasciatore al Cairo. Il giacimento di gas Zohr è sulla via di incominciare la produzione a dicembre.

A Fiumicello, Regeni giace sepolto sotto un filare di cipressi. Fiori, candele votive e volumi plastificati di Spinoza e Hesse sono ammucchiati sulla sua tomba, e una piccola fotografia lo mostra mentre parla in pubblico, tenendo in mano un microfono, la sua faccia aperta ed onesta. Ma diversamente dalle elaborate tombe che lo circondano, la pietra tombale di Regeni è solo una lastra di marmo liscio. Perché l’investigazione è ancora aperta, ha spiegato il parroco, e i funzionari potrebbero ancora aver bisogno di riesumare i suoi resti.


1 commento:

  1. "a quel mondo che si muove tra ricerca e lavoro di intelligenze tra università americana del Cairo e università inglesi di cui Regeni, suo malgrado, rappresentava comunque il contesto."
    suo malgrado......cioè un "compagno" lavora per Cambridge e per Oxford Analytica (notizia mai smentita), ma non se ne era accorto? Guardate, mio malgrado, mi faccio fare tre lettere di presentazione da tre banditi accademici e mi faccio, mio malgrado, arruolare nel Fondo Monetario Internazionale.
    Certo che è un delitto politico, certo che è stato ammazzato per colpire gli interessi italiani in Egitto, certo che è stato sacrificato da qualche personaggio poco pulito delle "intelligenze", ma perché noi comunisti dovremmo indignarci? Perché era un nostro compagno? Ma fatemi il piacere. Se Regeni avesse studiato con Stefano Garroni sarebbe ancora vivo

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